martedì 29 dicembre 2015

Dag Solstad, "La notte del professor Andersen", Iperborea


 Oslo, seconda metà degli anni novanta: è la notte di Natale, e Pål Andersen – 55 anni, divorziato senza figli, grande esperto di Ibsen, stimato professore di letteratura presso la locale Università – sta festeggiando la tradizionale ricorrenza in casa sua. È solo, ma non è affatto triste; anzi, si è preparato una cena gustosa, ha indossato un abito elegante e ora si sente perfettamente in armonia col mondo.
 Quando però si affaccia alla finestra con l’intenzione di contemplare la felicità degli altri attraverso le finestre illuminate degli edifici sull’altro lato della strada, un fatto inatteso interviene a spezzare quell’armonia: il professor Andersen assiste all’assassinio di una giovane donna bionda da parte dell’uomo che è con lei all’interno di uno degli appartamenti dirimpetto.
 D’impulso il professor Andersen si getta sul telefono per chiamare la polizia, ma una forza misteriosa lo trattiene; non denuncerà il delitto né quella sera né il giorno successivo.
 Con il passare dei giorni e poi delle settimane e dei mesi, il pensiero dell’omicidio di cui è stato testimone e che è rimasto impunito diventa un’ossessione per il protagonista del libro, senza tuttavia che egli riesca a parlarne né con gli amici che conta nella capitale, né con il collega che raggiunge in aereo a Trondheim con l’intenzione di confidarsi con lui.
 Le scuse dietro le quali il professor Andersen si trincera per giustificare la propria inerzia e il proprio silenzio sono le più disparate: si dice che il criminale non sfuggirà comunque alla giustizia, perché nel momento in cui si noterà la scomparsa della giovane donna, le attenzioni degli inquirenti non potranno che appuntarsi sull’uomo che era con lei; che forse la donna non è morta; che il delitto potrebbe essere esclusivamente frutto della sua immaginazione; si racconta persino che è legittimo, talvolta, esitare ad assumere la responsabilità della condanna senza appello di un uomo che non si conosce…

Dag Solstad

 E tuttavia, nel momento in cui, in un ristorante giapponese non lontano da casa sua, si trova faccia a faccia con l’assassino, lo riconosce, addirittura si vede costretto a intavolare una generica conversazione con lui, Pål Andersen deve ammettere a se stesso quanto siano inconsistenti le sue giustificazioni, e provare a dare una spiegazione autentica al proprio comportamento.
 Alla fine è costretto a dichiarare quanto, in fondo, dentro di sé, già sapeva: la sua decisione è stata frutto di una sorta di perfetto delirio di onnipotenza, del brivido voluttuoso che trasmette la possibilità di schioccare semplicemente le dita e di decidere così – magnanimamente − della sorte di un uomo, della vertigine solipsistica di sostituire le proprie leggi a quelle dettate dalle buone norme della convivenza civile, dalla morale corrente o dal timor di Dio.
 Il professor Andersen è arrivato a non credere più nell’uomo; la migliore premessa perché all’uomo assolutamente tutto sia consentito.
 Quello che, da principio, sembra un giallo, si trasforma presto in un romanzo esistenziale-filosofico in cui uno dei migliori scrittori norvegesi contemporanei gioca a sovrapporre alla realtà effettuale l’universo mentale del protagonista.
 La lettura è gradevole e l'effetto finale è sicuramente disturbante, ma forse non sufficientemente straniante - a tutti i livelli - perché si possa parlare di un grande libro.

Voto: 6

giovedì 24 dicembre 2015

Emmanuel Carrère, "Il Regno", Adelphi


 Uno dei libri migliori che io abbia letto nel 2015.
 Emmanuel Carrère ricostruisce la storia delle origini del cristianesimo: lo fa da non credente – o meglio, da ex credente –, sulla scorta del suo stile particolare e inconfondibile, con quella tendenza ad addomesticare il sublime che è il suo maggior pregio e, forse, anche il suo limite più evidente.
 La base del suo lavoro è costituita da anni di rigorose ricerche sui testi sacri e sui documenti, ma il suo approccio è quello del romanziere, che applica il criterio della verosimiglianza per immaginare (e aiutare il lettore a immaginare) quello che non può essere accertato senza ombra di dubbio. Si sviluppa così un tentativo appassionante, tutto giocato sulla fantasia e sulla sensibilità filologica e psicologica dell’autore, di narrare con occhi nuovi una vicenda iniziata in un angolo oscuro dell’impero romano duemila anni fa, che tutti credono di conoscere abbastanza bene ma della quale possediamo in realtà solo pochi dati oggettivamente verificabili, sui quali si sono peraltro depositate le incrostazioni culturali di secoli di congetture, interpretazioni interessate, false credenze, miti popolari.
 Ne risulta un discorso brillante, idiosincratico, non prettamente scientifico, decisamente laico ma per nulla pervaso da un anticlericalismo di maniera; insomma, sempre molto originale.
 L’attenzione di Carrère non si concentra tanto sulla storia di Gesù (colui che in vita voleva essere re degli ebrei, e una volta morto finì per essere re di tutti tranne che degli ebrei), quanto su quella degli apostoli che furono protagonisti della diffusione in tutto il mondo antico del credo della loro piccola setta, di cui sarebbe stato facile pronosticare l’estinzione.
 Il merito principale dell’espansione della nuova fede al di fuori del territorio angusto della Palestina fu senz’altro di Paolo di Tarso, cittadino romano di origine ebraica che pose i presupposti in virtù dei quali il culto di Cristo poté diventare una religione diversa dall’ebraismo, e il cui ruolo nel processo di definizione e affermazione del cristianesimo fu storicamente più decisivo di quello di Gesù stesso (da lui mai incontrato). Per quanto se ne sa, Paolo era brutto, scontroso, collerico, e pessimi erano i suoi rapporti con la comunità dei cristiani di Gerusalemme, fondata sull’autorità dell’apostolo Pietro e di Giacomo, fratello di sangue di Cristo. Era però un uomo pervaso da un’energia impareggiabile, dotato di una retorica martellante e di una incrollabile forza d’animo, che facevano sì che le sue prese di posizione e la sua predicazione sfiorassero spesso il fanatismo. Di Paolo fu l’intuizione di puntare sulla potenza che era intrinseca all’idea (non scontata) della resurrezione; sua fu l’iniziativa di diffondere la “buona novella” fra i gentili e anche quella di ritualizzare l’abitudine dell’agape, il banchetto eucaristico da tenersi nel giorno successivo al sabato ebraico.
 Fra gli accoliti di Paolo ci fu anche Luca, che è il vero protagonista di questo libro. Luca – un uomo colto e curioso originario della Macedonia, un intellettuale che esercitava la professione di medico itinerante –, infatti, non solo fu l’autore del più bistrattato dei quattro Vangeli (perché viene considerato quello con meno “carattere”), che invece Carrère rivaluta enormemente; a lui lo scrittore francese attribuisce, sulla base di analisi stilistiche e dell’individuazione di assonanze di tono e di contenuto fra diversi passi di differenti libri del Nuovo Testamento, anche gli Atti degli Apostoli e la Lettera di Giacomo; a lui riconosce soprattutto la capacità di fare da ponte fra il cristianesimo “palestinese”, filoebraico, e quello “greco”, svincolato dalle antiche tradizioni giudaiche.
 Luca, con cui Carrère intuisce una profonda affinità caratteriale (che contempla anche una comune tendenza alla mediazione e al compromesso, e un istintivo rifiuto delle posizioni intransigenti del tutto estraneo sia all’insegnamento di Paolo sia all’atteggiamento di personaggi di primo piano del cristianesimo delle origini come Giacomo o Giovanni) e che considera una sorta di “collega” per l’abilità narrativa con cui imposta il racconto della vita di Cristo, riuscì a suo modo a portare a compimento l’opera di Paolo, rendendo il messaggio di Gesù “digeribile” anche per il romano medio.
Se il Vangelo di Marco è il più antico e probabilmente il più aderente ai fatti (Marco conobbe appena Gesù, ma divenne poi una sorta di “segretario” di Pietro, che di sicuro gli passò molte informazioni di prima mano sulla vita del Maestro), se il Vangelo di Matteo è il più “ecclesiatico” (non solo perché contempla i presupposti su cui si fonda la gerarchia interna della Chiesa, ma anche perché l’esistenza del suo autore non è storicamente accertata, e il suo testo è quasi certamente frutto del contributo collettivo di un’intera comunità di individui), se il Vangelo di Giovanni – l’ultimo a essere scritto − è il più profondo (e l’identità del suo autore rappresenta per gli esegeti un vero e proprio enigma: dotato di vasta cultura filosofica, è difficile identificarlo sia con “l’apostolo preferito dal Signore”, sia con il vulcanico compilatore dell’Apocalisse), il Vangelo di Luca è il più piacevole da leggere e il più fluido dal punto di vista narrativo: quello che può insegnare di più a chi provenga da una tradizione diversa da quella ebraica.

Emmanuel Carrère

 Al termine del libro il lettore, da una parte, non può fare a meno di stupirsi nel constatare dove il cristianesimo è arrivato, viste quelle che furono le sue origini e quelle che erano le premesse della sua fondazione; dall’altra è indotto a seguire con attenzione fino in fondo il suggestivo percorso esistenziale-filosofico che sta alla base della ricerca di Carrère e ne è il propulsore.
 Carrère, dal canto suo, si trova infine costretto a chiedersi cosa rappresenti per lui quella religione da cui un tempo si sentì interamente pervaso, che per tanti anni ha studiato, e che ora osserva dall’esterno con una sorta di incanto. In tutto questo, la domanda decisiva è: in che cosa consiste quello che Gesù stesso definì “il Regno dei cieli”, e quali sono le sue caratteristiche essenziali?
Anche per un non credente il Regno resta qualcosa di splendido e di paradossale: un luogo della mente dove tutti i valori della vita terrena basati sulla logica e sull’esaltazione dell’individualità vengono rovesciati; un luogo dove solo quella forma particolare di amore universale che è la carità (che in un certo senso può ritenersi antitetica all’amore umano) ha libero corso, e dove la sapienza, l’intelligenza, la ricchezza rappresentano altrettanti handicap per chi vuole avvicinarsi al nocciolo della divinità con purezza d’animo.
 Difficile dire se un tentativo, come quello messo in atto in questo libro, di conoscere razionalmente la sostanza storica, morale, sentimentale della vicenda da cui questi stessi concetti ebbero origine, costituisca una sua onesta ricognizione o un suo radicale tradimento.

Voto: 8

martedì 15 dicembre 2015

Philip Levine, "Notizie del mondo", Mondadori


 News of the World è l’ultima raccolta di poesie di Philip Levine, uno dei maggiori cantori della working class americana del XX secolo, scomparso pochi mesi fa, di cui questo libro rappresenta in qualche modo il testamento.
 La raccolta è suddivisa in quattro parti, ciascuna delle quali consta di otto lunghi componimenti, che nella terza parte non sono poesie in versi ma poémes en prose.
 I temi affrontati sono i più vari: lo sguardo dell’io poetante si può focalizzare su un ricordo lontanissimo nel tempo (ad esempio in Yakov), su un personaggio che ha contato qualcosa nell’esistenza dell’autore (in Arrivo e partenza), su una situazione particolare (in Capodanno, in ospedale), su una storia che qualcun altro ha raccontato (il poema in prosa eponimo Notizie del mondo), su una curiosa fantasticheria (Due voci). Anche i luoghi evocati sono diversissimi tra loro: Detroit (la città nella quale Levine è cresciuto e ha lavorato, giovanissimo, nell’industria dell’automobile), Philadelphia, l’Australia, la Danimarca, Cuba, il Portogallo, la Spagna…
 Si danno casi in cui dall’esperienza concreta ci si impenna verso massime di ispirata saggezza (“Devi ricordarti che questa non è la tua terra. / Non è di nessuno, come il mare accanto a cui vivevi un tempo / pensando fosse tuo”); altre volte si indugia in semplici e quasi dozzinali descrizioni, come quella di Henry Ford (“Di mezza età, sommamente annoiato / dalla propria moglie, un lavoro che odia, / in preda all’insonnia, si alza / dal letto e gira per la sua magione / in vestaglia e ciabatte”).
 In questa estrema variabilità delle situazioni poetiche, tre sono le costanti: in primo luogo, la discorsività narrativa del dettato, che dà luogo a una notevole leggibilità dei testi. In secondo luogo, il trattamento complesso dei piani temporali, laddove tra passato, presente e futuro si creano dei cortocircuiti che possono aprire squarci quasi profetici (“Accetta il suo nome per intero, anche / da bambino se ne sta in piedi e ci fronteggia, / proprio come da qui a undici anni / in piedi fronteggerà la propria morte / che gli fiammeggerà contro”). Da ultimo, la convivenza e quasi la fusione di istanze individuali e collettive (“E quando unisci la tua voce piccola & sincera al canto, ti rendi conto che questa musica è solo lo sfondo a una grande epica americana. Tutte queste voci stanno cantando su chi sei tu”).
 È un po’ come se da uno specchio onirico emergessero alla coscienza dello scrittore esperienze distanti e fra loro apparentemente irrelate, ma capaci tutte insieme di definire un piano sensibile in cui le specifiche identità dei personaggi descritti si collocano in una precisa prospettiva temporale nella misura in cui vengono raccontate; ma proprio il racconto determina una specie di superamento dell’individualità stessa (si veda in Sangue l’immagine del “futuro che viene / verso di noi nell’ombra nera dell’olmo, / due fratelli – quasi un unico uomo - / tenuti insieme da ciò che non possiamo condividere”; o ancora, in Riti di sepoltura, l’idea del “mio nome non più una porzione / di me, non più gonfio / o ammaccato, non più a sobbollire / in un denso compostaggio di memoria / o in quello più semplice di ossa, sabbia / per gatti, le radici di un eucalipto / che io piantai nel ’73, / ma un minuscolo me che nulla prenda e nulla / dia, vuoto, e libero finalmente”).

Philip Levine

 Del resto, questa sorta di volontà di smantellamento della trama dell’io, più che da propositi dichiarati a chiare lettere, si coglie dal modo stesso di fare poesia di Levine, da uno stile che cullando il lettore con la sua distesa narratività e con il ritmo dei suoi versi, ampio e cadenzato come un respiro, crea le premesse affinché, affascinati, quasi ci si dimentichi di sé.
 La poesia più bella del libro, secondo me, è Unholy Saturday (Sabato profano):

Three boys down by the river
search for crawdads. One has
hammered a spear from a
curtain rod, and head down,
jeans rolled up to his knees, wades
against the river’s current.
Barely seven, he’s the most
determined. He’ll go home
hours from now with nothing
to show for his efforts except
dirt and sweat and that residue
he’s unaware of sifting
down from a distant sky
and glinting like threads
of mica across his shoulders.
In the distance someone keeps
calling the names of the brothers
in the same order over
and over, but they don’t hear
what with the riverbank gorged
with blue weed patches and all
the birds hiding. Perhaps no
one is calling and it’s only
the voices of the air as
the late light of June hangs on
in the cottonwoods before
the dark whispers the last word.

(“Tre ragazzini giù al fiume / cercano gamberi. Uno ha / forgiato un arpione da / un’asta per le tende, e a testa bassa, / i jeans arrotolati alle ginocchia, risale / la corrente del fiume. / Sette anni a stento, è il più / determinato. A casa tornerà / tra ore e ore con nulla in mano / da mostrare per i suoi sforzi tranne /  sporco e sudore e quel residuo / che neppure sa di raccogliere / da un cielo distante / e che gli scintilla come fili / di mica sulle spalle. / Da lontano qualcuno continua / a chiamare per nome i fratelli / nello stesso ordine ancora / e ancora, ma quelli non sentono / per via del gorgo di alghe / azzurre sulla riva e di tutti / quegli invisibili uccelli. Forse nessuno / li sta chiamando e sono solo / le voci dell’aria mentre / la luce tarda di giugno se ne sta sospesa / sui pioppi un istante prima che / l’oscurità bisbigli l’ultima parola”).

Voto: 7

martedì 8 dicembre 2015

Serena Vitale, "Il defunto odiava i pettegolezzi", Adelphi


 Il pregio maggiore di Serena Vitale è la capacità di trasformare quelli che sono a tutti gli effetti dei saggi sulla letteratura russa − prodotti da una specialista della materia − in narrazioni affascinanti e vivaci, senza per questo scadere nell’aneddotica e senza banalizzarne il contenuto.
 Il protagonista del suo ultimo libro è uno dei poeti di maggiore spicco di tutto il Novecento, il principale esponente letterario del futurismo russo: Vladimir Majakovskij.
 L’indagine condotta dall’autrice attraverso la consultazione dei documenti originali conservati negli archivi ex sovietici (scritti di Majakovskij e di chi gli era più vicino, verbali degli agenti di polizia, informative degli uomini dei servizi segreti che sorvegliavano il poeta), e perfezionata grazie a una rigorosa comparazione delle testimonianze di diversi personaggi appartenenti all’intelligentija moscovita degli anni trenta, mira a stabilire quali furono le reali circostanze della morte di Majakovskij, il 14 aprile del 1930.
 Una scuola di pensiero che conta ancora oggi parecchi proseliti, infatti, vorrebbe Majakovskij morto non per sua stessa mano, come suggerisce la ricostruzione dei fatti effettuata dalla polizia all’epoca, bensì assassinato.

Vladimir Majakovskij

 Assassinato – o al limite indotto al suicidio −, secondo alcuni, da Veronika Polonskaja, la donna che il poeta frequentava nella primavera del 1930, l’ultima persona che lo vide vivo; secondo altri dagli agenti dei servizi segreti sovietici. Per costoro, Majakovskij, che incarnava lo spirito rivoluzionario delle origini, caratteristico della fase fondativa del Socialismo reale, era ormai inviso al potere staliniano, dal momento che il despota georgiano stava imponendo definitivamente allo Stato ridotto sotto il suo controllo una feroce stretta autoritaria.
 Tale stretta autoritaria si sarebbe tradotta di lì a poco nella diffusione di un grigio perbenismo burocratico (destinato ad avvolgere in una spessa nebbia morale la vita quotidiana di milioni di persone); nell’appiattimento della cultura sugli stolidi paradigmi dell’ortodossia ideologica e di uno pseudo-realismo esaltatorio dei provvedimenti del regime; nella spietata repressione di ogni accenno di dissenso, e quindi nel dilagare a livello collettivo di un terrorizzante filisteismo basato su un’angosciosa diffidenza reciproca, capace di innescare nella popolazione meccanismi viziosi come la delazione preventiva nei confronti di individui da cui si temeva di essere a propria volta denunciati per il presunto tradimento degli ideali bolscevichi.
 Come è noto, Majakovskij venne trasformato dopo la sua morte, su disposizione dello stesso Stalin e grazie allo zelo della sorella Ljudmila, in una sorta di icona del sovietismo; ma al momento della scomparsa, con il clima che si era creato a Mosca, la sua stella si stava indubbiamente offuscando al cospetto delle trasformazioni in atto nel mondo della cultura russofona, e il suo stesso stile di vita decisamente bohemien lo esponeva all’accusa – potenzialmente letale – di conservare chiare tracce di una “mentalità piccolo-borghese”. Tutto questo, secondo taluni dietrologi, lo avrebbe condotto alla morte.
 Bisogna inoltre tenere conto di un altro aspetto della questione: il fiorire di ipotesi alternative alla versione ufficiale – fornita dalle autorità − di quanto avvenne quel 14 aprile è dovuto anche al fatto che molti ammiratori del poeta non sono disposti ad ammettere che un uomo di levatura assoluta come Majakovskij si sia potuto banalmente suicidare per una piccola delusione d’amore: possibile che abbia deciso di spararsi solo per essere stato respinto da una ragazzina − quale era allora Veronika Polonskaja −, destinata fra l’altro a diventare negli anni successivi una attrice di teatro di seconda schiera?

Serena Vitale

 E tuttavia, la ricerca effettuata con rara acribia da Serena Vitale fuga ogni dubbio, e dimostra in modo praticamente incontrovertibile che proprio di questo si trattò: del suicidio, compiuto d’impulso, di un uomo smarrito, forse depresso, triste, solo, che non sentiva più affetto intorno a sé e non si riconosceva più nell’ambiente che frequentava.
 Nel 1930, infatti, Lili e Osip Brik, i suoi protettori, i coniugi con i quali Majakovskij intratteneva da tempo uno scandaloso ménage à trois, erano in viaggio attraverso l’Europa; la rappresentazione di Banja (in italiano Il bagno a vapore) era stata un fiasco; il poeta si sentiva stanco e forse malato; Tatiana Yakovleva, la donna di cui credeva di essersi innamorato durante il suo soggiorno parigino, si era sposata con un altro; inoltre, la vita culturale moscovita non lo vedeva più protagonista assoluto come era stato un tempo, e questo lo esponeva ad ogni sorta di critica da parte di intellettuali mediocri ma particolarmente zelanti nell’adulare i funzionari del Partito, e desiderosi di mettersi in luce con attacchi mirati a chi esprimeva un discorso poetico indipendente dalle “istruzioni” delle autorità.
 Non è in fondo troppo strano che, in una simile situazione, in un simile stato d’animo, un uomo già di per sé incline ai gesti eclatanti, in un momento di rabbia estrema, possa essersi sparato un colpo di pistola al cuore.
 Ciò nondimeno – sembra suggerirci l’autrice − anche senza immaginare misteriosi complotti, non è pura speculazione di fantasia affermare che per uno come Majakovskij non ci sarebbe stato più posto nella Mosca dei tardi anni trenta.
 Il conformismo staliniano non avrebbe potuto tollerare l’anticonformismo sistematico, viscerale prima ancora che programmatico, di Vladimir Majakovskij: uno scrittore dalla cui bocca – per fare il verso a un passo de La nuvola in calzoni – le parole uscivano come prostitute nude che si gettano dalle finestre di un bordello in fiamme.
 Non si potrebbe concepire nulla di più lontano da quello che l'Unione Sovietica poi, in effetti, diventò.

Voto: 7

lunedì 30 novembre 2015

Silvia Bre, "La fine di quest'arte", Einaudi


 Il titolo di questa piccola raccolta di poesie di Silvia Bre già di per sé dice molto, da una parte, sul tenore del libro, dall'altra sullo stile e sulla poetica della sua autrice. Si tratta infatti di un titolo polisemico: “la fine” sta ad indicare senza dubbio il termine, la conclusione, ma nello stesso tempo rimanda al fine, vale a dire a uno scopo determinato; nel contempo, l’arte che viene nominata designa in primo luogo la poesia ma, più in generale, chiama in causa “l’arte del vivere”, ovvero la vita stessa. La fine di quest’arte può dunque intendersi come la fine e insieme il fine della poesia, o come la fine e contemporaneamente il fine della vita umana.
 L’ambiguità o, per meglio dire, l’intercambiabilità di questi termini proietta una sorta di luce stroboscopica su tutti e 40 i componimenti presentati: la fine della vita, la morte, incombe ineludibile su ogni nostro agire; e la poesia, metafora di tutto ciò che tenta di essere comprensione e conservazione del mistero del vivere, diviene occasione per costeggiare e corteggiare la morte, magari per scoprire che solo così si può mettere davvero in rilievo, in negativo, l’essenza della vita (“chi lo direbbe che a disegnarci vivi / basta un’ombra”).
 Così, se il tema della morte sembra prendere talvolta prepotentemente il sopravvento offrendo lo spunto per coltivare fantasie quasi suicide (“Ti sto davanti forse / presto / stringimi / due lacci intorno al collo”), mentre altre volte la magia del reale esaltata dalla poesia tende a cancellare ogni pensiero cupo (“panorama montano, un mare di reale / non si distingue nuvola da neve e gioia / dei loro nomi capitati insieme”), le due spinte contrastanti riescono a trovare un equilibrio laddove ci si rende conto che è la presenza stessa dell’uomo a donare alle cose il loro statuto di realtà (“Se il nostro luogo è dove / il silenzioso guardarsi delle cose / ha bisogno di noi / dire non è sapere, è l’altra via, / tutta fatale, d’essere”).

 Silvia Bre

 In questo modo, quella che sembra di primo acchito una poesia improntata a un neotradizionalismo raffinato, dotato di notevole compostezza ma di scarsa originalità (tanto nelle scelte lessicali quanto in quelle metriche), si arricchisce di scatti e scarti, che ne illuminano e ne scaldano le nitide arcate intellettuali, specie nel momento in cui l’io poetante si arrende di fronte all’impotenza del proprio sforzo di venire a capo del problema angoscioso della fine (“Questo poema è senza più ragione / sta alla vita come le sta uno sguardo / che nel vedere intende essere là // io mi sospendo e mi sostengo in questo / stare nel nome di”).
 Un sentimento che pervade anche la lirica finale, quella dedicata a Francesco Borromini e alla sua architettura, la più lunga di tutta la raccolta; quasi che le ardite invenzioni di pietra dell’artista fossero la traduzione materiale della tensione emotiva che anima questi versi; quasi che dall’opera dell’architetto ticinese Silvia Bre avesse tratto segreta ispirazione.
 La poesia più bella? Forse questa:

Anima, come ti fuma il tempo
tutta rapita dentro
una miseria più grande della mia

a tanto si riduce l’infinito

tu sapevi distinguere
i significati
ora servi a versare
questa verità nel nulla

e io sono il tuo cane che t'insegue. 

Voto: 6

domenica 22 novembre 2015

Gian Paolo Ormezzano, "I cantaglorie. Una storia calda e ribalda della stampa sportiva", 66th a2nd


 Piemontese, classe 1935, già direttore di Tuttosport, Gian Paolo Ormezzano è uno dei grandi vecchi del giornalismo sportivo italiano.
 Il suo ultimo libro rappresenta un tentativo di tracciare l’evoluzione dal secondo dopoguerra in avanti della professione che egli ha esercitato per più di 60 anni, e di mettere a fuoco i personaggi che più le hanno dato lustro.
 Il libro è interessante e a tratti anche appassionante, e si giova di una prosa molto efficace, precisa, fluida e piena di accenti personali (che scade solo quando Ormezzano – come talvolta gli capita – cerca di essere brillante a tutti i costi, e gigioneggia un po’); più perplesso mi lasciano i presupposti francamente antimodernisti da cui parte l’autore, convinto che l’avvento della televisione prima e di internet poi abbia completamente rovinato il giornalismo sportivo e, probabilmente, anche lo sport stesso (che un tempo − si lascia intendere – era sublimato dal suo racconto scritto, che più che l’appendice costituiva il compimento dell’evento sportivo, vissuto dagli appassionati innanzitutto proprio attraverso la lettura dei giornali).
 Il criterio seguito da Ormezzano per individuare le linee di sviluppo della stampa sportiva tiene dunque conto di questi presupposti, ed è basato sul progressivo mutamento dell’approccio da parte dei giornalisti alla materia da essi trattata.
 Si parte così da una prima fase, in cui i giornalisti amavano lo sport più di quanto lo conoscessero, e tendevano a raccontarne gli eventi con slanci lirici e fantastici più che sulla scorta di nozioni tecniche e della puntuale verifica dei dati di realtà; i protagonisti di questa fase erano dei veri e propri cantori, e quest’epoca si può appunto definire “epoca dell’amore”. Fra gli sport, protagonista assoluto fu il ciclismo, assai più popolare del calcio; non a caso, se si vuole individuare una data simbolica in cui questo periodo ha termine, si può prendere come punto di riferimento la morte di Fausto Coppi, il 2 gennaio 1960 (evento che vide casualmente Ormezzano, allora giovane inviato, al capezzale del Campionissimo).
 La seconda fase è quella che Ormezzano chiama “dell’erotismo”: i giornalisti continuano ad amare la propria professione e lo sport in generale, ma quest’ultimo diviene per loro soprattutto oggetto di studio, di attenta e a volte sottilissima analisi, di approfondimento in senso lato “culturale”; la stampa sportiva è chiamata a spiegare e a enfatizzare l’evento più che a provvedere a una sua mera descrizione a beneficio del lettore, e la sua funzione finisce per essere quella di un moltiplicatore della passione di tifosi e spettatori, che spesso già hanno potuto assistere alla competizione sportiva trattata negli articoli della stampa specializzata attraverso lo schermo del televisore. La data di passaggio da questa fase alla successiva si può forse fissare in corrispondenza della vittoria italiana ai Campionati del mondo di calcio nel 1982.
 La terza e ultima fase è quella definita “della pornografia” (senza dare necessariamente al termine pornografia una connotazione del tutto negativa, precisa Ormezzano, quasi che i giornalisti sportivi contemporanei fossero obbligati a ripiegare su questo approccio allo sport; ma non riesce a essere convincente fino in fondo). Qui i giornalisti sportivi si vedono trasformati in garanti della metamorfosi dell’evento sportivo in puro show.

Gian Paolo Ormezzano

 I retroscena e i relativi pettegolezzi, perciò, diventano importanti quanto la performance sportiva in sé; il gesto atletico viene visionato un’infinità di volte e praticamente “sezionato”, scomposto fotogramma per fotogramma ed esaminato in tutti i suoi particolari a beneficio degli spettatori; all’evento sportivo puro e semplice si sovrappone una serie di elementi (dai tifosi che fanno da cornice alla gara e finiscono per essere parte dello spettacolo, alle scommesse con cui l’appassionato si illude di conquistare una parte “attiva” nella dialettica agonistica…) volti a creare una sorta di “realtà aumentata”, che però tende in qualche modo a snaturare e a meccanizzare la percezione di quella che una volta era definita “realtà effettuale”.
 La “fase della pornografia” dura tuttora, e ha come numi tutelari una televisione il cui potere è cresciuto a dismisura e la sempre più invadente presenza dei multiformi contenuti veicolati dalla rete internet.
 I punti di riferimento cronologici che separano una fase dall’altra sono in realtà molto approssimativi, tanto da saltare spesso quando si tratta di riferire un protagonista a un periodo piuttosto che all’altro, all’interno della lunga galleria di ritratti con cui Ormezzano tratteggia il ricordo dei più grandi giornalisti sportivi dal dopoguerra in avanti. È questa, a mio parere, la parte di gran lunga più godibile e meglio riuscita del libro.
 Ad esempio, tra i “cantori” della fase amorosa viene annoverato un giornalista contemporaneo come Gianni Mura, mentre lo storico telecronista Rai delle gare ciclistiche Adriano De Zan viene inserito tra i “pornografi” (mentre forse entrambi starebbero meglio tra gli “erotisti”, per adottare il criterio di Ormezzano).
 Fra i ritratti più belli bisogna citare quello di Vittorio Pozzo (che, oltre a essere il commissario tecnico della nazionale italiana di calcio vincitrice per due volte di fila del Campionato del Mondo nel 1934 e nel 1938, fu a lungo uno stimato giornalista), impreziosito da alcuni personali ricordi dell’autore; quello di Carlin Bergoglio, torinese riservato, avarissimo, “onesto sino allo spasimo, al masochismo”, capace di tenere testa senza timore reverenziale agli Agnelli da direttore di Tuttosport e di cantare meglio di tutti le gesta di Coppi, nonostante tifasse per Bartali; quello di Gianni Brera, che ha soprattutto il pregio di non essere banalmente agiografico come quasi sempre sono i ritratti di Brera; quello di Gianni Minà, “l’italiano più conosciuto nel mondo da quasi mezzo secolo”, “classico esempio di talento disperso, sparpagliato” e “di simpatia espansa, a costo di sorridere anche ai fetenti”.
 E ancora, quello di Sergio Zavoli, quelli degli indimenticabili Ciotti e Ameri, quelli – per molti versi commoventi – di Maurizio Mosca (con Aldo Biscardi il re dei “pornografi”) e di Candido Cannavò, quello di Gianni Clerici e Rino Tommasi (trattati insieme e anch’essi coerentemente classificati tra i “pornografi”, seppur di un tipo del tutto diverso da quello di Biscardi e Mosca).
 Vi sono anche notevoli assenze, naturalmente; ma non potrebbe essere diversamente.
 Alla fine resta da chiedersi: in quale categoria Ormezzano porrebbe se stesso?
 Al lettore il compito di provare a darsi una risposta.

Voto: 6,5

domenica 15 novembre 2015

Angelo Mellone, "Nessuna croce manca", Baldini e Castoldi


 Il titolo ungarettiano è molto bello, e viene astutamente utilizzato per caricare di drammatica e dolente suggestione la parabola della destra italiana negli ultimi 25-30 anni. Il libro rappresenta infatti uno scoperto tentativo di dare dignità letteraria alla storia recente del neofascismo e del postfascismo nel nostro Paese.
 La vicenda raccontata da Angelo Mellone (palestratissimo giornalista della Rai Tv) vede come protagonisti quattro ragazzi di Taranto – Claudio, Dindo, Chiodo e Valeria detta Gorgo –, che nella seconda metà degli anni ottanta, grazie all’influenza del padre di Gorgo, “il Professore”, storico militante della destra sociale che ha abbandonato l’Msi in polemica con i vecchi camerati, cominciano a gravitare in quell’area politica e decidono di iscriversi all’organizzazione giovanile missina “Fare fronte”.
 Claudio e Chiodo sono di famiglia operaia, Dindo e Gorgo di origine borghese, ma tutti sentono un’identica voglia di ribellismo e tutti nutrono il medesimo bisogno di essere diversi e radicalmente “contro”: gli ambienti che frequentano e la loro formazione culturale, sullo sfondo della città del Siderurgico e del mare inquinato, determinano il tenore di quel ribellismo e il colore di quella diversità. Così, la militanza nelle file degli ultras del Taranto calcio insegna loro ad essere protervi; la lettura dei testi di Julius Evola modella l’immagine delle persone che vorrebbero diventare.
 Le circostanze imprimeranno in realtà curvature molto diverse a quelle che i quattro ragazzi immaginano come vite parallele: nell’estate dei suoi sedici anni, quella del 1989, Gorgo verrà messa incinta dal chitarrista di un gruppo rock, e non potrà partecipare, pochi mesi più tardi, al tentativo dei suoi tre amici, a bordo di una scassatissima autovettura, di raggiungere Berlino per celebrare la caduta del Muro e festeggiare la fine del comunismo.
 Claudio, Dindo e Chiodo saranno bloccati da un guasto al motore poco prima di Pescara, ma questo non impedirà loro di arrivare molto più lontano nella vita: seguendo le diverse trasformazioni subite dal Msi sotto la guida di Gianfranco Fini, Claudio diventerà addirittura un deputato della Repubblica; Dindo − forse il personaggio che più da vicino ricorda l’autore del libro −, assai più radicale dell’amico (con cui finirà per rompere) nelle sue prese di posizione, e più critico nei confronti di quelli che considera i traditori dell’eredità missina, farà carriera accademica, fino ad essere un giovane, stimatissimo professore di linguistica alla Sapienza di Roma, e un apprezzato commentatore televisivo; Chiodo, trasferitosi anch’egli nella capitale, smetterà di fare l’operaio per diventare tatuatore – uno dei più ricercati e “alla moda” sulla piazza.
 Tutti questi successi, però, non possono cancellare la profonda nostalgia per i loro antichi trascorsi, il loro ardore giovanile, la loro grande amicizia e il loro sodalizio ideologico. Soprattutto, ripensando al gruppo che furono, pesa nei tre giovani la mancanza di Gorgo, sparita quasi senza lasciare traccia; e in particolare è Dindo, che era segretamente innamorato di lei (e segretamente ricambiato), a serbarne il ricordo dentro di sé.

Angelo Mellone

 La ricomparsa di Valeria – ma sarebbe forse meglio dire del suo fantasma – sarà quanto mai rocambolesca: la figlia concepita in giovanissima età, Chiara, diventata ormai una ragazza di ventidue anni, venuta a conoscenza dello sfortunato amore adolescenziale della madre, si presenterà ai corsi universitari di Dindo appositamente per sedurre il professore, e per vivere con lui la storia che sua madre non ha trovato il coraggio di cominciare.
 Rimasta a sua volta incinta, Chiara deciderà di abortire (come Gorgo non aveva avuto il coraggio di fare); non prima, però, di aver propiziato, con l’aiuto di Chiodo, una reunion della madre e dei suoi tre vecchi amici, affinché Chiodo, Claudio e Dindo (finalmente rappacificatisi) possano compiere, nel 2012 e questa volta anche in compagnia di Gorgo, il viaggio verso Berlino interrotto nel 1989.
Il cerchio della storia si chiude così col ritorno al punto in cui tutto era cominciato; ma questa volta, sullo sfondo, non c’è il crepuscolo del comunismo, bensì quello del berlusconismo.
 Il romanzo, piuttosto intrigante nella prima parte, si spappola nell’inverosimiglianza di un finale da feuilleton, dettato da un lato dall’ansia di sancire simbolicamente il compimento di un percorso, dall’altro dal tentativo di trasfigurare in termini sentimentali una traiettoria umana e politica che altrimenti potrebbe apparire abbastanza mediocre.
 In più, se uno degli scopi del libro vorrebbe essere quello di dare presentabilità culturale all’ideologia figlia del fascismo, e affermare la positività dell’apporto della sua influenza sull’Italia contemporanea, c’è da registrare l’assenza ingiustificata di una riflessione vera sulle idee che di quella ideologia sono alla base, e sulla loro traduzione politica nella temperie della contemporaneità. Tutt’al più ci si accontenta di citazioni generiche degli autori di riferimento del fascismo “classico” e del neofascismo, da Robert Brasillach a Drieu la Rochelle, da Julius Evola a Ernst Jünger.
 Nulla, insomma, che possa indurre chi la pensa esattamente come gli estimatori degli autori sopra elencati o – tantomeno – chi la pensa in maniera diversa a mettersi in gioco con tutta la propria visione del mondo, aprendosi a un confronto serio con “l’altro”.
 In definitiva, la cifra caratteristica di quest'opera narrativa rimane quella dell'onanismo identitario.

Voto: 5

domenica 8 novembre 2015

Bruno Galluccio, "La misura dello zero", Einaudi


 La poesia di Bruno Galluccio non è programmaticamente criptica; la sua difficoltà nasce piuttosto da un’attitudine descrittiva e mimetica, portata fino alle conseguenze estreme di una totale adesione alla morfologia complessa che caratterizza la materia (la materia fisica e quella estetica) per provare a restituire una versione razionalmente e sentimentalmente esplorabile di ciò che è.
 L’approccio alla realtà di questo poeta, tuttavia, non è di tipo tassonomico: ne fa fede il linguaggio, calibratissimo nel lessico ma quasi liquido nella sintassi, privo di segni di interpunzione, in cui la frase si snoda mobile e scivolosa come un serpente, come una macchia d’olio ondeggiante sul mare dei significati.
 Anche la tessitura metrico-prosodica trasmette una sensazione simile: praticamente non esiste uno schema ricorrente nella successione dei versi, e anche quando una serie di endecasillabi o settenari crea nel lettore l’attesa dell’adozione di un ritmo determinato, subito prende il sopravvento il verso libero a rimescolare le carte.
 Il risultato di tutto questo è un discorso lirico profondo e interessantissimo, ma privo della virtù della leggibilità, e che rischia quindi di invischiare un po’ il lettore nella propria collosa sostanza.  
 Tali pregi e tali difetti si notano bene in questa raccolta di 100 componimenti (alcuni invero notevoli) divisa in 5 parti: la prima, Misure, lascia emergere con chiarezza l’indole scientifica dell’autore e la sua tendenza a considerare l’universo come un libro scritto in lingua matematica (“l’universo non tace mai / e quello che fu detto tra noi si propaga / rimane una piccola frazione / della vibrazione di fondo degli spazi”).
 La seconda, Sfondi, trasfigura la dimensione tutta umana della memoria in un mondo apparentemente dominato dall’esattezza delle leggi fisiche (“il cielo è diventato alto aspro di stelle / così discendiamo nella nostra macchina / a separare le ore dai secoli”);.
 La terza, Matematici, tratteggia con finezza le figure di tre studiosi eminenti di epoche diverse – Pitagora, Evariste Galois e Kurt Gödel – che mostrano come la comprensione delle leggi che governano il mondo non sia uno schermo sufficiente a proteggerci dalle nostre debolezze e dai capricci della sorte (“indeterminato e indecidibile / fanno irruzione nel mondo / la giornata degli affari affonda / in una nebbia luccicante”).
 La quarta, Transizioni, rappresenta una articolata esemplificazione delle passioni umane e del dolore che pervade la nostra esperienza (“chi avverte il destino / si ferma alla prima curva di gelo / chiedendo spiegazioni e doni alla cecità”).
 L’ultima, Curvature, prova a interpretare il destino dell’uomo alla luce delle nostre conoscenze e di ciò che ignoriamo, e che resta un mistero (“solo rivedendo la forma / avremo spiragli sui possibili / per tutti i treni perduti / gli orari mai consultati”).

Bruno Galluccio ritratto da Francesco Ardizzone

 La più bella delle poesie contenute in questo libro? Per me, questa:

morire non è ricongiungersi all’infinito
è abbandonarlo dopo aver saggiato
questa idea potente

quando la specie umana sarà estinta
quell’insieme di sapere accumulato
in voli e smarrimenti
sarà disperso
e l’universo non potrà sapere
di essersi riassunto per un periodo limitato
in una sua minima frazione

Voto: 6,5

domenica 1 novembre 2015

Gianni Clerici, "Quello del tennis. Storia della mia vita e di uomini più noti di me", Mondadori


 Gianni Clerici è indubbiamente uno che se la tira (nonostante la sua capacità di sfoggiare a tratti una certa autoironia); la sua consapevolezza di appartenere a un’elite, per via del denaro, della cultura, dello stile di vita o delle ascendenze familiari, è per lui continuamente motivo di orgoglio, talvolta venato anche da un fastidioso classismo. E tuttavia se la tira con tale candore – come se avesse un intimo bisogno di esibire le sue qualità, i suoi meriti, i suoi successi, le sue frequentazioni, per avere conferma del proprio valore – che non gli si può volere male.
 Le leziosaggini del suo stile brillante, raffinato, oltranzisticamente digressivo, gustosamente citazionista paiono il riflesso linguistico di un modo di essere, che ha come aspetti principali la curiosità per le situazioni e i personaggi più originali, una spiccata sensibilità per l’eleganza, una naturale propensione al pettegolezzo e alla socialità che rendono i suoi testi sempre molto divertenti.  Potremmo definire Gianni Clerici una sorta di divagante flâneur della pagina scritta.
 Questa “bio-eterografia” (per usare la definizione dell’autore) sembra fatta apposta per esaltare tali caratteristiche: ripercorrendo la sua esistenza (a partire, prima ancora che dalla sua infanzia, dalle famiglie d’origine dei suoi genitori, entrambi altoborghesi ed entrambi comaschi), Clerici si sofferma spesso a lungo sulle figure degli amici più cari, sui personaggi e sui libri che più hanno contato nella sua formazione, sulle situazioni memorabili in cui si è trovato per avventura coinvolto, e ogni cosa diventa fonte di nuovi aneddoti che si legano l’uno all’altro portando sovente il lettore lontano dall’asse principale della narrazione.
 L’amore per il tennis, che ha informato di sé tutta la vita di Clerici, nacque all’Hanbury Tennis Club di Alassio, dove il piccolo Gianni soggiornava con la madre durante le lunghe trasferte del padre nell’Africa coloniale (per il suo redditizio commercio di idrocarburi), alternando le lezioni di francese dell’esule baronessa russa Korff agli allenamenti con la racchetta sotto l’occhiuta supervisione del severo Mister Sweet.
 La guerra passò senza particolari danni per la famiglia Clerici (le aziende in Africa erano state liquidate giusto in tempo); l’ultima fase del conflitto vide addirittura il padre attivo nelle file dell’antifascismo, e allo stesso Gianni, appena quattordicenne, capitò di trasportare nella custodia delle sue racchette da tennis le armi destinate ai partigiani che presidiavano la zona del Lago.
 Nel dopoguerra Gianni si trasformò in una autentica promessa del tennis italiano, fino alla partecipazione, nel 1953, al torneo di Wimbledon, nel quale fu peraltro eliminato al primo turno. Quando un insidioso virus mise precocemente fine alla sua carriera sportiva, Gianni si dedicò con la massima determinazione alla carriera giornalistica, che lo vide dapprima collaboratore della Gazzetta dello Sport e poi, a lungo, inviato del Giorno, sempre sotto l’ala protettrice del grande maestro e amico Gianni Brera.

Gianni Clerici

 Clerici, però, ha sempre rifiutato di definirsi un reporter o un cronista; la professione di giornalista, esercitata con il piglio e la libertà che gli consentivano le cospicue sostanze di famiglia è sempre stata da lui interpretata come un esercizio affine a quello dello scrittore, o se si preferisce del cantastorie. Questo gli ha permesso di forgiare per i suoi articoli (e per le indimenticabili telecronache in coppia con Rino Tommasi) un inconfondibile stile.
 Con l’andare degli anni, grazie, alla pratica diretta dello sport e allo studio assiduo, è diventato uno dei massimi esperti di tennis al mondo, consacrato come tale pochi anni fa dall’ammissione, da parte del Newport Tennis Club, alla Hall of Fame del tennis.
 Tutti questi fatti, però, rappresentano solo l’impalcatura del racconto. A contare molto di più, come detto, sono le digressioni, che possono riguardare figure come quelle di Gianni Brera, Ottavio Missoni, Nicola Pietrangeli, Ernest Hemingway o Hermann Hesse; luoghi, come le case abitate da Clerici in angoli diversi del mondo; vivacissimi episodi di vita vissuta che brillano nel ricordo, come il tentativo di introdursi nella casa di Helen Wills al seguito di Bud Collins dopo essersi presentato come suo autista, la ricerca di un battoir, antenato della racchetta, nel mercatino londinese di Portobello, o un racconto di Hemingway colto al volo dalla sua viva voce, sedendo accanto a lui a un tavolino di un bar di Pamplona.
 Sono queste cose a rendere caro il libro a chi sa apprezzare l'unicità di Gianni Clerici.

Voto: 6