giovedì 30 luglio 2015

Patrick Modiano, "Perché tu non ti perda nel quartiere", Einaudi


 Fra i grandi scrittori, ve ne sono alcuni che paiono sperimentare sempre temi, stili e forme nuove, allargando continuamente il perimetro delle realtà su cui cercano di fare presa; e altri che ripropongono per tutta la loro vita i medesimi temi nella medesima forma, approfondendo semmai sempre più l’indagine sugli aspetti particolari della psicologia umana che stanno loro a cuore, tanto da dare talvolta l’impressione di riscrivere sempre un unico libro. A questa seconda categoria appartiene sicuramente Patrick Modiano, premio Nobel per la letteratura nel 2014.
 In cima agli interessi di Modiano, infatti, vi sono sempre le misteriose, inattese, labili eppure ostinate persistenze del passato nel presente: i fantasmi del tempo che, se da una parte non ci si può mai lasciare del tutto alle spalle, dall’altra restano sempre inafferrabili.
 A volte, nei protagonisti dei suoi libri, è la semplice ricorrenza di un nome a creare un sorprendente cortocircuito mnemonico che collega fatti e persone tra loro lontanissimi; altre volte è un luogo, che pare non mutare mai, mentre le persone che lo frequentavano scompaiono o cambiano fino a diventare irriconoscibili (e, in fondo, tutta la carriera del narratore francese è basata sulla rivisitazione spiritual-letteraria di personaggi e luoghi realmente da lui frequentati durante l’infanzia e la giovinezza, come appare chiaro nel suo testo più scopertamente autobiografico, Un pedigree).
 Perché tu non ti perda nel quartiere è la storia di uno scrittore ormai anziano, Jean Daragane, che vorrebbe votarsi alla solitudine e all’isolamento, ma un giorno viene contattato da un individuo che ha ritrovato un’agendina telefonica smarrita tempo prima da Daragane durante un viaggio in treno. Quando l’uomo, Gilles Ottolini, in compagnia della bella Chantal, incontra Daragane per restituirgli l’agendina, gli pone alcune domande – con una grinta che allo scrittore appare quasi minacciosa – su uno dei nomi in cui casualmente si è imbattuto sfogliando il quadernetto: Guy Torstel. Torstel compare infatti negli atti dell’indagine su un delitto compiuto sessant’anni prima e a proposito del quale Ottolini sostiene in modo un po’ vago di dover scrivere un articolo. Il fatto è che il nome Torstel, di primo acchito, non dice proprio nulla a Daragane, né egli sa spiegarsi come possa essere finito dentro quell’agenda.
 Solo dopo alcuni giorni di riflessioni, e le insistenti pressioni esercitate sullo scrittore dall’affascinante Chantal all’insaputa di Ottolini, una lunga catena di memorie emerge dalle nebbie del passato di Daragane; quelle memorie, però, finiscono per relegare in secondo piano sia Guy Torstel sia Ottolini − che praticamente scompare dal romanzo e il cui ruolo si riduce a quello di accidentale pretesto narrativo per richiamare l’attenzione su una realtà lontana −, e spostano prepotentemente i riflettori su un altro personaggio che compare nel dossier preparato da Ottolini per stendere il suo misterioso articolo, Annie Astrand, e sul bambino che era con lei quando, dopo quell’antico delitto degli anni cinquanta, la donna fu arrestata mentre stava tentando di passare la frontiera tra Francia e Italia a Ventimiglia.

Un'immagine di Patrick Modiano

 Nel continuo rincorrersi e accavallarsi dei piani temporali, nella fuga della mente del narratore e dei suoi ricordi dal passivo adeguamento a un ordine cronologico preordinato, viene a poco a poco a galla una verità dai contorni sfrangiati e sfumati, che scansa le spiegazioni razionali, ma scopre ancora vivi stati d’animo che paiono attraversare intatti i decenni: il bambino sconosciuto che Annie Astrand portava con sé quando fu arrestata era lo stesso Jean Daragane; e Annie – allora una giovane prostituta – badava a lui, che le era stato affidato, chissà perché, dalla madre. L’affetto e la gratitudine che Jean continua a provare per Annie dopo sessant’anni, e l’importanza che quella donna ebbe per lui si possono emblematicamente spiegare con il foglietto che ella, all’epoca in cui abitavano insieme a Parigi, gli lasciava in tasca quando era costretta ad assentarsi per pomeriggi interi. Sul foglietto c’era una mappa della zona della città in cui vivevano, in cui il piccolo Jean avrebbe potuto muoversi liberamente, e sotto un’indimenticabile scritta: “Perché tu non ti perda nel quartiere”.
 In un frangente in cui il mercato letterario è dominato da opere appassionanti, che vogliono catturare il lettore con trame complesse e avvincenti, Modiano sa conquistare semplicemente in virtù del suo stile ipnotico, che lascia intuire e fa presagire molto più di quanto non racconti a chiare lettere.

Voto: 7,5

sabato 25 luglio 2015

Winifred Watson, "un giorno di gloria per miss Pettigrew", Neri Pozza



 Romanzo delizioso sotto vari punti di vista.
 Ginevra Pettigrew, una donna non più giovane, dall’aspetto scialbo e dimesso, intristita da una vita di delusioni e rinunce, è alla disperata ricerca di un impiego come istitutrice o bambinaia per evitare di essere sfrattata dalla sua padrona di casa come inquilina morosa e di dover affrontare lo spettro dell’ospizio dei poveri.
 Un giorno l’ufficio di collocamento le fornisce l’indirizzo di un appartamento in uno dei quartieri più chic di Londra, dove pare possano offrirle un lavoro. Miss Pettigrew si ritrova così a suonare alla porta di miss Delysa La Fosse, una giovane, bellissima, elegantissima attrice e cantante di night club, tanto disinibita nei costumi e con una vita sentimentale tanto movimentata da potersi aspettare che l’attempata e morigerata signorina ne rimanga scandalizzata. Dal momento in cui la porta si spalanca, però, la protagonista non ha più tempo di porsi troppe domande e di farsi degli scrupoli: viene infatti risucchiata in un vortice di emozioni che si succedono senza respiro e la proiettano in un mondo che Ginevra pensava potesse esistere soltanto sullo schermo del cinematografo, in uno di quei film che tanto l’appassionano e che di frequente si concede, indulgendo nell’unico suo “vizio” in una vita tutta di sacrifici.
 La sorpresa più grossa è constatare come in questo mondo di donne fatali, vestiti costosi, turbolenti rapporti di coppia, uomini ricchissimi e gangster dal fascino magnetico Ginevra Pettigrew si dimostri perfettamente a suo agio, e impari presto a muoversi con insospettata abilità: in fondo, basta lasciarsi andare e smetterla di essere schiava di pregiudizi che servono solo a chiudere le donne in una gabbia di censure e proibizioni…

Winifred Watson in una foto giovanile

 Winifred Watson confeziona una perfetta commedia sofisticata a cui, a quasi ottant’anni dalla stesura, il tempo non ha tolto nulla. Una storia in cui il teatro, con la sua rutilante spettacolarità, neutralizza le miserie della vita reale, senza però obliterare le ingiustizie che ne sono la causa (come può una donna essere accantonata come una scarpa vecchia alla soglia dei quarant’anni perché ritenuta ormai poco appetibile sia sul piano professionale sia sotto il profilo erotico?), né rinunciare a proporre una visione non conformista dei rapporti sociali e della morale corrente (perché una donna che vive liberamente la propria sessualità dovrebbe essere ritenuta meno “rispettabile” di un’altra regolarmente sposata? Perché a quarant’anni una donna non dovrebbe più avere pretese né aspettative sul piano erotico-sentimentale?).
 Per essere valorizzata appieno, una vicenda del genere avrebbe meritato una trasposizione cinematografica da parte di un regista del calibro di Billy Wilder.

Voto: 7   

venerdì 17 luglio 2015

Caterina Emili, "L'innocenza di Tommasina", Indies g&a



 Bel libro, di quelli che riescono a stilizzare un mondo.
 Vittore Guerrieri è nato in Umbria, ma le maree della vita lo hanno per avventura depositato in Puglia, a Ceglie Messapica, dove ha trovato casa e si è inventato un mestiere come venditore di prodotti tipici locali per conto degli agricoltori della zona. Il lavoro è abbastanza agevole, e gli permette di guadagnare a sufficienza per pagare l’affitto, frequentare il solito bar e scialacquare quanto gli resta in una delle sue periodiche incursioni al casinò insieme all’amico Mario.
 Mario, originario di Ceglie, appartiene a una famiglia di sarti pantalonai, è dotato di una straordinaria verve narrativa, ed è il passepartout con cui Vittore riesce ad avere accesso a questa realtà tutta meridionale, modellata nella materialità di un ruvido dialetto che conserva un’impronta antica, quasi primitiva.
Primitivo anche nell’aspetto è soprattutto un personaggio che a Ceglie tutti conoscono: Cesara, “la gigantessa messapica” – una donna tanto grande nella figura da far pensare a una mitica stirpe di individui fuori misura forse vissuti nella notte dei tempi –, specialista nel turpiloquio e nella preparazione di inarrivabili leccornie, di solito imbandite esclusivamente a se stessa.
 È lei a coinvolgere Vittore nella triste vicenda di Tommasina, sua nipote, una ragazza timida e studiosa, dalla corporatura minuta e dalle smisurate poppe, che dopo essere partita per il nord Italia ed essersi ivi diplomata infermiera, è tornata a Ceglie in preda alla depressione, e si è impiccata nella casa della zia. Vittore deve recarsi a Torino per lavoro: forse lì, dove Tommasina ha studiato, potrà trovare tracce delle tre persone che, scrivendole terribili lettere colme di insulti, l’hanno indotta al suicidio.

 Caterina Emili

 Da Torino il filo della storia di Tommasina riporterà Vittore nella sua terra d’origine, a Perugia, dove dormono ricordi antichi che preferirebbe non risvegliare; e senza che egli possa impedirlo, la macchina di questa improvvisata indagine in cui si è impigliato lo trascinerà a poco a poco, fino a portarlo compromettere alcuni dei punti fermi della sua nuova vita: prima di tutto, allontanando da lui la silenziosa Lena, che è la sua donna, ma che in passato era la migliore amica della povera Tommasina, e accetterà per questo di farsi passivo strumento della terribile vendetta (una vendetta degna di un mito greco) di Cesara contro chi ha voluto tanto male alla ragazza da spingerla a uccidersi.
 Caterina Emili riesce a descrivere una realtà “sporca” e vera, senza esitare né di fronte alla rappresentazione dei suoi aspetti più urtanti né al cospetto della sua ostica sostanza linguistica, che arriva a permeare il carattere stesso dei personaggi, il loro modo di agire e di vedere le cose.

Voto: 7 

martedì 14 luglio 2015

Reinhold Messner, "Cervino. Il più nobile scoglio", Corbaccio (traduzione di M. Carozzi)



 Una ricostruzione attenta, puntuale, equilibrata e non verbosa delle vicende che portarono alla “conquista” della vetta del Cervino e delle polemiche conseguenti la tragedia che ne scaturì, spostando per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica il dibattito sull’utilità e sulle implicazioni etiche dell’alpinismo.
 Il 14 luglio del 1865, alle 13,40, giunse sulla cima inviolata della splendida e terribile piramide del Cervino la cordata fortunosamente messa insieme appena due giorni prima a Zermatt dal giovane incisore inglese Edward Whymper; ne facevano parte anche il reverendo Hudson – esperto alpinista –, il suo amico Hadow e il nobile Lord Douglas, anch’essi inglesi, più tre guide: Michel Croz di Chamonix, Peter Taugwalder di Zermatt e il figlio di quest’ultimo. La Cordata di Whymper, partita dal versante svizzero, precedette la spedizione italiana organizzata da Felice Giordano e guidata da Jean-Antoine Carrel di Valtournenche.
 Per Whymper il Cervino era ormai diventato un’ossessione: per cinque anni aveva tentato inutilmente di salirvi, spesso partendo dal Breuil e avvalendosi dell’aiuto di Carrel, l’uomo che conosceva la montagna meglio di chiunque altro. Arrivare in vetta fu per lui il coronamento di un sogno.
 L’euforia per il successo della squadra inglese ebbe però brevissima durata: durante le prime fasi della discesa, Hadow scivolò, urtando Croz che lo precedeva e trascinandolo con sé nella caduta; anche Hudson e Douglas non resistettero allo strappo e precipitarono fatalmente per 1200 metri fino al ghiacciaio sottostante. Whymper e le due guide vallesi si salvarono soltanto perché Peter Taugwalder riuscì ad assicurarsi dietro una roccia, e la corda che lo legava a Lord Douglas si spezzò.
L’incidente, secondo Messner, fu causato non solo dall’impreparazione di Hadow a una scalata così impegnativa, ma anche da una serie di errori derivanti dalla parziale imperizia del pur valoroso Whymper come capo spedizione: troppo poche erano le guide che accompagnavano i “signori clienti”, poco saggio fu l’utilizzo delle corde che Whymper stesso aveva messo a disposizione, e sbagliata la scelta di intraprendere la discesa lasciando che il prezioso Croz andasse da primo. 

 Una splendida immagine del Cervino

 Tutte queste osservazioni consentono a Messner di contrapporre la figura di Whymper, che era un bravo scalatore ed era animato da un’autentica passione per il Cervino, ma era schiavo dell’ambizione e reso poco lucido dall’ansia di arrivare in cima a tutti i costi per godere del prestigio che gliene sarebbe derivato, a quella di Carrel, per il quale l’amore per la montagna, la consapevolezza della propria perizia tecnica e il desiderio di arrivare in vetta non andarono mai disgiunte dal senso di responsabilità nei confronti di chi arrampicava con lui.
 Due atteggiamenti che rispecchiano, in fondo, due fasi e due componenti dell’evoluzione dell’alpinismo nei decenni che seguirono la prima salita sul Cervino: il bisogno della pura conquista, spesso venato di retorica nazionalistica, e spinto fino ai limiti temerarietà; e la sfida del limite basata sulla sobria ricerca del controllo e sulla gestione responsabile delle proprie capacità.
 Il libro ha il pregio della chiarezza e, pur essendo riconoscibile in esso l’impronta molto netta dell’ammirevole mentalità dell’autore, è privo degli eccessi polemici in cui talvolta Messner indugia quando parla di sé.

Voto: 6,5

lunedì 13 luglio 2015

Paolo Rumiz, "Come cavalli che dormono in piedi", Feltrinelli



 Succede spesso che, nelle sue opere, Paolo Rumiz, vada alla ricerca di una storia e di una geografia dimenticate, affinché, come specchi dissepolti, sappiano gettare sulla consapevolezza dell’oggi riflessi diversi.
 Raramente, però, l’impulso a esplorare il passato è stato determinato da un bisogno di verità tanto potente e tanto radicato in lui come in questo caso.
Da triestino, erede della grande e misconosciuta tradizione dell’impero austroungarico, egli si mette sulle tracce di tutti quei giovani soldati italiani che, allo scoppio della Prima guerra mondiale, partirono dal Trentino, dal Friuli e dall’Istria insieme alle truppe fedeli a Francesco Giuseppe, verso le terre oscure e fangose dello sterminato fronte orientale, in quella regione – anch’essa persa nelle nebbie del tempo – che allora era nota col nome di Galizia.
 Furono centomila, ben più numerosi degli irredentisti che corsero ad arruolarsi nelle file del Regio Esercito, e si distinsero per il loro coraggio e la loro lealtà, nonostante il fatto che, dopo il “tradimento” dell’Italia, entrata in guerra contro l’Austria al fianco delle forze dell’Intesa, dovettero subire ogni sorta di calunnie e di angherie da parte degli ufficiali austriaci e magiari. Fra di essi, anche la vivida e commovente figura del nonno dell’autore.

Soldati austriaci in Galizia

 Il viaggio di Rumiz, però, non ha soltanto lo scopo di restituire il giusto onore a un esercito di giovani connazionali che si trovarono a combattere “dalla parte sbagliata”, e per questo furono rimossi dalla memoria ufficiale; serve invece soprattutto a raccogliere l’eco di tutti coloro il cui ricordo il veleno dei contrapposti nazionalismi ha tentato di neutralizzare, o peggio di coartare entro gli stereotipi della più stolida retorica patriottica: come quella ben rappresentata dal freddo e grandioso sarcofago del sacrario di Redipuglia.
 Così, rievocando quasi come uno spiritista le voci sommesse dei morti su tutti i fronti della Grande Guerra, piene di saggezza e di liriche suggestioni, Rumiz giunge a coglierne il monito profondo, e a trasmettercelo per suggerirci come molti dei problemi che angustiano l’Europa odierna (dalla guerra civile in Ucraina al prevalere degli egoismi speculativi particolari sul comune senso di appartenenza a una medesima civiltà) trovino riscontro nei tragici errori che vennero commessi quando si precipitò inopinatamente verso il conflitto assurdo che dilaniò il nostro continente cento anni fa.
 Semplicemente indimenticabile la ricostruzione del passaggio a Trieste della salma dell'Arciduca Francesco Ferdinando: funerale simbolico a un mondo che ciecamente si accingeva all'autodistruzione e il cui spirito, oggi, si cerca fra mille difficoltà di ricostruire.  

Voto: 7 

venerdì 10 luglio 2015

Caterina Emili, "Il ritrovamento dello zio bambino", Indies g&a



 Vittore Guerrieri, stabilitosi ormai da anni a Ceglie Messapica, decide di comprare l’abitazione in cui da tanto tempo vive, e che finalmente ha cominciato a considerare davvero casa sua. Carmela Maggiore, la proprietaria, una donna quasi anziana, stanca e sola, che ha sempre dato l’impressione di provare un certo disagio nei confronti di quelle quattro mura ereditate da uno zio, gli venderà anche il piano terreno: così Vittore non avrà più bisogno di usare la scomodissima scala esterna per salire fino al suo appartamento-rifugio.
 Un’amara sorpresa, però, lo attende. Esplorando l’accesso a una vecchia cisterna scavata sotto la casa, Vittore trova una catena; appesa alla catena c’è una vecchia cassetta militare, e dentro la cassetta militare lo scheletro di un bambino. Si scoprirà presto che il corpicino appartiene a Domenico, un fratellino di Carmela scomparso misteriosamente da Ceglie 50 anni prima. Il ritrovamento risveglia memorie ormai sopite in tutti quelli che erano vivi all’epoca della scomparsa di Domenico, e suscita una serie di inquietanti interrogativi: come morì Domenico? Chi fu il responsabile della sua morte? E chi decise di dargli quella strana sepoltura?
 Coinvolto suo malgrado nelle indagini su quell’antico delitto, Vittore sarà inseguito dalle ombre di un passato intriso di miseria, invidie, soprusi e asprezze fino a Overijse, in Belgio, dove lo conduce il suo lavoro di commerciante di prodotti tipici pugliesi: qui si impiglierà in brandelli di brutte storie e atavici rancori legati alla strana figura di un vecchio contadino di Ceglie, solitario, brusco, violento, addirittura cattivo: Paquale Magli, detto Catnazz. Catnazz è, come Vittore, un incallito giocatore d’azzardo, e del giocatore ha tutti i misteri e le ambiguità; è stato forse lui a uccidere tanti anni prima il piccolo Domenico, nipote del suo odiato datore di lavoro? Il disvelamento della verità non mancherà di riservare sorprese. 

Ceglie Messapica

 Libro piacevole, intrigante, scritto in una lingua che sa impastare le istanze immediate dell’oralità con un impianto lessicale a tratti persino colto e con le spigolosità fonetiche del dialetto cegliese. La virtù principale di Caterina Emili, però, è l’abilità nel disegnare personaggi di notevole originalità, sulla suggestione dei quali si innesta lo spin narrativo: dal protagonista-narratore Vittore Guerrieri, insieme disincantato e romantico, al suo amico Mario, cinico e ingenuo; dal “professore” (già presente in altri romanzi dell’autrice), sagace e sarcastico eppure fragile, alla povera Carmela Maggiore, brutta e rassegnata, ma piena di commovente candore; soprattutto, però, l’arido Catnazz, che il lettore non sa bene se condannare per il suo egoismo e la sua crudeltà o compatire per la triste sorte che segna i reietti.
 Certo manca qualcosa rispetto a precedenti prove narrative dell’autrice: il “respiro” del racconto non sembra supportare fino in fondo l’articolazione dell’intreccio, e l’affascinante realismo della contestualizzazione, nella sua materialità, non sempre aderisce alla perfezione alla singolare complessità della vicenda narrata. Resta comunque, questo, un bel romanzo.

Voto: 7