giovedì 24 settembre 2015

Marina Mizzau, "Se mi cerchi non ci sono", Manni


 Per il funerale di Leonardo, professore universitario brillante e un po’ scapigliato, dotato di un notevole senso dell’umorismo e di una buona dose di autoironia, si riuniscono tutti coloro che gli volevano bene e che gli erano legati: Antonia – la prima moglie –, la figlia già grande Elettra, la seconda moglie Elisabetta insieme ad Alessandra – la bambina che Leonardo tanto amava nonostante non fosse figlia sua –, le sorelle Marta e Maria Teresa, la vecchia zia Daria, il cugino Simone, i nipoti Valentina e Lorenzo, l’allievo prediletto Michelangelo, e poi ancora Leona, Beppe, Roberta, Franca…
 A descrivere la cerimonia funebre, il comportamento di ciascuno dei convenuti e il loro collettivo omaggio alla memoria del defunto nei momenti che seguono il funerale vero e proprio (la visita al cimitero, la riunione di parenti e amici a casa di Leonardo, il trasferimento della comitiva in un bar per l’aperitivo e poi in un ristorante per la cena) è una misteriosa narratrice interna, che assiste in prima persona a tutto quello che avviene, vi partecipa, ma rimane in disparte senza rivelare fino all’ultimo la sua identità.
 L’anonimato consente a questa voce narrante di mantenere una certa apparente neutralità nel tratteggiare la fisionomia di tutti gli altri personaggi, e di non alterare troppo con le sfumature del proprio personale affetto l’immagine di Leonardo che viene restituita nel ricordo dei presenti, che parlano e addirittura scherzano per farsi reciprocamente coraggio, come accade talvolta in simili, tristi circostanze.
 La rievocazione di Leonardo avviene sulla scorta di due specifici fili conduttori: quello del linguaggio e della sua proteiforme ricchezza, e quello del cibo. Il professore scomparso, infatti, condivideva con famigliari e amici l’amore per la buona cucina e, nello stesso tempo,  la passione per le sciarade, i rebus, gli indovinelli, i giochi di parole, i tic linguistici. Tutte queste formule e modalità espressive diventano, da una parte, la chiave attraverso cui ciascuno tenta personalmente di valorizzare “l’eredità spirituale” di Leonardo; dall’altra lo strumento in nome del quale Leonardo stesso lascia a quelli che gli erano più vicini dei commoventi messaggi “postumi”, con dei files da lui sistemati sul suo computer in modo tale che fossero facilmente ritrovati.
 Il cibo (oggetto di confronto e di discussione, oltre che di consumo), dal canto suo, ha fondamentalmente la funzione di esorcizzare la morte, richiamando alla memoria tutta la carica vitale di cui Leonardo era dotato.
 Tale schema trova il suo coronamento alla fine, quando la narratrice – l’unica alla quale Leonardo non ha lasciato messaggi, eppure quella in grado più di tutti di farlo “rivivere” – smette di nascondersi e svela la sua identità: si tratta di una studentessa di Leonardo, da molti anni perdutamente innamorata del suo professore e determinata a serbare gelosamente il ricordo dei loro momenti insieme e della loro speciale sintonia, cresciuta all’ombra della psicolinguistica; un legame in cui la condivisione della sensualità del cibo aveva forse avuto la funzione di sublimare un’attrazione di natura sessuale destinata a non avere libero corso. 

 La psicologa della comunicazione Marina Mizzau

 L’idea di fondo sulla quale viene edificato il romanzo è piuttosto originale; il suo concreto sviluppo, tuttavia, lascia molto perplessi. Il fatto è che tutto, in questo libro, appare assai meccanico, dalla costruzione dei personaggi alla gestione dei tempi narrativi, dai dialoghi alle descrizioni, dalle dinamiche psicologiche delle situazioni romanzesche alle stesse articolazioni dello stile: il motivo-cardine dei giochi linguistici, più tematizzato che incorporato nella sostanza stilistica del racconto, appare alla fine stucchevole; gli elenchi di termini riferibili alla medesima area semantica (spesso quella del cibo) sono talmente abusati da indurre a pensare che spesso si usi un approccio tassonomico per puntellare un impianto narrativo complessivamente un po’ fragile; gli snodi che collegano un episodio all’altro sono quanto di meno convincente e di più innaturale si possa immaginare.
 L'impressione finale è quella di un orologio che ostenta ingranaggi straordinariamente complessi, ma continua a segnare l'ora sbagliata. 

Voto: 5

giovedì 17 settembre 2015

Maurizio Maggiani, "Il Romanzo della Nazione", Feltrinelli


 Romanzo a cui è difficile affezionarsi per la frivolezza di uno stile molto manierato − impostato su una lingua falsamente mimetica della colloquialità corrente (una sorta di corrispettivo letterario della pittura dei bamboccianti) −, per il carattere più svagato che divagante della narrazione e per un certo diffuso solipsismo.
 Detto questo, non mancano gli spunti interessanti. Maggiani parte dall’esplorazione delle proprie fondamenta famigliari – le figure di suo padre e di sua madre –, divenuta urgente al momento della morte dei genitori, per trovare il giusto abbrivio onde realizzare il progetto che proprio quei lutti irreparabili hanno messo in forse: raccontare il “romanzo della nazione”.
 Raccontare il romanzo della nazione, per uno scrittore di ispirazione squisitamente anarchica come Maggiani, significa cogliere la scintilla emotiva e i riferimenti simbolici attraverso i quali le generazioni che ci hanno preceduto hanno sviluppato con naturalezza il proprio senso di appartenenza a un gruppo umano accomunato da uno stesso destino, e hanno lasciato questo bagaglio sentimentale in eredità ai loro discendenti.
 È chiaro che un compito tanto arduo non può che richiedere un approccio fondamentalmente asistematico e campionario. Così, il disordinato resoconto della malattia e della morte del padre e della madre si trasforma per Maggiani nell’occasione per riportare alla luce ricordi a cui si legano, in inattesa concatenazione, personaggi e concetti che affondano le loro radici proprio nell’epoca in cui l’Italia si fece nazione.
 Entrando in cortocircuito con quei ricordi e quelle concatenazioni, la chiave per accedere al cuore del “problema della nazione” finisce per essere un lacerto narrativo di carattere onirico e metaforico − una sorta di capriccio della fantasia − che galleggia da tempo nella mente dell’autore: un’archeologa (che ha le sembianze della figlia di un amico di Maggiani), impegnata negli scavi del porto sepolto di Magdala, veglia in un ospedale israeliano il suo uomo ferito e piantonato da due soldati in divisa.
 Il porto di Magdala, infatti, riporta automaticamente alla memoria il Regio Arsenale Militare di La Spezia (la città natale di Maggiani), voluto in prima persona da Camillo Benso conte di Cavour ancora prima che l’Italia fosse tale; e il lavoro dell’archeologa ispira quello dello scrittore, che si fa archeologo di sentimenti.  
 I sentimenti sono quelli delle genti di varia provenienza che si riunirono richiamate dal lavoro o dal caso presso l’Arsenale, e nella costruzione della corazzata Dandolo (la più potente nave da guerra di allora) scoprirono l’orgoglio dell’ideale appartenenza a una medesima collettività: si fecero, per l’appunto, nazione.

Una curiosa immagine di Maurizio Maggiani

 In quello straordinario crogiolo che raccoglieva semplici operai e professionisti di altissimo profilo, dissidenti politici e soldati, banditi in contumacia ed ergastolani in cerca di riscatto (con dieci anni di lavori forzati si poteva ottenere l’estinzione della pena), funzionari dei Savoia e ingegneri napoletani già al servizio dei Borboni nacque realmente un amalgama nuovo, una sorta di ipostasi ideale di un concetto originale di nazione, estraneo alla retorica ottocentesca della Lingua, del Sangue e del Suolo, e configuratosi invece come realizzazione di un’utopia culturale.
 Un’utopia alla cui ombra potevano vivere le personalità più diverse, figure note e meno note di quell’epoca straordinaria della storia d’Italia e d’Europa: uomini come Francesco Zannoni, mazziniano irriducibile e inventore dei moderni stabilimenti balneari; Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III; o Cristoforo Bezzi da Como, il ralmigatore (vale a dire colui che cuce gli orli alle vele) più capace del Regno, approdato nel Golfo dopo una vita oltremodo avventurosa che lo aveva visto prima giovane tamburino a fianco di Napoleone Bonaparte all’Elba, poi stimato artigiano ricercato in tutti i porti del Mediterraneo, da Malta, a Tunisi, ad Alessandria d’Egitto, e successivamente fiero garibaldino, che scelse di restare col Generale dopo il fallimento delle Rivoluzioni del ’48-’49, tanto da seguirlo fino in America, a New York, dove l’eroe dei due mondi lavorò nella fabbrica di candele di Meucci, e Bezzi esercitò la sua marinaresca professione a Coney Island.
 O ancora, donne come Carmela Chiribiri di Venezia, giunta giovanissima a La Spezia in qualità di ricamatrice e diventata, chissà come, “conduttrice di macchine”, poi eroicamente messasi a disposizione dei suoi nuovi concittadini durante l’infuriare del colera.
 A volte i protagonisti della vita dell’Arsenale incarnarono alla lettera l’idea della metamorfosi profonda da cui la nuova Italia nacque: si prenda Francesco Giuseppe Avignone, ex allievo ufficiale alla Nunziatella, degradato a sottufficiale del Regio Esercito in cui fu integrato dopo la conquista piemontese, diventato inventore di un'arma rivoluzionaria, il siluro, eppure mai gratificato col ritorno al grado originario; oppure Onelio Farnocchia di Livorno, ergastolano dapprima trasportato all’Arsenale in catene, riscattatosi e divenuto poi uno degli operai più stimati e ricercati di La Spezia.
 E in definitiva, nella storia di tutti costoro prende forma quello che è senz'altro l'elemento più affascinante di questo libro: l'idea che la nazione sia sempre e comunque una categoria dello spirito e mai una condizione oggettiva che sovrasta e predetermina gli individui. Se tutti la intendessero così, quanti guai ci risparmieremmo?

Voto: 5,5

giovedì 10 settembre 2015

Nicola Lagioia, "La ferocia", Einaudi


 È il libro che nel 2015 ha vinto il premio Strega.
 Il titolo è di quelli che possono sembrare di primo acchito suggestivi ed evocativi; in realtà è programmatico e didascalico.
 Questo è infatti, in pratica, un libro a tesi: l’autore intende affermare e dimostrare come la ferocia – al pari del cinismo, dell’opportunismo, della violenza, della volontà di sopraffazione – rappresenti una ineludibile legge di natura a cui uomini e animali conformano (potremmo dire deterministicamente) il proprio comportamento.
 La vicenda che viene raccontata sembra costruita appositamente per esemplificare questa tesi, escludendo o spingendo alla periferia dell’orizzonte del lettore qualunque cosa possa discostarsi dalla logica e dalla fenomenologia della ferocia.
La storia ha per protagonista una ricca famiglia di Bari, i Salvemini, il cui straordinario benessere è basato sulla spregiudicatezza del capofamiglia, il vecchio Vittorio, attivissimo imprenditore edile, tanto determinato nel concepire e perseguire la realizzazione di progetti grandiosi quanto abile nel garantirsi l’indispensabile appoggio di politici, magistrati, dirigenti pubblici, funzionari capaci di piegare la legge e le sue interpretazioni alle esigenze e alle ambizioni del loro cliente senza scrupoli.
 Vittorio ha una moglie, Annamaria – perfettamente assuefatta agli agi della ricchezza e pronta a compiere qualunque sacrificio in cambio del pubblico riconoscimento del suo ruolo di legittima consorte di un uomo di successo –, e quattro figli: il primogenito Ruggero, oncologo di fama internazionale ma talmente invischiato negli sporchi affari del padre, dopo avergli fatto per anni da prestanome, da non potersi costruire un’esistenza indipendente e lontana dai famigliari che detesta; Clara, bellissima e scandalosamente rassegnata a trasformarsi (non senza una cupa ironia, peraltro) in un oggetto al servizio delle pubbliche relazioni della famiglia; la giovane Gioia, all’apparenza soltanto sciocca e viziata, in realtà intimamente corrotta dall’abitudine dei suoi famigliari a usare per fini meramente utilitaristici le debolezze del prossimo; e infine Michele, la pecora nera, nato da una relazione adulterina di Vittorio (nell’unica occasione in vita sua in cui abbia messo in pericolo la sua famiglia-azienda per cedere al sentimento), allevato insieme ai fratellastri ma senza mai essere trattato realmente come loro − e forse per questo afflitto da gravi problemi psichici −, e tuttavia amatissimo da Clara, alla quale resta legato fin dall’adolescenza in maniera quasi morbosa.

Un'immagine di Nicola Lagioia

 Proprio l’affetto tra fratello e sorella, che sfugge alla legge fondamentale della ferocia (la quale prevede l’automatica emarginazione ed eliminazione del più debole o del “diverso”), in un contesto siffatto, rappresenta l’anomalia che metterà in crisi l’intero sistema, generando una sorta di inatteso buco nero capace alla fine di divorare tutta la ricchezza dei Salvemini.
 Quando infatti Clara morirà, per le conseguenze di quello che tutti credono un gesto suicida, ma che è invece qualcosa di peggio – cioè un incidente al termine di un festino erotico finito male, di cui la ragazza è stata protagonista insieme ad alcuni degli esponenti più in vista del mondo politico-culturale pugliese –, la sua famiglia sacrificherà il bisogno di renderle giustizia ai vantaggi che agli affari dei Salvemini possono venire dal ricatto operato ai danni di quegli importanti personaggi.
 Solo l’intervento di Michele consentirà alla verità di venire a galla; e tuttavia, il suo gesto smascheratore, volto a rompere la catena della ferocia di cui Clara è rimasta vittima, risulterà paradossalmente a sua volta di una ferocia inaudita, e travolgerà la sua stessa famiglia.
 Il libro di Nicola Lagioia è un’opera imponente e impegnativa, una macchina assai complessa in cui gli ingranaggi del romanzo famigliare, del romanzo sociale e del noir vengono regolati in maniera tale da muoversi simultaneamente.
 Particolarmente interessanti sono i personaggi, che vengono definiti come entità di per sé ambigue e sfuggenti, non sono privi di molteplici sfaccettature, e in alcuni casi presentano un profilo antropologico cesellato con quella che potremmo chiamare acribia psicanalitica; i loro chiaroscuri, però, vengono resi quasi illeggibili dall’assoggettamento di tutte le loro disposizioni alla norma dominante della ferocia, quasi che proprio la ferocia debba essere l'unico autentico personaggio.

Nicola Lagioia festeggia la conquista del Premio Strega

 Ma è soprattutto sull’aspetto linguistico che si gioca la vera personalità del romanzo. La lingua (che è in fondo l’elemento che mette in moto l’intero meccanismo) è a sua volta estremamente elaborata: in alcuni casi viene congeniata in maniera tale da avviluppare il lettore in una nebbia di parole, quasi si volesse mettere il soggetto o la realtà che si intende descrivere un po’ fuori fuoco, per ottenere un frastornante “effetto flou” in cui l’imprecisione genera dubbi che ingigantiscono il senso di inquietudine che permea intere sezioni del testo.
 Altre volte lo spin della frase si carica di pretese lirico-filosofiche cercando di tradurre concetti complessi in formule verbali che vorrebbero essere memorabili e nel contempo esatte nella loro complicata astrattezza.
 In generale si tratta di una lingua ad elevato tasso di sperimentalità, che cerca palesemente di forzare l’ottusità del linguaggio ordinario per guadagnare un terreno in cui il suo carattere risulti nel contempo nettamente scientifico e intensamente metaforico.
 Purtroppo l'esperimento riesce solo a metà, e il testo, nonostante alcuni passaggi indubbiamente felici, non arriva mai a trovare davvero un suo equilibrio stilistico, finendo per apparire molto verboso e piuttosto artificiale, tanto da smorzare alla lunga la tensione con cui si vorrebbe tenere il lettore sulla corda fino alla fine, e da rendere la lettura stessa assai faticosa.

Voto: 6-

mercoledì 2 settembre 2015

Tre libri per un film: "Aria sottile" di Jon Krakauer, Corbaccio; "Everest 1996" di Anatoli Bukreev, Vivalda; "A un soffio dalla fine" di Beck Weathers e Stephen G.Michaud, Corbaccio





 L’attesissimo film Everest, deputato all’apertura della settantaduesima Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia, consta della spettacolare ricostruzione della terribile tragedia avvenuta sul monte Everest tra i 10 e l’11 maggio 1996, quando otto persone legate a due diverse spedizioni morirono sorprese da una bufera di neve nel tentativo di raggiungere la vetta della montagna più alta del pianeta – o di ridiscendervi dopo essere saliti.
 Numerosi libri sono stati scritti dai protagonisti sopravvissuti agli eventi di quel tragico maggio, e ad essi gli autori della pellicola cinematografica si sono inevitabilmente ispirati. I tre più interessanti – nuovamente in libreria proprio in occasione dell’uscita del film – sono quelli del giornalista-scalatore Jon Krakauer, della guida russo-kazaka Anatoli Bukreev e del medico americano Beck Weathers, quest’ultimo rocambolescamente sopravvissuto al disastro dopo essere già stato dato per morto, seppur a prezzo dell’amputazione del braccio destro e di una serie di altri danni permanenti.

 1) Il celebre Aria sottile di Krakauer, diventato rapidamente uno dei classici della letteratura alpinistica, oltre a essere un libro estremamente appassionante, è dei tre senz’altro il più rilevante dal punto di vista letterario perché è quello scritto meglio e perché è il più scrupoloso nella restituzione della realtà dei fatti come effettivamente avvennero. Ha inoltre un merito: quello di aver spostato per la prima volta l’attenzione della comunità alpinistica, e del mondo dei media più in generale, sui rischi insiti nelle cosiddette “spedizioni commerciali”, che dietro il pagamento di somme anche molto ingenti si incaricano di accompagnare sulle montagne himalayane clienti assai danarosi ma spesso privi di un’adeguata preparazione a scalate tanto impegnative.
 Krakauer, nella costruzione della trama del suo libro, procede con un’ampia manovra di avvicinamento ai fatti che costituiscono il cuore del racconto: infatti, dopo aver descritto sulla base della sua personale esperienza la strana sensazione che prova uno scalatore quando giunge sulla cima dell’Everest – normalmente lo stato di ipossia e la fatica della salita non gli lasciano neppure l’energia necessaria per concentrarsi sull’unicità del grandioso spettacolo che gli si presenta davanti agli occhi, o anche solo per provare un’emozione che non sia in qualche modo “astratta” –, si sofferma sulla narrazione di come nacque e maturò la sua passione per l’alpinismo e per l’avventura, e ripercorre i momenti essenziali della storia alpinistica del monte Everest.
 A Krakauer si presentò l’occasione di scalare l’Everest al seguito della spedizione organizzata dal neozelandese Rob Hall grazie al suo lavoro di inviato per rivista Outside; nonostante egli, avendo nutrito velleità di scalatore “estremo” e di “esploratore”, guardasse con un certo snobismo all’alpinismo d’alta quota, praticato spesso da individui interessati semplicemente a riempire il proprio carnet di nuove conquiste, e non a sviluppare un rapporto più profondo e particolare con la montagna e con l’ambiente naturale, la prospettiva di salire sul tetto del mondo risvegliò in lui un entusiasmo antico, simile a quello di un ragazzino. La descrizione della fase preparatoria della spedizione, della marcia di avvicinamento al campo base, dei personaggi che facevano parte dei diversi gruppi che ambivano a salire sull’Everest vibra di questo entusiasmo.
 Quando si giunge al resoconto della tragedia vera e propria, però, l’approccio di Krakauer muta e si sdoppia; al racconto colmo di pathos dei momenti più drammatici della catastrofe (terribilmente commovente risulta l’estremo saluto che Rob Hall morente, stremato e immobilizzato nei pressi della cima, riuscì a mandare via radio a sua moglie incinta in Nuova Zelanda grazie a un collegamento satellitare, mentre molti scalatori sintonizzati sulle stesse frequenze ascoltavano in silenzio) si incrocia l’esigenza di chiarirne fino in fondo le cause e di capire se vi furono specifiche responsabilità che concorsero nel determinare quello che avvenne. Le tecniche proprie della narrativa d’avventura si fondono così con quelle dell’inchiesta giornalistica: l’autore, pur essendo testimone diretto, non si accontenta del proprio limitato punto di vista, ma raccoglie a posteriori il contributo di tutti coloro che assistettero a ciò che accadde o a diverso titolo ne furono protagonisti. Il confronto dei diversi punti di vista è reso indispensabile da un elemento oggettivo: le difficoltà che l’organismo umano incontra sopra quota 8000 alterano la percezione individuale della realtà, rendendo inaffidabili i ricordi di menti altrimenti lucidissime.
 Ne esce un quadro piuttosto completo dei fatti di quei giorni, grazie al quale – sebbene Krakauer si mostri prudente nell’esprimere giudizi e complessivamente restio ad emettere verdetti – il lettore riesce a farsi un’idea abbastanza precisa di quali furono le dinamiche che portarono alla morte di otto persone.

 Alcuni degli scalatori coinvolti nella tragedia del 1996 fotografati mentre, il pomeriggio del 10 maggio, affrontano la discesa prima dell'arrivo della bufera

 2) Diverso è lo spirito del libro di Anatoli Bukreev, il forte scalatore russo che scomparve a sua volta travolto da una valanga sull’Annapurna nel dicembre 1997, circa un anno e mezzo dopo i fatti dell’Everest.
 In sostanza, Krakauer accusa Bukreev di essere venuto meno ai suoi doveri di guida in una delle fasi cruciali della salita all’Everest, preoccupandosi più della propria performance sportiva (resa notevole dalla scelta di fare a meno delle bombole d’ossigeno) che dell’incolumità dei clienti aggregati al gruppo Mountain Madness di Scott Fischer, per il quale Bukreev lavorava; Everest 1996 si configura dunque come una risposta alle tesi di Aria sottile.
 Bukreev, in realtà, non smentisce la ricostruzione dei fatti di Krakauer; semplicemente, gli oppone una differente filosofia della montagna, una differente concezione del mestiere di guida, una diversa visione della nozione stessa di responsabilità: e questo è forse l’aspetto più interessante del libro dell’alpinista russo.
 Per Bukreev, cresciuto alla grande scuola alpinistica sovietica, ciascuno in montagna deve saper agire in autonomia e rendersi conto di dove è personalmente in grado di arrivare. Compito della guida, dunque, non è quello di condurre i suoi assistiti al di là del punto che possono raggiungere da soli; semmai è quello di dare l’esempio e di intervenire nel momento in un qualcuno si trovi chiaramente in pericolo di vita.
 Fedele a questo modo di intendere il proprio dovere, Anatoli Bukreev non si preoccupò di assistere gli altri scalatori mentre salivano verso la vetta, né mentre effettuavano la discesa; ma non esitò a uscire dalla propria tenda in piena bufera quando già era ridisceso dalla cima e a rischiare la propria vita per salvare da morte certa molti componenti della propria squadra in difficoltà sulla cresta sud, con quello che non si può non definire uno straordinario gesto di eroismo.
 Detto questo, la prospettiva con cui vengono narrati gli eventi in Everest 1996 resta assi più angusta di quella adottata in Aria sottile.


Beck Weathers torna a casa dopo il suo salvataggio, con entrambe le mani fasciate e, sul volto, i terribili segni lasciati dal congelamento

 3) Esce dall’ambito prettamente alpinistico la versione della vicenda fornita da Beck Weathers (una delle figure sulle quali nel film pare che ci si soffermi più a lungo), medico texano che visse sull’Everest l’irripetibile esperienza di un ritorno alla vita quando era già stato dato per morto: sfinito e congelato, nell’impossibilità di essere trasportato al campo IV (posto sul colle sud), presso il quale si trovavano le prime tende, Weathers fu abbandonato sull’Everest, e passò due notti senza bere e senza mangiare oltre quota 8000, in quella che viene comunemente definita “la zona della morte”, perché nessuno può rimanervi a lungo senza andare incontro all’esaurimento fisico. Miracolosamente ripresosi, riuscì a trascinarsi fino alle tende dei compagni, nonostante una maschera di ghiaccio spessa otto centimetri che gli copriva il viso; fu poi aiutato dai membri di un’altra spedizione – guidata da Ed Viesturs – a scendere fino a quota seimila dove, con un nuovo atto di eroismo, un elicotterista nepalese venne a prelevarlo laddove qualsiasi velivolo fatica a sostenersi in volo a causa dell’aria troppo rarefatta.
 Il libro di Weathers racconta come l’avventura sull’Everest segnò per questo medico ossessionato dall’esigenza di tentare di raggiungere mete sempre più ambiziose una svolta positiva, nonostante le gravi mutilazioni subite; tornato a casa, infatti, Beck Weathers riuscì a superare la depressione che lo affliggeva da sempre, riscoprì il valore della famiglia e l’affetto dei propri cari, e poté a salvare il proprio matrimonio, che pareva giunto ormai al capolinea: in altre parole, divenne un uomo migliore.
 A un soffio dalla fine è costruito attraverso l’alternarsi della voce narrante del protagonista con quella della moglie, dei figli e di alcuni amici che gli fanno da “controcanto”, come avviene in certi documentari televisivi, e si dilunga sugli antefatti – la vita di Beck prima del 1996 – e sulle conseguenze di tutto quello che gli capitò.
 In questo caso l’interesse per il lettore sta tutto nella presentazione “in soggettiva” di ciò che il protagonista-narratore si trovò suo malgrado a vivere e nella restituzione della sua particolare personalità.

Aria sottile voto 7,5
Everest 1996 voto 5,5
A un soffio dalla fine voto 6 -