venerdì 30 dicembre 2016

Roberto Burioni, "Il vaccino non è un'opinione", Mondadori


(recensione di Laura Uva, neurobiologa)

 Il dottor Burioni, medico e professore ordinario di microbiologia e virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, tratta in questo testo - pubblicato nel settembre del 2016 - un tema di scottante attualità, non perché i vaccini siano di recente invenzione (i primi tentativi di immunizzazione preventiva risalgono addirittura alla prima metà del Settecento, e il primo vaccino contro il vaiolo fu messo a punto nella seconda metà del XVIII secolo), ma perché la loro sicurezza ed efficacia è stata ultimamente messa in discussione dai cosiddetti antivaccinisti. 
 La questione è seria, anche perché esula dagli steccati di un dibattito puramente teorico: negli Stati Uniti l’immunità di gregge (ovvero un’immunità su larga scala che ostacola la diffusione del virus) per il morbillo, raggiunta nel 2000, è stata recentemente persa proprio a causa della moda antivaccinista.
 L’autore comincia col presentare una lunga serie di dati e statistiche allo scopo di dimostrare che, se si procede con una vaccinazione su larga scala, è possibile contenere se non debellare la diffusione dei virus. Attraverso la vaccinazione, infatti, si è ad esempio ottenuta la vittoria sul vaiolo che ha registrato nel mondo l’ultimo caso nel 1977 e che è stato ufficialmente dichiarato scomparso nel 1980.
Si era ad un passo anche dal debellamento della poliomielite, ma le recenti guerre civili in diverse regioni del globo ne hanno impedito la sconfitta.
 Alla luce delle evidenze scientifiche in nostro possesso, si può così arrivare a un assunto su cui Burioni insiste in maniera particolare: la decisione di non vaccinare i propri figli rappresenta non solo una scelta irresponsabile nei confronti dei propri bambini, che risultano esposti al contagio di virus che causano patologie gravi di per sé (pensiamo alla poliomielite) o che possono avere complicazioni estremamente serie (pensiamo al morbillo), ma anche nei confronti di coloro che per varie ragioni non possono accedere al vaccino o sono immunodepressi (perché affetti da altre malattie di natura non virale).
 Oltre a riportare l’efficacia dei vaccini verso le malattie per le quali sono somministrati, Burioni prova a offrire risposte molto nette ad una lunga serie dubbi che il pensiero antivaccinista insinua.  Non c’è legame dimostrabile tra vaccini e autismo: è vero che il numero dei casi riconosciuti di autismo è aumentato nel tempo, ma questo si può spiegare con un miglioramento nella procedura diagnostica (in passato molti autistici non erano riconosciuti come tali). 
 Non è vero che i vaccini favoriscono la comparsa di allergie: i dati di cui disponiamo ci permettono di stabilire che, prima della caduta del muro di Berlino, nella Germania Ovest - dove le vaccinazioni non erano imposte - si aveva una maggiore incidenza di allergie rispetto a quanto accadeva nella Germania Est, dove vaccinarsi era obbligatorio. 

Il virologo Roberto Burioni

 Non è vero che i bambini vaccinati si ammalano di più: la vaccinazione contro il morbillo ad esempio, oltre a proteggere dal virus specifico, protegge anche dalla depressione immunologica pluriennale che segue la contrazione della malattia; la vaccinazione contro il virus del papilloma umano svolge una duplice azione di protezione: contro il virus e contro il cancro del collo dell’utero che questo può causare.
 I vaccini sono sicuri: solo in rari casi la vaccinazione contro parotite-morbillo-rosolia può causare anafilassi subito dopo la somministrazione (ma questa si risolve positivamente con un intervento medico tempestivo), trombocitopenia (che guarisce spontaneamente) o encefalite. In ogni caso le conseguenze post-vaccinazione hanno un’incidenza inferiore rispetto alle complicazioni riportate dopo le patologie contro le quali le vaccinazioni agiscono.
 I vaccini non arricchiscono le ditte farmaceutiche perché non costituiscono una delle voci principali dei loro bilanci, e rappresentano solo lo 0.3% della spesa sanitaria nazionale.
 I dati e le statistiche sono sempre riportati con insistenza e precisione meticolosa a sostegno di quanto spiegato dall'autore, perché servono proprio a distinguere ciò che è un fatto (dimostrabile) da ciò che è un’opinione (contestabile).
 Rivolgendosi a un pubblico di non addetti ai lavori, Burioni utilizza un linguaggio semplice e facilmente comprensibile. Forse proprio per questo il capitolo sul sistema immunitario e su come i vaccini sono in grado di stimolarlo si esaurisce in poche pagine. In questo caso qualche nozione in più avrebbe giovato sia a chi non si fida dei vaccini, sia a chi - pur riconoscendo l’utilità dei vaccini - desidererebbe approfondire la questione per avere un quadro più completo dei valori in gioco.
 In conclusione, possiamo dire che questo libro offre risposte chiare, convincenti e per tutti comprensibili ai dubbi insinuati dagli antivaccinisti, suffragate da una lunga serie di dati oggettivi e di fatti incontrovertibili. Burioni suggella il suo discorso con una proposta operativa che condividiamo: lo Stato dovrebbe pensare a proteggere in primo luogo i più deboli (i bambini e i malati) rendendo le vaccinazioni obbligatorie, senza offrire una sponda alla pretesa di legittimazione giuridica di posizioni basate su pure e semplici petizioni di principio e nutrite di pregiudizi antiscientifici.

Voto 7,5

martedì 27 dicembre 2016

Melania G. Mazzucco, "Io sono con te. Storia di Brigitte", Einaudi


 Cosa sanno gli italiani dei richiedenti asilo, della loro storia, delle loro peripezie, del loro profilo umano, e delle trafile burocratiche attraverso le quali devono passare affinché sia riconosciuto loro lo status di rifugiati e il diritto a rimanere nel nostro Paese? La risposta, in media, è: assolutamente niente. 
 Per i più, il "richiedente asilo" appartiene a un sottogruppo dai contorni mal definiti della più vasta famiglia dei "migranti" (a cui magari si aggiunge a sproposito l'aggettivo "clandestini"), ed è - nel migliore dei casi - un essere umano genericamente bisognoso di aiuto, nel peggiore soltanto un problema sociale o l'oggetto di una polemica politica più o meno pretestuosa; raramente è un individuo meritevole di attenzione per via della sua particolare esperienza o delle sue specifiche qualità.
 Con questo splendido libro-verità, Melania Mazzucco si fa tramite del racconto della storia di una rifugiata, una donna congolese, la cui vicenda viene resa in tutta la sua drammatica tipicità, palesandone l'orrore, ma evitando di far gratuitamente vibrare le corde del pathos.
 Evidente è lo sforzo dell'autrice di non eclissare con il suo punto di vista quello della protagonista, che viene subito messa in primo piano, ma senza svelare troppo di lei; si fa anzi in modo che il lettore vi si avvicini e la conosca piano piano.
 Quando poi lo sviluppo narrativo ha svelato abbastanza del suo "salvataggio" in Italia, si lascia che la stessa Brigitte (questo il nome della donna) possa raccontare quello che le è successo, con la stessa asciutta fermezza e la stessa lucidità con cui ha permesso di ricostruire nel dettaglio la sua storia agli operatori del Centro Astalli che, a Roma, si sono presi in carico il suo caso, dopo averla trovata - grazie all'intervento di un religioso - alla Stazione Termini, in condizioni fisiche pietose e in preda a una totale confusione mentale.

Melania Mazzucco

 Solo a questo punto entra in scena in prima persona la narratrice Melania Mazzucco, che ci dice come è arrivata a occuparsi di rifugiati, come ha imparato a conoscere il Centro retto dai Gesuiti che offre soccorso e assistenza ai richiedenti asilo, come poi si è imbattuta in Brigitte Zébé. E' allora, con la palese estrinsecazione della personalità della scrittrice - e con una scrittura che si fa più distesa, meno "elettrica" - che si realizza un inquadramento prospettico dell'avventura della protagonista nel panorama più ampio dei fenomeni migratori e delle questioni che sollevano.
 Da ultimo, Melania e Brigitte diventano due donne con esperienze di vita molto distanti, con un retroterra culturale diversissimo, con prospettive esistenziali incomparabili, eppure in grado di trovare un terreno comune in cui riconoscere dei punti di contatto e imparare a comunicare da pari a pari.
 Quello che è accaduto a Brigitte è quasi impensabile per chi sia cresciuto sotto l'ombrello di uno Stato di Diritto e sia abituato ai nostri standard di vita. In Congo, a Matadi, la donna, nonostante fosse vedova e con quattro figli a carico, conduceva un'esistenza che potremmo definire "borghese": non solo possedeva un diploma di infermiera e faceva parte della Croce Rossa Internazionale, ma, grazie alla sua iniziativa imprenditoriale, era riuscita ad aprire una piccola clinica in cui lavoravano sotto la sua diretta responsabilità diversi medici e operatori sanitari.
 Un giorno erano venuti a farsi soccorrere nel piccolo ospedale alcuni uomini feriti negli scontri a fuoco scoppiati durante una manifestazione politica indetta contro il Vicegovernatore Déo Nkusu, già protetto del presidente Kabila. La sera stessa si era presentato alla clinica un colonnello dell'esercito, che pretendeva che Brigitte somministrasse ai feriti una sostanza che li avrebbe uccisi; in cambio, la donna avrebbe ricevuto un assegno per l'equivalente di 100mila euro.
 Davanti al rifiuto di Brigitte (legata, come i suoi medici, alla pronuncia del giuramento di Ippocrate), l'uomo se ne era andato senza protestare. Ma il giorno dopo erano venuti a casa sua dei soldati armati, che avevano ucciso suo fratello e avevano rapito lei, strappandola ai suoi figli. Brigitte era stata portata in una località segreta e chiusa in una cella stretta e buia, dove erano ammassati così tanti prigionieri che nessuno poteva stendersi sul pavimento.
 Nella cella non c'era un luogo deputato a fare i propri bisogni, e non si aveva la possibilità di mangiare né di bere, se non la propria urina. Ogni giorno i soldati venivano a prelevare gli uomini e le donne da interrogare con la tortura; quelli che non tornavano venivano chiusi in sacchi di juta e gettati in un fiume. Quasi ogni notte, Brigitte veniva presa e portata in una stanza dove i soldati la seviziavano e poi la violentavano a turno per ore, fino a lasciarla dolorante ovunque e quasi priva della ragione.
 Destinata anch'essa a un sacco di juta, Brigitte era riuscita a salvarsi solo grazie all'intervento di uno dei soldati, un graduato che aveva riconosciuto in lei la donna capace di assistere anni prima sua moglie in un parto difficile. Il soldato l'aveva fatta fuggire di nascosto; Brigitte tagliando per la foresta e per i campi, era riuscita a raggiungere la vicina carreggiabile e, nascondendosi nel cassone di un camion che trasportava fusti di olio di palma, era arrivata a Kinshasa. Qui aveva rintracciato fortunosamente un cugino che l'aveva aiutata a salire a bordo di un aereo, con la complicità di un amico deputato, del quale era stata presentata al check-in come la moglie. Partita con l'aereo, Brigitte aveva fatto scalo a Istanbul, e poi era atterrata a Roma. Il deputato, spaventatissimo dalle possibili conseguenze dell'appoggio dato a una presunta oppositrice del regime, l'aveva accompagnata a bordo di un taxi fino alla Stazione Termini, dove l'aveva abbandonata senza troppi complimenti con una banconota da venti euro in mano e nessun viatico.

Brigitte Zébé con il libro che racconta la sua storia

 Brigitte si era così ritrovata in una città per lei misteriosa, fiaccata fisicamente e destabilizzata mentalmente, senza conoscere una parola di italiano né di inglese, senza sapere dove fossero i suoi figli e se fossero ancora in vita; rapidamente si era lasciata andare, trasformandosi in una clochard.
 Senza l'intervento degli operatori del Centro Astalli sarebbe forse tuttora fra i tanti "invisibili" che, quasi dimentichi di sé, si incontrano talvolta nelle stazioni delle grandi città.
 La risalita di Brigitte dal buco nero in cui era precipitata è stata lenta e difficile, e resa possibile solo dagli psicologi, dagli avvocati, dai mediatori che si sono occupati di lei in Italia. Per lungo tempo la donna è vissuta nell'incertezza della sorte dei suoi figli ancora bambini, abbandonati senza parenti che potessero occuparsi di loro.
 E le sue peripezie, in verità, non sono terminate col suo salvataggio, né con la lunga attesa e i numerosi esami superati per ottenere lo status di rifugiata, e nemmeno con il commovente ricongiungimento con due dei suoi quattro figli rocambolescamente ritrovati in Congo.
 La sua non è necessariamente una storia a lieto fine, ma - come quella di tanti altri rifugiati approdati in Italia - una vicenda aperta, come aperta è la sua lotta per riconquistare un minimo di dignità, e la facoltà di mantenere da sola sé stessa e i suoi figli, con sulle spalle il fardello dei soprusi subiti e in aggiunta la zavorra del razzismo strisciante di un Paese che ella considera ormai la sua patria d'elezione, ma che - spesso solo per il colore della sua pelle -, pur senza dichiararlo apertamente, la ritiene inadeguata per svolgere persino i mestieri più umili.
 Questo è uno di quei libri che meritano di essere fatti leggere a scuola, perché contengono informazioni indispensabili per capire la realtà con cui abbiamo quotidianamente a che fare, e possono costituire il fondamento (anche emotivo) di un'educazione civica che non sia solo un rito formale.

Voto: 8 

sabato 17 dicembre 2016

Paolo Cognetti, "Le otto montagne", Einaudi


E' banale affermare che la montagna è, metaforicamente, una scuola di vita; più vero è che, per chi se ne innamora, la montagna finisce per essere il polo emotivo di una vita intera.
Pietro detto Berio ha imparato a conoscere e ad amare la montagna grazie ai suoi genitori - lei assistente sociale, lui chimico - che, veneti di origine, si sono trasferiti a Milano all'inizio degli anni settanta, dopo il matrimonio celebrato presso un rifugio sulle Dolomiti, davanti alle Tre cime di Lavaredo.
Da Milano, nelle belle giornate, le Alpi e le Prealpi appaiono a fare da corona all'orizzonte, e permettono di immaginare un mondo lontano da una quotidianità acre e difficile.
Per i genitori di Pietro le Dolomiti sono le montagne dei ricordi di gioventù, gioiosi e anche dolorosi; le Alpi occidentali - e il Monte Rosa in particolare, il cui imponente massiccio è ben visibile dal capoluogo lombardo - diventano invece il regno del sogno e dell'evasione.
E' il 1984 l'anno in cui la famiglia di Pietro comincia a prendere in affitto, nei mesi estivi, una casa in cui passare le vacanze nel paesino di Grana, in una valle appartata ai piedi del Monte Rosa.
Mentre la madre aspetta i suoi uomini a casa, avendo trovato nel fondovalle con i suoi pascoli tranquilli una sorta di habitat naturale, Pietro - allora dodicenne - comincia a salire in alto con suo padre, che affronta sempre il cammino con furia, quasi volesse scrollarsi di dosso persino il ricordo della pianura, spingendo su il figlio lungo le linee di massima pendenza. Ma mentre il padre si sente perfettamente a suo agio nel brullo paesaggio dove dominano la roccia e il ghiaccio, Pietro, che soffre di mal di montagna, preferisce, a una quota inferiore, l'abbraccio misterioso dei boschi, la limpidezza dei laghi alpini, l'irrequieta rissosità dei torrenti.
E' proprio durante una delle sue esplorazioni lungo il torrente che scende a Grana che Pietro si imbatte per la prima volta in Bruno, un ragazzo biondo della sua stessa età che si occupa delle mucche dello zio, e resta tutto l'anno in quel borgo lontano da tutto, frequentando solo saltuariamente la scuola.
A Grana, con i suoi genitori e con Bruno, Pietro-Berio (è l'amico a dargli questo soprannome, modellato sul dialetto valligiano) passerà tutti le estati della sua adolescenza e della sua prima giovinezza.
Le trasformazioni del rapporto col padre e della duratura amicizia con Bruno, veicolate dall'amore un po' contraddittorio per le Alpi e dalla loro discontinua frequentazione, segneranno le tappe della crescita emotiva di Pietro.
Col padre si consumerà presto una dolorosa rottura - dovuta a una distanza caratteriale ben rappresentata dal diverso modo di "sentire" la montagna -, che solo alla morte del genitore (di infarto, a sessantadue anni, con Pietro ormai trentunenne) troverà una ideale ricomposizione.
Bruno invece, sostituendo Pietro accanto al padre di lui nelle ascensioni verso le vette, con la sua aspirazione forse anacronistica a restare puramente e semplicemente un montanaro, finirà per incarnare una sorta di alter ego del protagonista, vivendo la vita che, con una parte di sé, egli avrebbe voluto vivere.

Paolo Cognetti

Pietro diverrà un documentarista, girerà il mondo raccontando montagne splendide e lontanissime, e non fonderà mai una famiglia sua.
Bruno, lasciata la professione di muratore che aveva intrapreso, salirà in montagna a riaprire un alpeggio abbandonato anni prima dallo zio, si metterà con una ragazza presentatagli proprio da Pietro, avrà una figlia, andrà incontro a una serie di fallimenti economici ed esistenziali, ma non rinuncerà mai a vivere integralmente il suo sogno di interpretare la montagna come una dimensione totalizzante.
E alla fine, tragicamente, Bruno in montagna morirà: farà come il personaggio di un antico proverbio nepalese, restando per sempre sulla prima montagna, la più bella, quella posta al centro del suo mondo; mentre Pietro, lontano da essa, ormai incapace, dopo la scomparsa dell'amico, di attingere alla sua essenza originaria, sarà destinato a vagare per tutte le altre - le "otto montagne" del titolo - all'eterna ricerca della felicità perduta e ora dispersa per tutto l'universo.
"Le otto montagne" è un libro bello e complesso: partendo dall'apparente linearità di un racconto condotto famigliarmente in prima persona dal protagonista (Pietro è tecnicamente anche il narratore della storia), sviluppa una trama che contempla, in chiave insieme realistica e simbolica, la rappresentazione di relazioni umane basilari, quali il rapporto tra padre e figlio e l'amicizia maschile, esplorandole nell'appassionante tortuosità della loro evoluzione.
Lo stile è fresco, sobrio, piacevole, ugualmente alieno da banalità paraletterarie e da astruserie iperletterarie, adatto a supportare un intreccio narrativo privo di schematismi e dagli esiti non scontati.

Voto: 7

venerdì 9 dicembre 2016

Leonard Michaels, "Sylvia", Adelphi


 Uscito negli Stati Uniti nel 1992, e pubblicato solo ora in Italia, il romanzo autobiografico di Leonard Michaels - scrittore americano di origini ebraiche famoso soprattutto per le sue raccolte di racconti - narra la storia di Sylvia, la prima moglie dell'autore, e del loro tormentato rapporto d'amore e di dolore.
 L'incipit del libro è di per sé esemplare dello stato d'animo entro il quale di incrive la vicenda narrata:
"Nel 1960, dopo due anni di corsi postuniversitari a Berkeley, tornai a New York senza un PhD e senza alcuna idea di cosa fare, a parte il desiderio di scrivere".
 E' in questo clima emotivo di sospensione e d'attesa che, grazie alla comune amica Naomi, a casa di quest'ultima al Village, avviene il fatale incontro tra Leonard e Sylvia.
 Sylvia è bruna, svagata, sensuale; l'attrazione dell'uomo per lei è immediata e travolgente. Più della sensualità e della chimica erotica, però, a giocare un ruolo nell'innamoramento di Leonard è il carattere di Sylvia, il suo naturale anticonformismo, il suo atteggiamento sempre spiazzante, che trasforma fin dall'inizio le giornate con lei in una continua avventura.
 Il problema è che la ragazza è tanto morbosamente nevrotica quanto brillante e imprevedibile: la vita a due diventa presto un inferno, e il tentativo sempre frustrato di Leonard di rendere Sylvia felice, combinato con la caparbia e contraddittoria umoralità di lei, dà luogo a un perverso intreccio psicologico molto simile a una "folie 'a deux".
 Si parte con il rifiuto di Sylvia di visitare i genitori di Leonard e si arriva fino all'incapacità da parte della ragazza di sopportare il ticchettio della macchina da scrivere che accompagna i tentativi letterari dell'autore; gli scoppi d'ira di Sylvia si alternano a furiosi amplessi, che non rappresentano momenti di riconciliazione, ma seguono la logica di una coazione a ripetere gesti che mimano un ingannevole scambio di emozioni "forti", a cui si è assuefatti come a una droga (tanto che dal letto si passa poi, automaticamente, nella sala di un cinema, senza confrontarsi affatto sulle ragioni del precedente dissidio).

Leonard Michaels

 La rottura che sembra costantemente sul punto di consumarsi, tuttavia, viene continuamente procrastinata in nome di una sofferenza che non si vuole infliggere all'altro soprattutto perché verrebbe, di riflesso, personalmente avvertita come un proprio fallimento.
 La conclusione è tragica: quando Leonard è ormai sul punto di allontanarsi definitivamente da quella che nel frattempo è diventata sua moglie, Sylvia troverà la morte, portando fino in fondo un tentativo di suicidio che sembra quasi messo in atto per gioco, o come estrema, implicita richiesta di aiuto.
 Il romanzo è decisamente bello: nonostante sia stato scritto 25 anni fa, e narri vicende risalenti a 55 anni orsono, il suo passo è quello dei libri senza tempo.
 La scrittura è densa, analitica senza mai diventare pesante, e l'alternarsi del resoconto dei fatti steso a posteriori e delle pagine del diario di Leonard redatto praticamente in presa diretta determina un sovrapporsi di piani prospettici e di punti di vista che rende giustizia fino in fondo della complessità psico-emotiva della storia raccontata.
 In più, il libro ha il merito di restituire alla perfezione l'atmosfera di anni che preparavano una autentica rivoluzione copernicana della mentalità e dei costumi (quella che deflagherà col Sessantotto, inteso in senso più culturale che cronologico), mettendo in discussione anche ciò che in precedenza non poteva divenire oggetto di aperta riflessione e di pubblico confronto, in quanto protetto dall'impenetrabile riservatezza e circonfuso dell'ovattata vaghezza che avvolgeva tutto quanto faceva parte della sfera privata e famigliare, obbligatoriamente avvolta in un decoroso silenzio.
 Tutto molto americano: a tratti sembra di essere dentro un libro di John Updike.

Voto: 7

giovedì 1 dicembre 2016

Dario Fo e Giuseppina Manin, "Dario e Dio", Guanda


 L'ultimo libro pubblicato in vita da Dario Fo (in occasione dei suoi novant'anni) è, in realtà, un libro-intervista, ma di un tipo tutto particolare: la giornalista Giuseppina Manin pone a Fo delle domande sul suo rapporto con Dio, con la religione, coi Vangeli; e Fo, come suo stile, risponde debordando e divagando, senza mantenersi mai entro i binari di un'intervista convenzionale. Così produce aneddoti su aneddoti, si burla di ogni cosa, persegue a bella posta l'irriverenza patente, dice e si contraddice senza dare troppo peso alla cosa.
 Alla domanda fondamentale Fo risponde subito: no, non crede in Dio, anche se spesso gli piace rivolgersi a lui come se ci fosse e avesse le caratteristiche proprie del Dio dei cattolici. Più che altro, ciò da cui è attratto è lo spirito essenziale e originario del cristianesimo, e i racconti che intorno ad esso si sono sviluppati; non solo e non tanto quelli ufficialmente approvati dalle istituzioni ecclesiastiche, quanto quelli - spesso assai stravaganti - contenuti nei Vangeli apocrifi (da cui del resto, come è noto, il premio Nobel attinse a piene mani per la redazione della sua opera più nota, Mistero buffo).
 Come è facile immaginare, assai critico è l'atteggiamento di Dario Fo nei confronti delle gerarchie in cui la Chiesa si sostanzia, ma la critica non diventa mai attacco frontale né polemica teologica, e si risolve invece in allegro sberleffo. La tendenza è al massimo quella di sottolineare l'aspetto curioso, bizzarro o inverosimile di tutto ciò che l'ortodossia religiosa, con serioso rigore, considera dogma indiscutibile, Verità sacra.  
 Fra i santi e gli uomini di Chiesa, naturalmente, vi sono anche coloro per cui il premio Nobel manifesta il massimo rispetto: prima di tutto san Francesco, figura rivoluzionaria capace di elaborare un atteggiamento nuovo verso la vita e il mondo, ridotta spesso dal Vaticano a caricatura di un pauperismo ingenuo e puerile, buona per le immaginette; e poi il suo omonimo papa Francesco, il Pontefice attuale. Di papa Bergoglio Fo apprezza non solo il buon senso e il sano pragmatismo, ma anche e soprattutto l'attenzione verso l'ambiente e i problemi ecologici (in un mondo in cui la questione ambientale è destinata a diventare sempre più centrale), e la netta presa di distanza nei confronti della tradizionale misoginia cattolica. 

Dario Fo e Giuseppina Manin 


 Proprio la rilettura della storia del Cristianesimo alla luce di una rivalutazione dell'essenza femminina è probabilmente il contributo più originale che da questa intervista può derivare dal punto di vista filosofico. 
 Per Fo, l'idea stessa della donna è stata per secoli elusa dal Cristianesimo, che non ha saputo trovare alla versione femminile dell'essere umano una degna collocazione all'interno della propria visione del mondo; e questo, per il drammaturgo (che faticava persino a concepire se stesso disgiunto dalla sua metà femminile, Franca Rame), è un peccato mortale.
 Forse l'idea più bella che da questa critica proviene è la proposta di considerare la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo - di solito ridicolamente rappresentato dall'iconografia ufficiale come una candida colomba - alla stregua di una donna: una donna, madre sorella o amante, capace di trasformarsi in veicolo universale della femminilità intrinseca del divino.
 Basta questo lampo creativo a riscattare dalla generale mediocrità una lettura invero non eccezionale.

Voto: 6- 

domenica 20 novembre 2016

Antonio Manzini, "Orfani bianchi", Chiarelettere


 Mirta Mitea è una donna moldava di 34 anni, venuta in Italia per cercare di dare un futuro migliore al suo unico figlio, Ilie, che ha 12 anni ed è rimasto con la nonna, l'anziana madre di Mirta, a Logofteni, il paesino in cui è nato; il ragazzo, infatti, non ha mai conosciuto suo padre, che ha abbandonato la famiglia subito dopo la sua nascita.
 A Roma, Mirta lavora come badante o come donna delle pulizie, e vive poveramente con altre immigrate come lei - giovani donne di tutte le nazionalità - in un piccolo, affollato appartamento sulla Casilina. Cerca di risparmiare il più possibile, e quando riesce a mettere dei soldi da parte, li invia a casa affinché i suoi congiunti possano affrontare le spese essenziali di ogni giorno, oppure compra un regalo per Ilie, che poi spedirà al figlio grazie a Pavel, il connazionale che fa la spola tra l'Italia e la Moldavia con il suo furgone.
 In fondo la sua condizione è paradossale: per prendersi cura degli anziani cittadini italiani di cui i loro famigliari non sanno occuparsi (per lo stile di vita che conducono, o semplicemente perché hanno maturato una mentalità secondo la quale i vecchi non autosufficienti rappresentano soltanto un peso) è costretta a trascurare i propri affetti e a venire meno persino ai propri fondamentali doveri di madre. A sostenerla in questo sforzo innaturale è la consapevolezza che ogni suo sacrificio costituisce un investimento per il domani.
 Le cose peggiorano però drasticamente quando, a causa del malfunzionamento della vecchia stufa, la casa natale di Mirta a Logofteni va a fuoco, e sua madre muore nel rogo. Ilie, che è fortunatamente riuscito a salvarsi perché si era recato da un amico, si ritrova allora improvvisamente senza nessuno che possa crescerlo. Mirta, disperata e in preda a terribili sensi di colpa, è costretta ad accettare che il ragazzo vada a vivere in un Internat, un orfanotrofio vicino a Chisinàu, la capitale. Nell'istituto, un casermone freddo, umido e tristissimo, sono chiusi, accanto agli orfani "veri", molti bambini come Ilie, di cui i genitori non possono prendersi cura perché costretti a emigrare dalla povertà e dalla totale assenza di prospettive: sono i cosiddetti orfani bianchi.      

Antonio Manzini

 Le angustie in cui si dibatte Mirta (il cui rapporto a distanza con Ilie, che non accetta la permanenza nell'Internat, diventa sempre più problematico) sembrano poter avere fine quando Pavel, l'uomo del furgone - che si è innamorato di lei - le segnala una nuova opportunità: un posto da badante presso una ricchissima famiglia dell'alta borghesia romana, straordinariamente ben retribuito. 
 La signora con cui si svolge il colloquio di assunzione è semplicemente odiosa, Mirta viene trattata con asprezza, ma è comunque più che mai determinata a ottenere quel lavoro che le permetterebbe finalmente di portare Ilie in Italia a vivere con lei; la sua brama è tale che la donna si spinge fino a seguire la ragazza russa che considera la sua più seria concorrente e, furtivamente, a rubarle il telefono cellulare, in maniera tale che costei non possa essere ricontattata dalla signora. 
 Ottenuto il posto tanto agognato, Mirta si ritrova quotidianamente a far fronte alla malagrazia della padrona di casa - che la guarda con sospetto e le si rivolge maleducatamente - e al dispetto di Eleonora, l'anziana suocera che è chiamata ad accudire. Eleonora, una novantenne che decenni prima è stata una elegante e bellissima dama, amica personale di Grace Kelly, è ora ridotta a un relitto umano. Immobilizzata su una sedia a rotelle, bisognosa di essere assistita per espletare tutte le sue funzioni vitali, è incapace di accettare serenamente la sua condizione, e scarica su Mirta la sua rabbia e il suo risentimento, rendendole la vita un inferno. Solo la prospettiva di strappare Ilie dall'Internat e di averlo finalmente con sé danno a Mirta la forza di resistere. 
 In più, Mirta sa che quella situazione non durerà a lungo: Pavel ha deciso di aprire una ditta di traslochi, e vuole che la donna vada a lavorare per lui come segretaria; inoltre ha trovato il coraggio di dichiararle il suo amore, e Mirta, dopotutto, ha scoperto di provare qualcosa per quell'uomo protettivo e gentile.
 Ogni sofferenza sembra che stia per avere termine, quando tutto precipita definitivamente: una telefonata della direttrice dell'Internat comunica a Mirta che Ilie, incapace di adattarsi a quell'ambiente cupo e inospitale, si è tolto la vita. Sconvolta dal dolore, la donna abbandona ogni cosa e si getta nel Tevere. Il suo cadavere verrà recuperato solo alcuni giorni dopo. 


Una badante straniera accudisce un'anziana signora

 Il nuovo romanzo dell'inventore del vicequestore Rocco Schiavone - così stravagante e laterale rispetto all'abituale produzione di Antonio Manzini - non si può dire sia un capolavoro letterario, ma certo è un libro non banale: lo stile tende a una mimesi del parlato reale che qualche volta si traduce in una generale piattezza linguistica molto somigliante alla sciatteria, eppure nei momenti migliori esalta la credibilità del personaggio di Mirta (molto ben concepito, e titolare del punto di vista prevalente), la cui padronanza dell'italiano è giocoforza limitata.
 Lo spin narrativo non sempre riesce ad assecondare con sufficiente vivacità lo sviluppo di una trama altamente drammatica, ma nell'economia del racconto appare assai interessante - e perfettamente giustificato dal tenore emotivo della vicenda - l'espediente dell'utilizzo delle email che Mirta scambia con gli amici o che scrive al figlio, che danno all'insieme un tocco di verità e, nel contempo, sanno richiamare alla memoria alcuni passaggi dei più celebri romanzi epistolari conferendo spessore culturale al dettato.
 A conti fatti, possiamo dire che Orfani bianchi ha il merito di confrontarsi direttamente e con coraggio con gli aspetti tragici dell'immigrazione - ciò che costituisce forse il principale "rimosso" della coscienza collettiva dell'Occidente contemporaneo; e con questa sfrontatezza, a dispetto di tutti i limiti che abbiamo rilevato, riesce a essere estremamente efficace. Sotto tale aspetto, assomiglia un po' a un altro libro importante scritto "male": Gomorra di Roberto Saviano.
 Forse, la critica principale che si può muovere all'autore riguarda la scelta di far morire Ilie e Mirta. L'epilogo straziante, infatti, esasperando il carattere patetico della vicenda, toglie un po' di equilibrio alla narrazione e un po' di forza alla denuncia in cui il libro si sostanzia.

Voto: 6,5 

sabato 12 novembre 2016

Arosio & Maimone, "Non mi dire chi sei. Il caso Giuditta", TEA


 Milano, 1962: mentre la primavera sta per lasciare posto all'estate, e i giornali riportano la notizia dell'esecuzione in Israele di Adolf Eichmann, l'avvocato Greta Morandi - trentaseienne penalista di successo, con la pelle spruzzata di lentiggini e una cascata di capelli rossi - riceve da Clementina Broggi, una merciaia di Vedano Olona, l'incarico di cercare la figlia Giuditta, scomparsa alcune settimane prima.
 Giuditta si era trasferita nella metropoli l'anno precedente, a soli diciotto anni, per lavorare come commessa in un rinomato negozio di stoffe a Porta Venezia; in città, dormiva presso il pensionato delle suore di via Tadino, versava alla madre l'intero stipendio e, apparentemente, non aveva grilli per la testa.
 Clementina è stata indirizzata allo studio di Greta Morandi dalla contessa Solbiati-Valsecchi, a cui pare che il caso della ragazza sia stato segnalato dal cardinale Lovati, suo padre spirituale, che a sua volta ne è venuto a conoscenza grazie al parroco di Vedano.
 Greta verrà supportata nelle indagini dal suo socio, l'investigatore privato Mario Longoni detto Marlon, comunista, ex pugile, ex partigiano, ruvido quarantenne dall'indubbio fascino.
 La ricerca di Giuditta si svolgerà tra una Milano sconvolta dai lavori per la costruzione della metropolitana e Vedano Olona, piccolo comune in provincia di Varese che, all'alba degli anni sessanta del Novecento, appare come un villaggio degno del Far West. 
 L'indagine di Greta e Marlon riserverà una sorpresa dietro l'altra, e tutte le iniziali impressioni dei protagonisti e le supposizioni del lettore verranno smentite o addirittura ribaltate: diversa da come appariva in un primo momento risulta Clementina, che oltre a gestire una merceria, è una specie di fattucchiera, esperta di erbe, con poteri da sensitiva; meno coerente di quanto sembrasse si rivela la fisionomia del personaggio stesso di Marlon, che deve sempre fare i conti con la sensazione di vivere accanto a un misterioso "doppio" che agisce accanto a lui o per suo conto. Soprattutto, sommamente evanescente si rivela la figura di Giuditta, che le testimonianze raccolte talvolta suggeriscono essere una ragazza semplice dal sobrio stile di vita, e altre volte una giovane frivola dalla smisurata ambizione; talvolta viene dipinta come un'adolescente ingenua, altre volte come una donna anche troppo consapevole del proprio potenziale seduttivo.
 Seguendo così un percorso estremamente tortuoso e per molti versi incredibile, durante il quale ogni dato di realtà risulta sfuggente, l'inchiesta conduce infine ad esiti impensati, arrivando a esplorare i segreti di ambienti lontanissimi da quello dal quale Giuditta proviene, e portando il lettore alla scoperta di un mondo in cui vengono prese decisioni della massima importanza, popolato da torbidi personaggi che tramano nell'ombra per imporre a tutti i livelli la propria concezione oligarchica e autoritaria dell'esercizio del potere.    

Giorgio Maimone ed Erica Arosio

 In questo romanzo, il colpo di scena rocambolesco è praticamente l'unico schema di propulsione della macchina narrativa, e tutti gli altri fattori della storia finiscono per avere un ruolo del tutto secondario e un rilievo puramente contenutistico; in questo modo si crea un meccanismo che ingoia tutti gli elementi che il background socio-economico e politico dell'Italia del Boom offre (gli anni sessanta sono praticamente saccheggiati, a partire dalle canzoni del periodo, con i cui versi ogni capitolo si apre), li stritola nei propri ingranaggi e li risputa sotto forma di sagomati tasselli del puzzle alla cui ricomposizione lo sviluppo dell'intreccio contribuisce.
 Per fare un esempio, nella trama finisce per rientrare persino il "caso Mattei": collaboratore del celebre presidente dell'Eni - morto proprio nel 1962 in un incidente aereo provocato con ogni probabilità da un sabotaggio - è Tommaso Dubini detto Tom, misterioso avventuriero sempre in missione in giro per il mondo, e fidanzato di Greta; suoi nemici giurati sono sia il cavalier Augusto Solbiati, ex generale coinvolto nei delitti su cui Greta e Marlon indagano, sia Vittorio Guttadauro, mezzo mafioso, mezzo agente segreto, vicino alla Triade, bizzarra organizzazione eversiva legata alla destra fascista. Sul luogo in cui cadranno i resti dell'aereo di Enrico Mattei, a Bascapè, si troverà poi il commissario Alfonso Pedullà, ex partigiano amico di Marlon, appena trasferito da Milano a Pavia.
 Oppure ancora, a Marlon capita di essere coinvolto in una rissa con Francis Turatello, all'epoca giovanissimo pugile dilettante e in seguito famoso bandito che insanguinerà, al pari di Renato Vallanzasca, la Milano degli anni settanta.
 Un simile sfruttamento di fatti e personaggi storici potrebbe anche rendere più accattivante il libro se l'operazione portasse a una perfetta integrazione di realtà effettuale e invenzione romanzesca. Purtroppo questo non avviene mai, perché l'intera vicenda è costruita in maniera iperbolica, senza tenere conto di criteri di verosimiglianza (stavo per dire con semplicismo fumettistico, ma non renderei giustizia ai prodotti migliori dell'arte del fumetto); così, i particolari dell'Italia del 1962 restano meri elementi d'arredo, immagini tratte dal vero ma usate per comporre uno sfondo posticcio, che non riesce a diventare tutt'uno con la sostanza del racconto.
 Il risultato complessivo, dal punto di vista letterario, non è dei più appaganti, e il secondo romanzo scritto a quattro mani da Erica Arosio e Giorgio Maimone (dopo Vertigine) finisce per apparire non imperdibile.

Voto: 5    

sabato 5 novembre 2016

Eraldo Affinati, "Un teologo contro Hitler", Mondadori


 Se è vero che un buon metodo per accertare la bontà di un libro è verificarne la "tenuta" ad anni di distanza dalla sua pubblicazione, Un teologo contro Hitler è certamente un libro eccellente; 15 anni dopo la sua uscita, infatti, conserva intatta la sua capacità di coinvolgere il lettore e tutta la sua carica propulsiva.
 Merito, in parte, del collaudato metodo che Eraldo Affinati ha sviluppato per tratteggiare i profili biografici dei personaggi sui quali si sofferma; in parte, dell'interesse intrinseco che risiede nella figura di Dietrich Bonhoeffer.
 Affinati, secondo consuetudine, procede infatti come un rabdomante: si lascia guidare dalle sue letture sui luoghi che hanno ospitato i principali avvenimenti che intende narrare e, lì, cerca di entrare in comunicazione con le superstiti testimonianze del passato, per farle vibrare, perché possano raccontare qualcosa che ancora non è stato detto (un po' come l'Omero di Foscolo, che andava cieco per la Troade ad "abbraciar l'urne, / e interrogarle"). Nasce così una sorta di biografia itinerante, a metà tra il diario di viaggio e il discorsivo resoconto di una ricerca documentaria svolta sul campo per individuare la migliore chiave interpretativa dei riscontri ottenuti.
 Il ritratto di Dietrich Bonhoeffer che ne scaturisce è quantomai vivo e vero, e questo, in virtù dello spessore del personaggio presentato, conferisce a sua volta vivacità, forza e credibilità allo sviluppo della dinamica narrativa.
 Bonhoeffer nacque nel 1906 a Breslavia, in un'importante famiglia di intellettuali che gli permise di crescere in un'ambiente eccezionalmente privilegiato, ricchissimo di stimoli culturali. Fra le tante figure di spicco che contava nella cerchia dei parenti, si affezionò in maniera particolare al fratello maggiore Walter, che morì al fronte durante la Prima guerra mondiale, lasciando in eredità a Dietrich il ricordo del suo approccio sereno e insieme problematico alla vita e alla fede.

Un ritratto fotografico di Dietrich Bonhoeffer

 Maturò gradualmente la vocazione religiosa, che si risolse non in un ripiegamento su se stesso di tipo introspettivo, ma in una disponibile apertura al mondo nella sua multiformità, tanto più notevole nella Germania di allora, che si apprestava a offrire terreno fertile per lo sviluppo della mala pianta del nazismo. Del resto, la positiva vitalità di Dietrich appariva chiaramente in ogni suo atteggiamento: amava lo sport quasi quanto lo studio (giocava molto bene a tennis), si dichiarava pacifista e antimilitarista.
 Presto si abilitò all'insegnamento della teologia, e completò la sua formazione culturale con un viaggio negli Stati Uniti (dove rimase folgorato dalla città di New York) e in Messico, un'autentica avventura on the road dal sapore quasi kerouachiano.
 La sua avversione a Hitler e ai suoi seguaci fu da subito aperta e viscerale, come pure la critica nei confronti di coloro che, nell'ambito della Chiesa luterana, si mostrarono presto disponibili ad accodarsi all'ideologia dominante, quando questa conquistò il potere politico, facendone propri anche gli aspetti più ripugnanti, primo fra tutti l'antisemitismo.
 Al cospetto della marea montante del fanatismo nazionalsocialista, tentò di ritagliarsi degli spazi di indipendenza, dando vita - a Finkenwalde, in Pomerania - a una singolare comunità (aperta a uomini e donne), una sorta di seminario clandestino fondato sugli studi religiosi, sulla preghiera, sulla pratica attiva della tolleranza.

Eraldo Affinati

 Quando infine dai gerarchi nazisti arrivò a Bonhoeffer la perentoria ingiunzione di interrompere qualsiasi forma di predicazione, Dietrich fu costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti. Si trattò tuttavia di una "fuga" di breve durata: allo scoppio della Seconda guerra mondiale, qualcosa in lui scattò; fu allora che, pur avendo la possibilità di passare gli anni del conflitto nella condizione del tutto sicura e tutto sommato anche abbastanza comoda di esule perseguitato per motivi politici, preferì rinunciare all'insegnamento presso lo Union Theological Seminary per lasciare New York e ritornare in patria.
 Pur essendo inviso al regime, grazie alla rete di relazioni che la sua estrazione aristocratica gli permetteva di attivare, riuscì a entrare nell'Abwehr, il servizio segreto militare. All'interno di quell'ambiente assai particolare strinse i legami che lo portarono a concepire l'idea - in apparente contraddizione con la matrice pacifista del suo pensiero - che Hitler dovesse essere fisicamente tolto di mezzo.
 La giustificazione etica di una simile posizione aveva una duplice radice: da una parte, la convinzione che il Fuhrer fosse una sorta di perfetta caricatura del Male, una ridicola, burattinesca incarnazione dell'immoralità assoluta, non meritevole di alcun tipo rispetto in quanto priva persino dell'agghiacciante grandezza che - teologicamente - si immagina possa avere l'Anticristo.
 Dall'altra, lo sviluppo dell'originale teoria secondo la quale l'uomo, e in primo luogo il cristiano, deve interpretare la volontà di Dio dimostrando di saper vivere in un "mondo maggiorenne", un mondo in cui la piena assunzione di responsabilità coincide, per ciascuno di noi, con la capacità di sapersela cavare per proprio conto, senza chiedere o addirittura pretendere che il Signore intervenga in nostro soccorso.
 Fu su queste basi che, insieme al cognato Hans von Dohnanyi, cominciò a cospirare con altri ufficiali dell'esercito tedesco in previsione di un colpo di mano capace di abbattere Hitler. Le sue trame, però, suscitarono i sospetti della Gestapo, che lo fece arrestare nell'aprile del 1943.
 Detenuto dapprima nel carcere berlinese di Tegel, perse ogni speranza di salvarsi dopo il fallito attentato al Fuhrer di Claus Schenk von Stauffenberg del 20 luglio 1944, che scatenò una serie di spietate vendette contro tutti coloro che fossero anche solo sospettati di essere in contatto con gli attentatori. Trasferito nel campo di concentramento di Flossenburg, fu impiccato (nudo, all'alba) poche settimane prima della fine della guerra, il 9 aprile 1945.
 Merito principale di questo testo è la capacità di restituirci un'immagine di Dietrich Bonhoeffer fedele alla sua sostanza di eroe vero e concreto, che non necessita di mitizzazioni di maniera per essere considerato grande.

Voto: 7,5

mercoledì 26 ottobre 2016

Alessandro Piperno, "Dove la storia finisce", Mondadori


 Al suo ritorno a Roma dopo sedici anni passati in California, dove era scappato per sfuggire ai creditori, Matteo Zevi - cinquantasei anni e quattro mogli, due al di qua e due al di là dell'Oceano - trova tutti coloro che un tempo gli erano vicini disordinatamente sparpagliati sulla mappa geografica dell'esistenza, ciascuno in un punto dove era difficile prevedere che sarebbe arrivato.
 Giorgio, il figlio di primo letto, ha aperto l'Orient Express, un locale di enorme successo che gli ha permesso di arricchirsi. I suoi rapporti col padre sono stati discreti fino a quando il genitore si è tenuto lontano dall'Italia; dal momento in cui egli ha preso la decisione di rientrare, sono improvvisamente peggiorati. Forse Giorgio teme che l'imprevedibilità di Matteo possa minare la stabilità sentimentale che ha faticosamente conquistato con Sara, ebrea come lui, che porta in grembo il loro bambino.
 Federica (figlia di un ex Giudice della Corte Costituzionale ed ex Senatore della sinistra italiana), la donna per la quale Matteo 25 anni prima ha lasciato la prima moglie, alle soglie dei cinquant'anni è invece ancora in trepidante attesa di quello che non può fare a meno di continuare a considerare il suo uomo, in virtù dei nove anni passati con lui, i migliori della sua vita. Però non può ammetterlo davanti a suo padre, che disprezza Matteo e non sa darsi pace al pensiero che la figlia non abbia mai voluto chiedere il divorzio.
 Insieme, Matteo e Federica hanno avuto Martina, che quando il padre è fuggito in America aveva solo 9 anni, e adesso è una donna. Prima ancora di concludere gli studi, infatti, ha sposato Lorenzo Mogherini, figlio di un noto professore universitario e fratello di Benedetta, la sua storica migliore amica. Apparentemente ha tutto quello che si potrebbe desiderare: soldi, amore, la prospettiva di una brillante carriera di avvocato, l'armonia di una famiglia molto distinta e perfettamente inserita nella buona società dei salotti romani. E tuttavia la ragazza non è felice, e si rende conto di come il ritorno del padre possa ingarbugliare ancor di più il suo difficile stato emotivo. Il disagio più grande è dovuto al fatto che a poco a poco sta sorgendo in lei il dubbio di non essere tanto innamorata di Lorenzo quanto di Benedetta, verso la quale i suoi sentimenti sono certo differenti da quelli che normalmente si nutrono nei confronti di un'amica, assai più complessi e profondi.
 E poi c'è Tati, l'amico di gioventù di Matteo, la persona che non l'ha mai abbandonato, e che a lungo ha aiutato i figli del suo antico sodale - in sua assenza - come se fossero suoi (come se si trattasse dei figli che lui e sua moglie non sono mai riusciti ad avere).
 Tra tutti costoro, sembra che Matteo non riesca più realmente a raccapezzarsi; un po' perché ognuno si è abituato a vivere senza di lui, un po' perché egli si comporta costantemente come se fosse immerso in una sorta di eterna adolescenza, il che non lo aiuta certo ad essere un buon marito e un buon padre. Così, dopo qualche mese tormentato a Roma, si risolve a tornare negli Stati Uniti, con buona pace dei suoi famigliari.

Alessandro Piperno

 Proprio alla vigilia della sua partenza, però, un terribile attentato all'Orient Express (assai simile agli attentati che hanno funestato Parigi alcuni mesi fa) sconvolgerà Roma e i romani, cambiando per sempre il corso della vita di tutti gli Zevi, e rimescolando le carte che sembravano già state date per l'ultima mano della loro partita con il futuro. Non solo: l'attentato segnerà una ineludibile cesura storica, la fine di un'esistenza dominata da problematiche tutto sommato piuttosto frivole e l'inizio dell'epoca delle nuove responsabilità.
 Il libro è meno convincente delle precedenti prove di Piperno, sulle quali, nonostante avessero ricevuto buone critiche e costituissero delle letture piuttosto gradevoli, personalmente già nutrivo qualche perplessità.
 Mi spiego: leggendo Piperno, talvolta, ci si chiede se non si sia di fronte a un nuovo Moravia: accomunano i due scrittori l'origine ebraica, il background altoborghese, l'insistita e problematica esplorazione dei temi della sessualità, lo stile semplice, la capacità di incrociare con le proprie parabole narrative l'attualità del proprio tempo.
 Poi però, se si guarda più a fondo, ci si accorge che di Moravia, in Piperno, non c'è né la capacità di portare critiche feroci alla società e agli individui, né l'abilità nel tratteggiare personaggi e situazioni assolutamente memorabili, né la perizia nel dissimulare la densità culturale dei contenuti proposti, né l'intuito pronto nell'individuare simboli in grado di rappresentare il clima emotivo di un passaggio storico o di un'epoca intera.
 L'ondivago narratore di Piperno si nutre invece di luoghi comuni, dell'ambiguo attaccamento a un mondo di cui solo superficialmente fa mostra di denunciare le storture, di un autocompiacimento letterario che prende sovente la forma dell'esibito citazionismo, la cattiva impressione del quale non viene obliterata né dalla brillantezza dello spin narrativo (che è giusto riconoscere all'autore), né dall'ironia qua e là disseminata fra le pagine di questo e degli altri romanzi.

Voto: 5  

martedì 18 ottobre 2016

Halldor Laxness, "Sette maghi", Iperborea


 Pochi giorni dopo la scomparsa di Dario Fo e la discussa assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, voglio proporre un libro di un altro autore a cui fu assegnato il riconoscimento molti anni fa.
 Halldor Laxness, islandese, premio Nobel nel 1955, fu scrittore capace di fondere i caratteri tipici delle antiche saghe della piccola isola dalla quale proveniva con i grandi temi sociopolitici e filosofici della modernità novecentesca. Le sue opere spesso coniugano la potenza evocativa senza tempo dei miti, la freschezza delle tradizioni orali e la ficcante ironia degli umoristi più brillanti.  
 Sette maghi è una raccolta di racconti particolarmente significativa, perché accosta pezzi narrativi prodotti in un arco di tempo piuttosto lungo, e perché offre spunti che consentono di farsi un'idea abbastanza precisa del modo di fare letteratura di Laxness e della sua impostazione ideologica di fondo.
 Il primo racconto, La scoperta dell'India, ci porta in una terra lontana e dal sapore fiabesco, l'impero di Cina. Esso funge un po' da premessa al libro intero, ed è come se suggerisse al lettore il giusto punto di vista in cui porsi per interpretarlo correttamente: in primo luogo, infatti, rovescia la prospettiva eurocentrica a cui siamo abituati, invitandoci ad abbandonare le nostre certezze; in secondo luogo suggerisce che, nella vita come in un racconto, ci si può perdere per poi ritrovarsi, o ci si può imbattere in ciò che si cerca dove non ci si aspettava di trovarlo.
 Vi si racconta infatti dell'imperatore che, avendo sognato un Paese di favolosa ricchezza posto nel Lontano Occidente, chiede ai suoi cortigiani di partire alla scoperta di quella terra solo sognata. L'incarico della missione viene assunto da Zhang Qian, che messosi in viaggio, giunge nel paese degli Unni; grazie a una serie di circostanze fortunate, diventa re di quel popolo, dimenticando la sua missione per i dieci anni successivi. Ma una mattina, svegliandosi di soprassalto, ricorda l'incarico che ha ricevuto, abbandona tutto quello che ha e riprende il cammino. Dopo molto peregrinare arriva in India; e capisce che quello è veramente il Paese più bello e ricco del mondo, la terra sognata dal suo imperatore. 
 Napoleone Bonaparte è invece la storia di Jon Gudmundsson, un giovane contadino islandese che, cresciuto in una capanna sotto i ritratti appesi al muro di Napoleone e della regina Vittoria - gli unici personaggi storici di cui conosca l'esistenza - concepisce un giorno il desiderio di imbarcarsi per vedere il mondo e per fare grandi cose. Ritornerà povero e stracciato, convinto di essere il nuovo Napoleone Bonaparte e di aver riportato il cristianesimo in Danimarca scacciandovi i Turchi. Tutti lo tratteranno allora con delicatezza, curandosi di non spezzare la sua illusione.
 Pordur il vecchio zoppo è la storia di un pacifico operaio, lontano dalle ragioni del sindacato e impermeabile al marxismo - al contrario di tanti suoi colleghi - che, quando, nel novembre del 1932, la Giunta comunale di Reykjavik decide di ridurre i salari e di eliminare il sussidio di disoccupazione per "dare una lezione ai bolscevichi", si mette alla testa della sommossa dei lavoratori che chiedono di essere ammessi alla riunione dei consiglieri, e partecipa da protagonista ai tumulti noti come "Moti del Guttu", che costringeranno la Giunta a ritornare sui propri passi.

 Halldor Laxness

  La sconfitta dell'aviazione italiana a Reykjavik nel 1933 mette clamorosamente in ridicolo la tronfia prosopopea dei fascisti, che in Islanda nel 1933 approdarono davvero con 25 idrovolanti per fare scalo durante la traversata dell'Atlantico capitanata da Italo Balbo. Pavoneggiandosi con fare marziale nelle loro sgargianti divise, i fascisti italiani si trovano a scontrarsi casualmente con l'unico che nel Paese - notoriamente privo di un esercito - indossi un'uniforme elegante come le loro: un garzone d'albergo (che in Islanda viene chiamato familiarmente, con termine italiano, "piccolo"), Stefan Jonsson, capace di mettere ko l'arrogante capo-delegazione senza neppure sapere di chi si tratti.
 La Voluspa in ebraico parla di uno starno tipo, Karl Einfer, una sorta di bizzarro faccendiere capace di procurare ai suoi clienti qualsiasi cosa; da un massaggio a un dolce alla crema, dalla traduzione in aramaico di un antico poema a un corso di "spiritualità finanziaria", da un saggio grafologico a un premio internazionale (persino il premio Nobel per la letteratura!).
 Un'apparizione nell'abisso è ambientato in Sicilia, e mette in scena l'infatuazione di un giovane viaggiatore per una ragazza del luogo appena intravista attraverso le finestre di casa sua. Vi prevalgono atmosfere sospese e sognanti, e un lirismo attenuato dall'ironia che di tanto in tanto fa capolino fra le pagine.
 Il pifferaio consiste nel racconto - permeato di realismo magico - del rapimento di un giovane sguattero al servizio di una fattoria islandese da parte di un misterioso personaggio, dotato di un inverosimile cappellaccio, che porta sempre con sé un piffero racchiuso in un piccolo astuccio. Nel personaggio si può scorgere un riferimento allegorico neppure troppo mascherato ai tanti dittatori sanguinari che hanno funestato la storia del Novecento, capaci di incantare le masse e di tenere in ostaggio interi popoli
 Con Temucin torna a casa, il racconto che chiude la raccolta, si torna nell'estremo Oriente per narrare gli ultimi anni di vita del Gran Khan, sovrano di cui si parla rivolgendogli i più lusinghieri appellativi, ma che si rivela in realtà capace di compiere con serafica placidità i peggiori atti di sopraffazione nei confronti del prossimo, per il solo fatto di identificare la salute collettiva nella gloria della propria persona, come spesso fanno i potenti.
 Questo libro è un esempio perfetto di come, in Laxness, la linearità della narrazione contrasta fortemente con il suo contenuto, e la "facilità" dello stile si scontra con la problematicità delle questioni sollevate; si creano così effetti ora apertamente antifrastici ora raffinatamente patetici, che catturano l'immaginazione del lettore e rendono memorabile quasi ogni pagina.
 I racconti a mio parere più riusciti sono Pordur il vecchio zoppo e La sconfitta dell'aviazione italiana a Reykjavik nel 1933.

Voto: 7   

sabato 8 ottobre 2016

Annie Ernaux, "L'altra figlia", L'Orma


 Una domenica pomeriggio dell'agosto 1950 - forse la stessa domenica in cui si suicidò Cesare Pavese - la piccola Annie sta giocando con la figlia di una vicina nella strada dietro la drogheria dei genitori, a Yvetot, mentre le due madri parlano poco lontano.
 Improvvisamente, una lieve alterazione nel tono di voce della mamma induce la bambina a prestare ascolto alla sue parole, pur senza darlo a vedere; e quello che sente (quello di cui acquista allora per la prima volta coscienza) la sconvolge.
 La madre racconta di avere avuto un'altra figlia, morta di difterite a sei anni, prima della guerra, cioè prima che Annie nascesse. Racconta del dolore folle del marito al momento della morte della piccola per soffocamento. Racconta di non aver mai detto niente ad Annie per non rattristarla. Racconta che la prima figlia era più buona di Annie.
 Da quel momento Annie sarà costretta a convivere col fantasma della sorella "più buona di lei" che non ha mai conosciuto, e di cui i genitori mai le parleranno, come se avesse vissuto in una dimensione diversa, in un'epoca più felice, a lei non solo inaccessibile ma anche incomprensibile: un eden di cui sua madre e suo padre pare vogliano gelosamente trattenere il ricordo solo per sé - fors'anche perché sarebbe troppo difficile trovare le parole per raccontarlo.
 E' dal tentativo di dare corpo a quel fantasma - e di trovare un terreno comune su cui potersi confrontare con esso - che nasce questo piccolo, toccante libro, composto sotto forma di una lettera rivolta dall'autrice proprio a quella sorella sconosciuta, a lungo quasi rimossa, spesso odiata senza neppure sapere bene perché. Una lettera scritta per fare finalmente i conti con un'assenza capace di riempire paradossalmente di sé tutta la vita di Annie Ernaux, scatenando sentimenti estremamente complessi e contrastanti.

Annie Ernaux

 Da una parte, infatti, c'è l'invidia nei confronti di Ginette (questo il desueto nome della bambina morta), che ha avuto la possibilità di vivere con i genitori quando erano più giovani e spensierati, pieni di energia e di ottimismo, e non ancora fiaccati da tutte le sofferenze e le preoccupazioni che la guerra e il dopoguerra portarono con sé.
 Dall'altra parte c'è un profondo, inestirpabile senso di colpa, dovuto alla sensazione costante di "aver preso il posto dell'altra": i genitori di Annie avevano deciso di avere un solo figlio, e a lungo ha accompagnato l'autrice la convinzione di essere nata solo in virtù della morte della sorella, e anzi il sospetto quasi superstizioso che Ginette fosse predestinata a morire per permettere la sua venuta al mondo (scrive la Ernaux, rivolgendosi alla sorella: La vastità della mia vita, ottenuta in eterno a discapito della tua, mi sommerge. Alle mie spalle tutto è innumerevole, le cose viste, sentite, imparate e dimenticate, le donne e gli uomini frequentati, le strade, le sere e le mattine. Mi sento sopraffatta dalla profusione delle immagini).
 Lo scopo stesso del racconto del rapporto con quella sorella mai sentita viva ondeggia così tra estremi opposti. Si chiede l'autrice: Che ti stia scrivendo per resuscitarti e ucciderti un'altra volta?
 Nello stesso tempo non può non riconoscere che parlare della sorella è parlare di sé: La tua esistenza passa solo attraverso l'impronta che hai lasciato sulla mia. Scriverti non è altro che fare il giro della tua assenza. Descrivere l'eredità dell'assenza. Sei una forma vuota che è impossibile riempire di scrittura.
 La narrazione e il messaggio stesso che porta con sé diventano in definitiva, emblematicamente, il regno dell'ambiguità assoluta. Ambiguo è il destinatario, perché la sorella morta, a cui la lettera è rivolta, non potrà mai leggerla, mentre la riceveranno e la giudicheranno degli sconosciuti lettori; ambigue sono le intenzioni, perché il tentativo di riportare in vita la sorella si confonde con il desiderio di farsi perdonare per aver preso il suo posto, in maniera tale da potersi liberare per sempre dall'ossessione di lei; ambiguo è il risultato, perché parlare della sorella diventa inevitabilmente un pretesto per parlare ancora una volta di sé, e per vivere ancora una volta attraverso di lei al suo posto.
 E proprio il tasso inverosimile di ambiguità che questo libro è in grado di sopportare (in fondo la rappresentazione plastica della sospensione del destino dell'uomo tra la vita e la morte) lo rende a mio parere un piccolo capolavoro.

Voto: 8

sabato 1 ottobre 2016

Eraldo Affinati, "L'uomo del futuro", Mondadori


L'uomo del futuro (titolo meraviglioso) non è tanto una biografia di don Milani; è piuttosto una sorta di seduta spiritica con cui si cerca di far rivivere don Milani e di farlo "parlare".
La rievocazione del Priore passa, da una parte, attraverso la visita dei luoghi che furono teatro degli snodi fondamentali della sua esistenza, e dei superstiti fra le persone che gli furono accanto; dall'altra attraverso la ricerca delle "reincarnazioni" - nei contesti e nelle situazioni più disparate e impensabili - del modo di vivere, di insegnare, di imparare che si realizzò negli anni sessanta a Barbiana.
Pur consapevole dell'irripetibilità umana di don Lorenzo, Eraldo Affinati tenta così di intercettare quelle che potremmo chiamare le "onde gravitazionali" scatenatesi al passaggio nel mondo di una delle figure più discusse e ammirate dell'Italia che, trascorsi gli anni dell'immediato dopoguerra, si affacciava alla modernità.
Nel suo peregrinare - reale e ideale - l'autore visita i luoghi che videro Lorenzo Milani giovane, dalle vie di Firenze, a Montespertoli, a Castiglioncello: appartenente a una prestigiosa famiglia dell'alta borghesia, mezzo ebraica (da parte di madre), mezzo cattolica, il ragazzo aveva la possibilità di vedersi schiudere dinanzi qualsiasi tipo di carriera. Visse un'infanzia privilegiata e poi un'adolescenza veramente degna di un giovin signore, al termine della quale, una volta compiuti gli studi liceali, Lorenzo sembrava destinato a diventare un pittore.
Solo a questo punto maturò rapidamente in lui la vocazione religiosa.
Fin dagli anni del seminario (frequentato nel corso della Seconda guerra mondiale, mentre la Penisola era in fiamme) emersero la sua indole indipendente e la sua intelligenza, capace di critiche puntute all'autorità a cui il mondo ecclesiastico preconciliare non era sicuramente abituato. Con ciò, don Milani non uscì mai dal solco dell'ortodossia; il fatto che entrasse spesso in urto con i suoi superiori (che lo punirono a più riprese), e che mettesse in discussione su tutti i fronti l'obbedienza come valore non lo indusse mai a credere di poter fare a meno dall'abito talare.

Eraldo Affinati

Fu profondamente devoto, il che non gli impedì di sviluppare un approccio intrinsecamente giacobino al problema dell'ingiustizia: credeva nella lotta di classe, pensava che ci si dovesse necessariamente schierare e si schierò senza esitazioni dalla parte dei poveri contro l'etica, la mentalità, lo stesso modo di essere dei borghesi, quasi volesse non solo rinnegare, ma addirittura fare a brandelli tutto ciò che era stato da ragazzo.
Il suo radicalismo si espresse concretamente nel sistema pedagogico da lui teorizzato e praticato: concepì la classe come collettivo, con lo scopo di creare un contesto in cui nessuno fosse lasciato indietro; la forza del gruppo permetteva anzi di rivolgere il processo educativo in primo luogo a beneficio dei più deboli. Il tempo pieno costituiva la dimensione naturale di una scuola che, prima di essere un'istituzione, voleva essere una totalizzante esperienza formativa.
Di certo con questa visione - di cui sono stati sottolineati nel tempo pregi e limiti -, ancora oggi, chiunque abbia a che fare con l'insegnamento deve confrontarsi.
Eraldo Affinati, da parte sua, dichiarandosi seguace di don Milani, la fa propria in toto; in questo modo si dispone a raccogliere, nella realtà intorno a sé, le prove che don Milani aveva ragione.
Innanzitutto riconosce qui in Italia i poveri di oggi - quelli per cui don Lorenzo si sarebbe battuto - negli immigrati.
Contemporaneamente, durante i suoi viaggi in molti Paesi del mondo, trova ragazzi a cui solo un approccio come quello di don Milani saprebbe dare dignità e consapevolezza, fornendo loro gli strumenti per strapparsi dalla propria miserevole condizione.
Su un altro piano, individua in diversi contesti geografici e culturali insegnanti che di don Milani sono emuli spesso inconsapevoli, e rappresentano per i loro allievi la sola speranza di poter avere una vita migliore. Succede in Sierra Leone, in Marocco, a Benares, a Pechino, ma anche nelle periferie degradate delle capitali europee, a Berlino per esempio.
Il modo di procedere dell'autore è squisitamente rapsodico, sia nelle concatenazioni narrative che nello stile, graffiante e raffinato, e questo a volte può disorientare il lettore.
L'abbondanza di riferimenti culturali colti non ostacola la preponderante estrinsecazione degli aspetti emotivi del racconto.
Infine, l'impressione vivida che rimane a seguito della lettura è quella di una passione bruciante e contagiosa, che ci si sente in qualche modo chiamati a fare propria.

Chiudo questa recensione con una piccola nota personale: difficilmente dimenticherò questo libro, visto che lo stavo leggendo nei giorni in cui moriva mia madre.

Voto: 7

venerdì 23 settembre 2016

Vittorio Sermonti, "Se avessero", Garzanti


E' un libro che sembra scritto negli anni sessanta: per temi, stile e ampiezza culturale potrebbe essere un testo di cinquant'anni fa di Alberto Arbasino.
Invece è una sorta di autobiografia cubista proposta oggi da Vittorio Sermonti; il titolo deriva da un interrogativo imperniato su un irreale assunto ipotetico relativo a un episodio avvenuto nel maggio del 1945 nell'appartamento milanese in cui lo scrittore quindicenne viveva con la famiglia: tre partigiani si presentarono allora armati all'ingresso dell'abitazione alla ricerca di un "fascista" che qualcuno aveva visto entrare in quella casa. Il fratello maggiore di Vittorio, che fascista lo era veramente (aveva anzi addirittura combattuto insieme alle truppe tedesche fin dall'8 settembre, che lo aveva sorpreso in divisa in Grecia), tenne testa ai tre, che dopo alcuni minuti se ne andarono senza portare via nessuno.
Cosa ne sarebbe stato del suo futuro - si chiede Sermonti - se i partigiani avessero allora ucciso il fratello seduta stante, o se lo avessero prelevato dall'appartamento per portarlo altrove e giustiziarlo?
L'interrogativo, in realtà, diventa per l'autore un pretesto per parlare di sé e raccontare diversi episodi e personaggi della sua vita.
Nella vertigine retorica di periodi lunghissimi, costruiti su una sintassi eminentemente ipotattica, a vocazione iperdigressiva, il racconto procede per accumulo di informazioni, tra continue ripetizioni, dichiarazioni clamorose buttate lì con noncuranza, giudizi taglienti, ricordi incandescenti, triviali compiacimenti, citazioni ultracolte, gustosi aneddoti. E' come se lo spin narrativo desse luogo allo sbocciare di una rosa infinita, aprendosi su petali sempre nuovi, che però si assomigliano tutti.

Una foto di Vittorio Sermonti di qualche anno fa

Si racconta dei rapporti di Vittorio con la sua vasta famiglia, coi genitori, i molti fratelli e le molte sorelle. Si parla delle ragazze e delle donne amate, platonicamente o carnalmente. Si parla degli studi, del lavoro, dei lunghi soggiorni all'estero: di quello in Germania e di quello a Praga, proprio alla vigilia della famosa Primavera. Si parla di politica, di fascismo, di comunismo, e si teorizza la frivolezza, nelle scelte politiche individuali, delle ipoteche ideologiche rispetto alle ragioni esistenziali e all'incidenza delle circostanze.
Si parla di amicizia, e degli amici più grandi: ci si sofferma sulle ragioni per cui un'amicizia può durare una vita o finire improvvisamente.
Si parla anche di amore, senza enfasi, piuttosto con un'ironia che non si trasforma mai in cinismo.
Anzi, si può dire che l'amore sia presente in filigrana in tutto il testo: il discorso dell'autore è infatti rivolto alla donna amata, chiamata di volta in volta con gli epiteti di sapore classico occhi pescosi e bei ginocchi.
Le pagine che mi hanno più impressionato sono quelle in cui viene descritta la cattiveria della madre di Vittorio, fredda, tendenzialmente anaffettiva, poco generosa e incapace di equanimità nei confronti dei figli.
Alla fine, la convinzione che sembra volersi esprimere è che la vita di un uomo è costituita da una concatenazione di eventi tanto complessa che cambiando anche solo un particolare ne risulterebbero stravolti accadimenti da esso distanti nel tempo e con esso apparentemente irrelati; perciò, se quel giorno di maggio del 1945 il fratello maggiore di Vittorio fosse stato ucciso dai partigiani, l'intera sua vita ne sarebbe sicuramente risultata diversa.
Il libro è interessante perché si sostanzia in un raffinato organismo letterario; certo, lo stile eccessivamente elaborato e ostentatamente desueto, unito a una certa autoreferenzialità, rendono la lettura sovente faticosa, e tutto l'insieme assai meno brillante di quanto si vorrebbe.

Voto: 6+   

lunedì 12 settembre 2016

Jane Urquhart, "Sanctuary Line", Nutrimenti


 Sulla sponda canadese del lago Erie sorgeva ancora, nella seconda metà del Novecento, la fattoria dei Butler, vasta famiglia di origine scozzese emigrata nel Nuovo Mondo da diverse generazioni. Presso la fattoria, circondata da immensi frutteti, accorrevano tutte le estati nutrite schiere di lavoratori messicani dediti alla raccolta della frutta, e vi si riunivano per passare le vacanze tutti i ragazzi dei diversi rami della famiglia Butler stabilitisi in Ontario. 
 Proprietario di tutti i terreni e supervisore di tutte le attività che vi si svolgevano era Stanley Butler, energico imprenditore agricolo, nonché animatore e protagonista assoluto - con la sua inesauribile vena creativa e il suo iperattivismo - di quelle memorabili estati, soprattutto agli occhi dei ragazzi.
 Ma tutto questo ora non c'è più: i frutteti sono scomparsi, gran parte dei terreni è stata venduta, i messicani non vengono più in Canada per la stagione della raccolta.
 In quel che rimane della fattoria adesso si è stabilita in perfetta solitudine Liz Crane, che di Stanley è la nipote (ed era fra i ragazzi che un tempo venivano lì a passare le vacanze); di mestiere fa l'entomologa e studia il comportamento delle farfalle monarca, le farfalle più caratteristiche del nord America.
 Sanctuary Line, la via che dalla fattoria arriva fino al vicino promontorio sul lago, infatti, è un punto di osservazione perfetto delle farfalle, che alla fine della stagione calda si riuniscono sugli alberi da frutto, trasformandoli in spettacolari "roveti ardenti" con il loro colore arancione, prima di intraprendere la lunga migrazione verso il Messico, dal quale le loro pronipoti, guidate dall'istinto, torneranno in Canada l'anno successivo.
 Liz è la narratrice della storia raccontata nel romanzo, che viene presentata sotto forma di una lunga missiva indirizzata a un misterioso personaggio del quale solo alla fine del libro verrà rivelata l'identità.
 Da questo scritto veniamo a sapere, con uno stile disteso - spesso in contrasto con la materia del racconto -, domesticamente comunicativo ma non privo di suggestioni letterarie, le vicende che hanno portato nel corso di un secolo i Butler a diventare proprietari della fattoria e dei suoi terreni, e i fatti che negli ultimi trent'anni hanno spazzato via un'azienda florida e disperso una famiglia numerosa.
 Veniamo a sapere delle professioni tradizionalmente diffuse nei due principali rami dei Butler, quello "degli agricoltori" e quello "dei guardiani di fari"; impariamo a conoscere i personaggi a vario titolo mitici che annovera la storia della famiglia (come il Non-lettore); ci addentriamo nelle dinamiche dei rapporti fra i Butler canadesi e quelli statunitensi, stabilitisi a Cleveland, sull'altra sponda del lago; e tutte queste cose le apprendiamo attraverso un doppio filtro, quello di Liz, e quello di Stanley, che con la sua straordinaria vena affabulatoria un tempo le raccontava a beneficio di tutti gli ospiti della sua casa.

Jane Urquhart

 E' però dalla sola Liz che ci viene raccontato quello che è accaduto più di recente: l'ultimo avvenimento tragico è stata la morte in guerra, in Afghanistan, di Mandy, cugina e amica del cuore della narratrice, che era entrata nell'esercito per fare parte delle forze di pace, e permane nella memoria di chi le voleva bene con l'eco delle poesie che adorava (soprattutto quelle di Emily Dickinson e di Robert Louis Stevenson) e dello struggimento segreto per un amore difficile di cui poco diceva anche a Liz.
 Ma la sua tragica fine ha riportato a galla anche il ricordo di avvenimenti precedenti, e in particolare della terribile sera che segnò la fine dell'epoca delle estati in fattoria: quella in cui Stanley venne sorpreso dalla moglie a letto con una lavorante messicana; e Teo, il figlio della donna (che forse era anche figlio di Stanley medesimo), il primo, indimenticabile amore di una Liz appena sedicenne, morì in un incidente stradale.
 Da quella sera Stanley scomparve per non farsi più vedere, e nulla fu più come prima nella famiglia Butler.
 Il racconto parrebbe a tutta prima il tentativo di una ricomposizione più o meno pacifica di una storia famigliare complessa, costellata di lutti, che nessuno ha ancora trovato il coraggio di affrontare.
 Ma a ben vedere c'è di più. Mano a mano che placidamente si sviluppa la narrazione, sembra quasi che Liz venga progressivamente realizzando un'interpretazione sulla quale si innesta un discorso di respiro filosofico, una originale visione del modo di essere degli uomini.
 E' come se vista da lontano, e posta in una prospettiva temporale di lunga durata, la storia archetipica della famiglia Butler finisse per far risultare l'esperienza di vita degli uomini (di tutti gli uomini) non troppo diversa da quella delle farfalle che Liz studia, tra migrazioni, accoppiamenti, stagioni laboriose, costanti che si ripetono una generazione dopo l'altra.
 Ma proprio nel momento in cui istituisce questo parallelismo apparentemente perfetto, Liz si rende conto di come gli uomini davvero possiedono una facoltà, limitata quanto si vuole ma innegabile, di provare a decidere di se stessi e del proprio destino, che li rende infinitamente più interessanti di qualunque farfalla, anche quando tale facoltà resta solo in potenza, ed essi vengono travolti - come un insetto qualsiasi - dal corso di cose che non riescono a determinare.
 Di splendida impronta femminile, la scrittura pura, tranquilla e sognante di Jane Urquhart riesce così a creare una teoria di aperture liriche e di escursioni euristiche che difficilmente trovano posto insieme in un romanzo.

Voto: 7