domenica 31 gennaio 2016

Marilynne Robinson, "Lila", Einaudi


 Quando Lila Dahl arriva a Gilead e si sistema in una capanna abbandonata in mezzo a un campo ai margini della cittadina è una donna ancora giovane, ma ha alle spalle una vita avventurosa e vagabonda, che le ha insegnato a non fidarsi di nessuno e ad apprezzare la solitudine. Porta con sé un coltello affilatissimo e una coperta, e non possiede altri beni.
 Il suo cognome è inventato, perché da bambina è stata portata via alla sua famiglia d’origine, dove a malapena si accorgevano di lei. A compiere il furto della bambina è stata Doll, che ha un passato misterioso e violento, e su una guancia lo sfregio di una terribile scottatura: Doll ha semplicemente raccolto Lila in preda alla febbre avvolgendola in uno scialle per tenerla al caldo e, da quel momento, le ha fatto da madre e da padre.
 Doll e Lila si sono unite al gruppo guidato da Doane, e per anni hanno girovagato per gli Stati Uniti fermandosi qua e là, dove era possibile lavorare; soltanto per una stagione Lila ha potuto frequentare la scuola pubblica, imparando a leggere e a fare di conto. Il sodalizio con Doane e i suoi è durato fino agli anni della Grande depressione, quando la miseria e la carestia hanno disperso tutti i loro compagni ai quattro angoli del Paese.
 A quel punto Doll era già invecchiata, ma Lila era diventata abbastanza grande da cavarsela da sola, guadagnandosi la vita come commessa in un negozio.
 Sembravano le premesse perfette per la costruzione di una nuova serenità; ma un giorno Doll era tornata a casa completamente coperta di sangue dopo aver ucciso a coltellate un uomo che la minacciava. L’arresto e la perdita dell’unica persona amica che avesse al mondo avevano precipitato Lila nel più assoluto stordimento, spingendola ad abbandonare ogni cosa e a partire per andare più lontano possibile. Così era approdata a Saint Louis, ed era finita a lavorare in un bordello.
 Nel momento in cui giunge nell’Iowa e si rifugia nella capanna vicino al fiume, Lila è in fuga da tutto ciò, e il coltello che porta con sé è proprio quello con cui la vecchia Doll ha ucciso.
 Nessuno però, a Gilead, sa queste cose.
 Lila del resto, non ha in mente nessun progetto particolare e non pensa di fermarsi lì; spera solo di guadagnare – con dei piccoli lavoretti svolti per le famiglie del posto – abbastanza denaro per prendere una corriera e spostarsi dall’Iowa verso regioni più calde prima che cali l’inverno.
 Questo anche se a Gilead in effetti si sente benvoluta: tutti sembrano disposti a darle una mano, tutti le offrono qualche lavoro con cui sbarcare il lunario. Probabilmente la cortesia degli abitanti della cittadina è dovuta ai buoni uffici di John Ames, il vecchio pastore della chiesa calvinista − nella quale Lila si è riparata per caso in un giorno di pioggia –, che è stato gentile con lei come mai nessuno prima.
 Il pastore le ha parlato, l’ha ascoltata, ha mostrato interesse verso di lei, le ha persino proposto di battezzarsi. Lila non ha accettato subito, ma in cambio, senza che nessuno glielo chiedesse, ha preso a occuparsi dell’orto del pastore e anche, nel vicino cimitero, della tomba della moglie e della figlioletta, morte molto tempo prima.
 Non può certo immaginare che, di lì a poco, proprio lei diventerà la nuova moglie di John Ames, e porterà in grembo suo figlio, mentre nella sua casa, nella tenerezza di un amore dolcissimo e autentico nonostante la differenza d’età, comincerà a riflettere sulla sua esistenza, e sull’esistenza umana in generale.

Marilynne Robinson

 La prospettiva di prendersi cura di una nuova creatura, la lettura della Bibbia, il dialogo garbato e profondo col marito, il confronto con le durezze che ha dovuto attraversare in passato, l’impossibilità di eliminare il dolore o di imparare ad accettarlo fino in fondo renderanno la riflessione di Lila e il suo percorso interiore complessi e articolati, rivelando una personalità interessantissima e conferendo alla sua esperienza del tutto singolare una valenza universale.
 Con il terzo episodio della saga iniziata con Gilead e proseguita con Casa, Marilynne Robinson procede ancora una volta a ritroso nel tempo, quasi a esplorare le radici delle vicende raccontate nei romanzi precedenti. Lo fa, come sempre, sulla scorta di quella cultura cristiana intrisa di richiami veterotestamentari e, nel contempo, di quella mentalità pionieristica aperta al futuro che insieme sono tanta parte dello spirito che caratterizza quasi geneticamente l’America profonda.
 Lo fa, soprattutto, sulla scorta di una scrittura impareggiabile, raffinatissima, nemica giurata della retorica ad effetto.
 La prosa di Marilynne Robinson – resa in maniera magistrale dalla traduttrice Eva Kampmann – crea un tessuto di parole fittissimo, che aderisce alla perfezione ai pensieri dei personaggi: una candida coltre di neve che copre ogni cosa, lasciando indovinare la purezza dei sentimenti che si nascondono sotto la purezza delle frasi.
 Tanto che, a distanza di tempo dalla prima lettura di un romanzo di questa scrittrice, il lettore sperimenta come può capitare di dimenticare alcuni particolari dell’intreccio, ma si ricordano con assoluto nitore sia il carattere specifico dei personaggi, sia le dinamiche sentimentali in atto tra loro, sia il “clima morale” in cui si svolgono le vicende raccontate.
 Insomma, per lo stile, per l'abilità nel tratteggiare la fisionomia dei suoi protagonisti con una finezza difficilmente eguagliabile, per la capacità di immergere totalmente il lettore in un mondo concreto, con le sue regole e la sua particolare sensibilità, possiamo ben riconoscere in Marilynne Robinson una delle massime scrittrici oggi viventi.

Voto: 8,5

domenica 24 gennaio 2016

Sandro Veronesi, "Non dirlo. Il Vangelo di Marco", Bompiani


 Si può rileggere un Vangelo come se fosse la sceneggiatura di un film di Quentin Tarantino? È proprio quello che prova a fare Sandro Veronesi, proponendo la sua originale rivisitazione del Vangelo secondo Marco.
 Per la verità, pare che in quest’ultimo periodo i testi sacri vadano particolarmente di moda presso gli intellettuali laici: di recente, nel suo Il Regno, anche Emmanuel Carrère ha approfondito la figura dell’evangelista Luca, sviluppandone romanzescamente il profilo fino a fargli assumere una inedita concretezza e un fascino tutto nuovo.
 Curioso è poi il fatto che, così come Carrère prova a spiegare alcune caratteristiche del Vangelo di Luca immaginando che il suo destinatario fosse un cittadino romano abbastanza danaroso da annoverare tra i propri clientes l’evangelista stesso, anche Veronesi ipotizza che Marco scrivesse principalmente per i romani, e che alcune delle scelte stilistico-retoriche riconoscibili nel suo testo siano direttamente derivanti da questa premessa.
 Io non sono in grado di dire se Veronesi abbia ragione: è assai difficile – per non dire impossibile − ricostruire con precisione l’orizzonte di attesa nell’ambito del quale furono concepiti i Vangeli; le congetture più o meno sottili attraverso cui si prova a indovinarlo risultano prive di qualsivoglia riscontro documentario.
 E tuttavia la prospettiva assunta dallo scrittore appare sicuramente funzionale a un’analisi del Vangelo marciano capace di farne emergere al meglio la forza espressiva e, per così dire, la modernità.  
 Marco fu il primo a narrare la storia di Gesù; lo fece probabilmente verso il 65 d.C. (dunque una trentina di anni dopo la morte di Cristo), mettendo per iscritto il racconto dei fatti che aveva raccolto da Pietro, di cui era seguace e per il quale agiva come luogotenente e “segretario”. Gli esegeti, del resto, ritengono che Marco avesse conosciuto personalmente Cristo, ma solo per poco, alla fine della sua avventura terrena: nel suo Vangelo, quando Gesù viene catturato nell’orto dei Getsemani da uomini armati condotti colà da Giuda, si descrive un ragazzino che, abbandonata la sua veste, fugge nudo, impaurito dal parapiglia che si scatena; ebbene, proprio di Marco si tratterebbe, perché nessuno se non colui che quell’esperienza ha vissuto, riuscirebbe a raccontare un episodio tanto vivido con una simile ricchezza di particolari.

Dal Vangelo di Marco: sgomento delle cosiddette tre Marie al Sepolcro, particolare della Maestà di Duccio di Buoninsegna

 Oltre a essere il primo dei Vangeli, quello di Marco è anche il più sintetico: non vi viene neppure riportato un episodio centrale della predicazione di Gesù come il cosiddetto “Discorso della Montagna”. Questo perché – fa notare Veronesi – Marco predilige l’azione e il ritmo alla parola.
Proprio qui sta uno dei tratti più moderni di Marco: la folgorante rapidità con cui riesce a descrivere Gesù in azione, la nettezza con cui Cristo viene colto in scene simili a indimenticabili fotogrammi, la fisicità e il dinamismo presenti in tanti episodi, la tendenza a evitare di indugiare troppo a lungo nella teoresi pura; tutte cose che rendono la sua narrazione di quanto accadde in Palestina duemila anni fa incalzante e sempre appassionante.
 Nella Versione di Marco, fra l’altro, il magnetismo di Gesù si basa principalmente sulla sua capacità di compiere esorcismi e miracoli, e sul mistero che circonda la sua figura più che sulla sostanza etica rivoluzionaria del suo messaggio; secondo Veronesi, in questo modo Marco voleva colpire i romani destinatari dei suoi scritti evitando che si annoiassero, non potendo essi cogliere tutti i riferimenti alla tradizione ebraica presenti nei discorsi di Gesù.
 Spesso sembra perfino che l’evangelista voglia enfatizzare gli aspetti avventurosi del suo racconto per avvincere ancora di più il lettore: pare ad esempio che Gesù e i suoi si muovano in Palestina come dei guerriglieri, spostandosi da un covo all’altro, senza mettere radici da nessuna parte per non diventare un facile bersaglio per i loro nemici giurati: gli scribi e i farisei.
 Soprattutto, però, Veronesi vede il punto di forza principale del Vangelo di Marco e il suo più evidente tratto di modernità nella scelta di rappresentare vivacemente l’incredulità e il disorientamento che possono cogliere chiunque di fronte all’ipotesi della fede e della sua aperta professione: gli apostoli stessi appaiono costantemente goffi e inadeguati di fronte all’agire di Gesù e ai compiti che egli assegna loro; non lo capiscono e non sono praticamente mai all’altezza delle sue aspettative; talvolta alcuni di loro fanno letteralmente la figura degli idioti.
 In questo modo sembra che Marco cerchi di mettere a proprio agio il neofita che è incuriosito dalla nuova religione, ma trova difficili da digerire alcuni dei suoi elementi sostanziali, primo fra tutti quello riguardante la Resurrezione di Cristo.  
 Anche Gesù è consapevole della difficoltà insita nel suo messaggio e di quella di coloro ai quali viene chiesto di credere; tanto è vero che il controcanto al disorientamento di coloro che ascoltano le parole di Cristo e assistono ai suoi miracoli sta nel fatto che, più volte, paradossalmente, Gesù chiede a coloro che dovrebbero essere incaricati della predicazione del suo verbo di mantenere il più assoluto riserbo sul suo operato. Non dirlo! Quante volte compare questa locuzione nel Vangelo di Marco?

Sandro Veronesi

 Si crea così un particolarissimo campo di tensioni tra l’operazione propagandistica che di fatto Marco sta compiendo con la diffusione del racconto della vita, della morte e della Resurrezione di Gesù e l’alone di mistero che finisce per avvolgere Cristo e la sua missione in terra.
 Il culmine della tensione si raggiunge alla fine, con quella che secondo molti esegeti è l’originaria conclusione del Vangelo di Marco, anche se posteriormente (forse nel II secolo dopo Cristo) sono stati aggiunti altri versetti che parlano delle apparizioni post mortem di Gesù ai discepoli e della sua ascensione al cielo. È domenica, e vi sono Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome che si recano al sepolcro per ungere con oli aromatici la salma di Gesù, crocifisso il venerdì precedente. Lungo il cammino si chiedono chi le aiuterà a rotolare via dall’ingresso la pesante pietra che chiude il sepolcro. Quando giungono sul posto, però, notano che la pietra è già stata spostata e, avvicinandosi, trovano un giovane di bianco vestito “seduto sulla destra”, che invita le tre donne a non avere paura, annuncia la Resurrezione di Gesù e chiede loro di andare a dire ai discepoli che il Maestro li precederà in Galilea. Ma la chiusura è sorprendente: le donne fuggono, piene di spavento e di stupore, e - chiosa Marco - "non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite”.
 L’operazione compiuta da Veronesi è molto curiosa, interessante e umanamente toccante, anche se è priva della profondità e della capacità di coinvolgere il lettore di quella – per certi versi analoga – condotta da Carrère.
 Tanto che, alla fine, rimane la sensazione di un approccio un po' troppo epidermico a un testo che offrirebbe molti altri spunti. Di positivo c'è però la voglia che il libro mette addosso di andare a confrontarsi nuovamente con la viva lettera del Vangelo di Marco anche sulla scorta di ciò che Veronesi pensa e dice.

Voto: 6-

domenica 17 gennaio 2016

Duncan Hamilton, "George Best, l'immortale", 66th a2nd


 George Best era emozione, velocità, stupore; la sua leggenda – e le fantasie di cui essa si sostanzia nell’immaginario popolare – si basano su questi elementi. Duncan Hamilton non trascura tutto questo, ma il suo approccio alla figura del campione di Belfast è più complesso e sfaccettato.
 Il titolo dell’originale inglese suona così: Immortal: The Definitive Biography of George Best.
 L’aspirazione è dunque quella di stabilire qualcosa di “definitivo” a proposito della vita di George Best, e uno dei pregi maggiori di questo libro, in effetti, è la completezza, ottenuta grazie a un eccezionale sforzo di documentazione, che l’autore si sobbarca in virtù della sua dichiarata passione per il personaggio. Del resto, come Hamilton stesso afferma, scrivere una biografia significa restare per mesi – e a volte per anni – in costante compagnia della medesima persona; difficile portare a termine il progetto se non si gradisce quella compagnia.
 Il fatto che Hamilton parteggi scopertamente per George Best, tuttavia, non gli impedisce di esplorare le molte zone d’ombra della tormentata parabola esistenziale di questo fuoriclasse, e nessuno sconto viene fatto quando occorre mettere a fuoco le precise responsabilità del calciatore nordirlandese nel suo precoce declino.
 Prima di tutto questo, però, c’è l’esaltazione del mito, rappresentata in maniera indimenticabile dalla straordinaria partecipazione popolare ai funerali di George Best, celebrati il 3 dicembre del 2005 e descritti da Hamilton con altissimi toni epici ed elegiaci, che fanno vibrare all’inverosimile la corda della commozione.
 Da qui si parte per cominciare a parlare delle origini di Best, della nascita in un’umile famiglia operaia, degli anni della sua formazione a Belfast, dell’amore per il calcio fin da ragazzo, della sua timidezza fuori dal campo, paradossalmente associata alla sua proverbiale sfrontatezza durante le partite.
 Poi George fu notato da Bob Bishop, romanzesco personaggio che faceva l’osservatore per conto del Manchester United in Irlanda del Nord; e per lui cominciò la vera avventura. In realtà non partì esattamente col piede giusto: appena giunse a Manchester, a quindici anni, Best si sentì tanto solo e disorientato da decidere immediatamente di tornare a Belfast. Soltanto la saggezza del padre e la pazienza dei responsabili della squadra gli consentirono di rivedere quella scelta e di avere l’abbrivio per una carriera senza eguali.

George Best al culmine della sua carriera

 Il racconto degli anni precedenti l’esordio in Prima Divisione (allora non esisteva la denominazione Premier League), passati fra allenamenti sempre più duri, le cure di Mary Fullaway – presso la quale alloggiava a Manchester, e che divenne per lui una sorta di seconda madre − e il crescente interesse per la giovane speranza del vivaio da parte di Matt Busby, costituisce senz’altro la parte più bella del libro.
 Busby, lo storico allenatore della squadra, era stato coinvolto nel 1958 nell’incidente aereo di Monaco, nel quale quasi tutti i migliori giocatori del Manchester erano morti di ritorno da una semifinale di Coppa dei Campioni. Da allora tutto il suo impegno era teso al tentativo di ricostruire un team capace di competere ai massimi livelli in Europa. In Best, Busby vedeva, da una parte, il genio calcistico intorno al quale poter organizzare una squadra vincente; d’altra parte, però, riversava su di lui un affetto simile a quello che si prova per un figlio, come se leggesse nell’arrivo del giovane una sorta di risarcimento per la perdita dei “suoi” ragazzi, che il fato gli aveva crudelmente strappato sulla pista dell’aeroporto di Monaco.
 Best, da parte sua, si sorprendeva sempre un po’ dell’attenzione che Busby dimostrava nei suoi confronti; nel suo candore adolescenziale, non si riteneva così bravo da meritarla. Si riteneva troppo minuto e fragile per poter competere con i migliori; non si rendeva perfettamente conto del suo talento.

George Best palleggia in mezzo a un gruppo di giovani calciatrici

 Il resto è noto, anche se qui viene narrato con una ricchezza di particolari altrove introvabile: la rapida ascesa, il folgorante successo che trasformano Best nella prima icona pop del calcio britannico, gli anni ruggenti in cui divenne uno dei migliori giocatori del mondo, il mito del “quinto Beatle”, l’apoteosi della conquista della Coppa dei Campioni e del Pallone d’oro nel 1968; da qui il denaro, le donne, gli eccessi, le prime difficoltà, la crisi, i tentativi di risollevarsi; e poi il tracollo professionale e la fine del rapporto col Manchester, senza che ne risultino compromessi né il fascino di Best al cospetto del pubblico, né la sua capacità di fare soldi. Con il passare degli anni arriveranno le battute folgoranti, in linea con il personaggio trasgressivo che i media gli hanno cucito addosso, e la definitiva compromissione della sua salute per via dei suoi problemi con l’alcol, dapprima negati con insistenza, e poi divenuti tanto evidenti da essere impossibili da nascondere. La morte giungerà, desolatamente, dopo un inutile trapianto di fegato.
 Cosa rimane della figura di Best dopo aver letto questo libro?
Senz’altro il senso della freschezza dei suoi primi anni a Manchester, in cui la sua passione per lo sport era autentica e praticamente esaustiva, e in cui maturò un amore per la maglia della propria storica squadra che non venne mai meno, neppure nei momenti più bui.
 Resta la consapevolezza che nessuno come lui, nel bene e nel male, seppe incarnare nel mondo del calcio la carica di novità e di informalità, capace di scompaginare i vecchi schemi, che investì a tutti i livelli la civiltà occidentale negli anni intorno al 1968.

Duncan Hamilton

 Resta poi l’intuizione di un’intelligenza assai più vivace di quanto taluni comportamenti e scelte di vita lascerebbero supporre; un’intelligenza evidente tanto nelle battute spaccone (“Se fossi stato brutto, nessuno avrebbe sentito parlare di Pelé”; “Dicono che sono uscito con sette miss mondo, ma erano solo quattro. Alle altre tre ho dato buca”) quanto in quelle autoironiche (“Ho speso gran parte dei miei soldi per alcol, donne e automobili sportive. Il resto l’ho sperperato”; “Nel 1969 ho dato un taglio ad alcol e donne. Sono stati i 20 minuti peggiori della mia vita”; “Ho smesso di bere… ma solo quando dormo”).
 Resta però anche l’impressione di un approccio un po’ troppo “istituzionale”, che pur senza nascondere nulla della vita di Best, tende a smorzare asperità e contrasti, e ad attenuare quello che potrebbe infastidire coloro presso i quali il mito soprattutto dura: i tifosi del Manchester United. Un esempio? Non viene riportato il suo celebre, tagliente giudizio su David Beckham, altra icona, a noi più vicina, del club: “Non sa calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molto. A parte ciò è un buon giocatore”.
 Così si rischia stranamente di tradire un po' proprio ciò che sarà sempre indissolubilmente legato al nome di George Best: emozione, velocità, stupore.

Voto: 5,5

domenica 10 gennaio 2016

Wu Ming,"L'invisibile ovunque", Einaudi


 Pur non riproponendo il collaudato schema del romanzo storico (già sperimentato in passato in numerose occasioni, cimentandosi con eventi chiave di epoche diverse), i quattro scrittori del collettivo Wu Ming si confrontano anche questa volta con la storia, calandosi nello scenario della Grande guerra, e lo fanno come sempre a modo loro; vale a dire, esplorando alcuni degli aspetti meno conosciuti e più particolari del periodo indagato, e assumendo una prospettiva inconsueta per provare a gettare una luce nuova e differente su quanto comunemente si ritiene già noto.
 Il libro si compone di quattro racconti che narrano le storie di quattro uomini coinvolti nel conflitto, e che dall’angosciosa trappola di una strategia militare che trasforma i soldati in mera carne da cannone cercano di trovare una via di fuga.
 Il primo racconto, il più “classico” dei quattro, ha come protagonista Adelmo Cantelli, giovanissimo contadino dell’Appennino bolognese che odia il lavoro nei campi – a cui lo costringe l’impoverimento della famiglia che fa seguito allo scoppio della guerra e alla partenza per il fronte del fratello maggiore – e ama solo la caccia, in libertà, nei suoi boschi.
 Così, la scelta di arruolarsi come volontario, sottraendosi al controllo dei genitori, è un primo paradossale tentativo di uscire dalle angustie in cui lo ha indotto la guerra stessa: per farsi mandare al fronte Adelmo è addirittura costretto a “barare” sulla sua ridottissima statura, che lo renderebbe riformabile.
 E quando si rende conto che la vita di trincea è solo un’altra prigione, e vede il suo amico Cesario morire come un topo al primo assalto, Adelmo non trova niente di meglio da fare che provare a fuggire dalla sua situazione alzando di nuovo la posta: entrerà a far parte degli Arditi, i reparti di assalto, imparerà a uccidere e a trarre vantaggio dalla violenza. Alla fine sopravviverà alla guerra, ma solo per constatare, una volta tornato a casa, che nulla è cambiato rispetto a un tempo; solo il fratello, caduto in battaglia, ha forse trovato l’unica via di fuga realmente percorribile per gente come loro in un mondo dominato dalle stesse logiche assurde e crudeli operanti durante il conflitto.
 Il secondo racconto ha come protagonista Giovanni Mizzoli, un sottufficiale di estrazione borghese che, seguendo l’esempio di un amico, cerca di scansare i pericoli della vita in trincea e degli assalti alla baionetta fingendosi pazzo e facendosi ricoverare in manicomio. Alla fine cadrà preda di una pazzia reale, per la disperazione della moglie Lisa.
 L’originalità del racconto sta nella commistione di brani di pura invenzione e di documenti storici che descrivono la vita come in effetti era negli ospedali in cui venivano curati i soldati usciti di senno, dove si tentava di discernere tra casi di pazzia vera e le simulazioni di quelli che gli ufficiali dello Stato Maggiore dell’esercito definivano “codardi”, che miravano solo a disertare e a “imboscarsi” per sottrarsi al conflitto.
 L’approccio di Wu Ming finisce per bollare quella distinzione come puramente speciosa: pazzi veri e simulatori erano tutti vittime della guerra e del terrore e della disperazione che essa seminava.
 Il terzo racconto è il più “colto”; protagonista ne è infatti Jacques Vaché, amico di André Breton e suo ispiratore, considerato fra gli iniziatori del surrealismo. Figlio di un ufficiale di carriera, amante degli atteggiamenti da dandy e di tutto ciò che era inglese, Vaché partecipò al conflitto, ma senza fare propria la mentalità militaresca; traendo invece spunto da quell’esperienza per affinare la sua capacità di critica del mondo contemporaneo. Morì nel 1919, senza essere stato congedato: fu trovato una mattina nudo nel letto di una stanza d’albergo insieme al suo amante, entrambi vittime di un’overdose.
 Wu Ming immagina un incontro avvenuto negli Stati Uniti nel 1949 tra Breton e Marie Louise, sorella di Vaché, di vent’anni più giovane di lui, nata proprio negli anni in cui infuriava la Grande guerra. Parlando con Breton, cercando di raccogliere qualche notizia su quel fratello morto quando lei era solo una bambina, e la cui esistenza le è stata tenuta nascosta per decenni dai famigliari, la donna capisce come la vita e la morte scandalosa di Jacques hanno rappresentato una clamorosa per quanto criptica ribellione all’inumana violenza incarnata dalla guerra e così bene impersonata dalla morale rigida e ipocrita del padre militare.
 Non è un caso, poi, che il “tempo della storia” sia collocato dopo la Seconda guerra mondiale; quasi a sottolineare il fatto che gli eventi che sconvolsero il mondo negli anni quaranta del Novecento sono intimamente legati alle dinamiche che misero in moto, venticinque anni prima, la Grande guerra.

Diversi tipi di Shrapnel in uso durante la Prima guerra mondiale

 L’ultimo racconto è sicuramente il più bello e il più originale. Il motivo della dissimulazione come virtuoso strumento di protezione viene qui tematizzato grazie alla figura di Francesco Paolo Bonamore, appartato e attardato pittore di paesaggi, il cui estro sviluppa l’arte del mimetismo e, nel corso della Prima guerra mondiale, cerca di metterla a disposizione dell’esercito italiano. Le tecniche di camouflage messe a punto da Bonamore sarebbero perfette per proteggere i fanti dall’inutile mattanza alla quale vengono esposti; in alcuni casi sono tanto geniali da poter condurre alla più rapida vittoria di una battaglia minimizzando le perdite.
 Il fatto è che lo Stato Maggiore dell’esercito non capisce Bonamore, non comprende nemmeno il suo linguaggio perché ragiona secondo diversi schemi logici: nella concezione eroica, “ascensionale” del conflitto che è diffusa fra i generali, il sacrificio dei soldati non conta granché; piuttosto che nascondere i fanti per proteggerli, essi preferiscono celare le macchine belliche per preservarne l’efficienza e la facoltà di offesa. Anzi, il mimetismo applicato ai soldati è integralmente da rigettare perché contrario alla dominante etica della guerra: nascondersi è “da codardi”.
 Bonamore è un personaggio di pura invenzione, eppure la sua figura, calata in un contesto ricostruito con assoluto rigore documentario, appare perfettamente plausibile, e riesce a svelare gli aspetti deteriori della psicologia e della retorica bellica che furono cogenti cent’anni fa (e forse lo sono anche oggi), e che rimarrebbero oscuri se non venissero portati alla luce con questo escamotage narrativo.
 Questo elaborato e intelligente discorso sul mimetismo permette di assegnare un’assoluta centralità a questo libro nell’ampia produzione di un gruppo di scrittori che proprio del mimetismo ha fatto una delle proprie ragioni d’essere letterarie. Molti criticano i Wu Ming per via della scelta di conservare il loro anonimato, rimanendo “opachi” al cospetto dei mezzi di comunicazione. Alcuni di questi parlano della loro patente differenza come di una forma particolarmente raffinata di esibizionismo, utilizzabile in chiave commerciale; altri, al contrario, stigmatizzano il rifiuto dei quattro scrittori di prendersi personalmente la responsabilità di quello che scrivono presentandosi di fronte ai lettori con i loro nomi e cognomi.
 Qui, in realtà, l’ottica esasperata della guerra consente di assumere un punto di vista totalmente diverso: il mimetismo è una forma di rifiuto dell’esaltazione dell’individualismo più sfrenato che, in pace come in guerra, finisce per essere un pretesto – giocato in maniera ipocrita o gaglioffa – per legittimare varie forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
 O, detto altrimenti, la smodata enfatizzazione di ciò che è specificamente individualistico rischia di trasformarsi in un incoraggiamento dell'egoismo, e di far passare in secondo piano ciò che è collettivamente umano, che è proprio di tutti noi, che tutti ci accomuna, e che per questo andrebbe preservato come quello che abbiamo di più prezioso. Il mimetismo, raffinata forma di dissimulazione dell'ego, serve appunto a mettere l'uomo al riparo dall'individuo.

Voto: 7

domenica 3 gennaio 2016

Stefano Valenti, "La fabbrica del panico", Feltrinelli


 Sul risvolto di copertina del libro si legge: “Dai primi romanzi di Paolo Volponi nessuno è riuscito a entrare in fabbrica con la potenza, il nitore, la stupefazione di Stefano Valenti, e quello che sembra un mondo perduto torna come il rimosso infinito della sopraffazione”.
 È stato proprio il richiamo a Paolo Volponi a convincermi a leggere questo libro: un po’ per ragioni sentimentali, perché all’opera di Volponi ho dedicato la mia tesi di laurea; un po’ perché piuttosto rari, nel panorama letterario italiano, sono i romanzi volti a descrivere la realtà produttiva, il mondo del lavoro, e in particolare il mondo del lavoro industriale.
 In Volponi sono soprattutto due le opere narrative focalizzate sulla realtà industriale: il romanzo d’esordio, Memoriale, pubblicato nel 1962, che vede come protagonista un giovane operaio affetto da disturbi psichici, che guarda all’ingresso in fabbrica come alla giusta via per poter guarire dalla malattia trovando un suo equilibrio, ma le cui speranze vengono frustrate dall’impossibilità di dare un senso al proprio lavoro e di ricondurre alla natura i ritmi con i quali esso è vissuto; e Le mosche del capitale, pubblicato nel 1989, in cui il protagonista è invece un manager che vorrebbe trasformare l’industria in una realtà capace di produrre benessere, bellezza e armonia per tutti, ma finisce per esser emarginato dalla miopia di dirigenti d’azienda incapaci di uscire dalla logica della massimizzazione dei profitti tipica del capitalismo classico.
 Il pensiero di Volponi si pone nel solco di una certa versione del marxismo e assume una prospettiva che possiamo chiamare progressista: l’industria e le innovazioni che porta con sé hanno una carica intrinsecamente positiva; la fabbrica, i macchinari, il processo produttivo nel mondo contemporaneo sono tanto affascinanti da meritare descrizioni ricche di accenti lirici, come quelle che tradizionalmente si riservano ai più suggestivi fenomeni naturali; è l’organizzazione sociale su cui è imperniata la gestione dell’industria a richiedere un profondo intervento di riforma.
 Nulla di tutto ciò in Stefano Valenti, per il quale la fabbrica è simile in tutto e per tutto a un inferno.
 La storia che viene raccontata da Valenti è quella del padre, per anni operaio alle acciaierie Breda di Sesto San Giovanni, poi scappato dal suo odiato lavoro e dalla fabbrica per tornare nella natia Valtellina e dedicarsi stentatamente alla sua vera passione, diventata presto “occupazione” indispensabile per vivere e respirare: la pittura.
 La fuga risulta tuttavia tardiva: la prolungata esposizione alla polvere d’amianto (proveniente dai grembiuli utilizzati per proteggersi dal calore, e dalle coperte usate per avvolgere i tubi incandescenti, queste e quelli presto sbrindellati) condanna l’uomo, come quasi tutti i suoi colleghi di reparto, alla morte per mesotelioma pleurico.
 Dei danni subiti dagli operai su un luogo di lavoro malsano erano perfettamente consapevoli i dirigenti dell’azienda, che però, per contenere i costi, non hanno mai preso gli opportuni provvedimenti (gli aspiratori sono stati installati solo in alcuni punti della fabbrica e solo dopo anni di pressioni da parte dei Sindacati); e tuttavia, quando viene celebrato il processo, nessuno dei colpevoli paga per il male fatto.

Stefano Valenti

 D’altra parte l’amianto è solo uno degli aspetti negativi della fabbrica: la fabbrica svuota l’anima, costringendo l’operaio a gesti sempre uguali e a un’attività irrelata col mondo esterno; la fabbrica genera panico, imponendo turni del tutto innaturali e ritmi troppo serrati per essere, alla lunga, sopportabili. In fabbrica neppure nascono amicizie, perché gli operai non hanno tempo e modo di comunicare e di confrontarsi davvero, e ciascuno è chiuso nel bozzolo della sua rabbia e della sua disperazione. E tutte le descrizioni dell’acciaieria che vengono fornite in questo libro hanno qualcosa di cupo e di allucinato.
 Non solo: la rabbia, la disperazione, il panico si diffondono come onde sonore persino all’esterno della fabbrica, invadono le strade, i caseggiati, la stessa città di Milano, presentata talvolta come un’immensa periferia di se stessa.
 Anche l’autore appare pervaso dallo stesso panico di cui è caduto preda il padre quando ha dovuto fuggire dalla fabbrica, e dallo stesso odio indiscriminato per chi perpetua uno stato di cose capace di generare solo ingiustizia, sfruttamento, depressione, disumana indifferenza per tutto ciò che non si può tradurre in vantaggi produttivi.
 Insomma, se Volponi contemplava la possibilità di un mutamento della società capace di realizzare un’utopia positiva, nessuna speranza è concepibile nel mondo di Valenti.
 E se nessuna speranza è concepibile, la letteratura non serve a denunciare le storture del mondo attuale per aiutare a immaginarne uno migliore; serve solo a innalzare al cielo uno straziante urlo di dolore, a spargere sulla fredda terra le testimonianze del proprio patimento, come le ceneri del padre nel brullo paesaggio alpino.
 Il risultato finale è l'assunzione di un'ottica che potremmo chiamare anarchica, tutta virata sulla critica negativa di ciò che è: un'ottica fortemente suggestiva, sicuramente coinvolgente, e con notevoli tratti di autenticità, ma inevitabilmente limitata e limitante in una prospettiva politico-filosofica.

Voto: 6