domenica 28 febbraio 2016

Alberto Arbasino, "L'Ingegnere in blu", Adelphi


 Libro dedicato da Alberto Arbasino alla memoria di Carlo Emilio Gadda, in cui si sedimentano ricordi personali della frequentazione del maestro lombardo del plurilinguismo da parte dello scrittore di Voghera, considerazioni critiche, aneddoti, memorie di letture gaddiane, giochi verbali in cui le parole di Arbasino inseguono quelle di Gadda e si mischiano con esse, fino a creare un pastiche esplicitamente mimetico delle migliori pagine dell’autore della Cognizione del dolore.
 Il testo è di alcuni anni fa; l’ho ripreso in mano ora, e ne parlo qui, perché la morte di Umberto Eco una settimana fa mi ha fatto tornare in mente tutti i limiti della narrativa postmoderna, di cui Eco era uno dei principali esponenti italiani e che troppo spesso viene acriticamente esaltata. Le opere di Gadda possiedono alcune di quelle che sono considerate caratteristiche tipiche della letteratura postmoderna: l’estrema consapevolezza dello scrivente, la tendenza al citazionismo, la commistione dei saperi, la possibilità di leggere alcuni passi a diversi livelli. Eppure nessuno si sognerebbe di definire Gadda un narratore postmoderno. Perché? Secondo me perché Gadda non è uno scrittore che cerca di piacere a tutti, come spesso accade ai narratori postmoderni, attentissimi alle tendenze del pubblico, sempre tesi all’interpretazione dell’orizzonte di attesa in cui le loro opere cadono. Gadda possiede un’autenticità superiore; anche se l’autenticità e l’indipendenza dai gusti del pubblico comportano spesso degli inconvenienti.
 Per esempio, Arbasino nota innanzitutto come Gadda, fino agli anni cinquanta, fosse considerato uno scrittore “minore”, un umorista magari di genio ma relegato spesso fra i narratori di seconda schiera per via della sua indole vernacolare, meritevole solo di pochi cenni nelle antologie di scrittori contemporanei, quando pure vi veniva incluso.

Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino

 Insomma, la grandezza di Gadda non veniva capita, non potendo la sua opera nota allora ridursi alle mode letterarie che si erano succedute negli anni in cui era stato attivo: essa non poteva infatti rientrare né nella poetica dannunziana, né in quella rondista, né in quella ermetica, né, tantomeno, in quella del neorealismo.
 Ci vollero “i nipotini dell’ingegnere” per capirla; espressione, questa, coniata da Arbasino medesimo in un suo breve saggio pubblicato all’inizio degli anni sessanta, e qui riportato alla fine del libro. Ci vollero, soprattutto, critici – Gianfranco Contini su tutti − in grado di apprezzare e di definire il suo particolarissimo uso della lingua, inserendolo in una “linea” nella quale sono annoverabili ascendenze nobilissime, su su fino a Dante.
 Fra i nipotini, Arbasino riconosceva, oltre a se stesso, in primo luogo Pasolini e Testori; laddove oggi, a distanza di diversi decenni, si può forse vedere proprio in Arbasino medesimo, e solo in lui, il legittimo erede letterario di Carlo Emilio Gadda.

Un'immagine giovanile di Alberto Arbasino

 Del resto, come viene notato da Arbasino stesso, Gadda era l’uomo meno adatto del mondo a fondare e a intrattenere un cenacolo letterario, a seguire degli allievi e a promuoverne la carriera. Era invece un signore d’altri tempi, estremamente riservato, impeccabilmente corretto, cerimonioso quasi fino all’affettazione. Portava sempre un completo blu, con una camicia bianca e cravatte sovente orribili, che sceglieva personalmente. Era perlopiù estraneo ai vezzi e ai vizi della società dei letterati romani (quantomai attenti ai media e al potere), che sporadicamente frequentò e di cui, con la consueta, amara ironia, sapeva cogliere anche gli aspetti ridicoli.
 Era portatore di un vero sapere scientifico, per via della sua originaria professione, esercitata a più riprese per necessità (mentre le lettere rimasero sempre la sua più autentica vocazione), ma più ancora per via della sua curiosità onnivora, che lo portava a occuparsi con lo stesso interesse di un trattato di fisica o di filosofia.
 Il suo sentire, la sua visione del mondo e la sua scrittura erano davvero tutt'uno, come accade solo per i grandi scrittori. Che non sono poi molti.

Voto: 6,5

domenica 21 febbraio 2016

In memoria di Umberto Eco


 In un blog che si occupa di libri pubblicati in Italia è indispensabile, questa settimana, dedicare un piccolo tributo alla figura di Umberto Eco - scomparso due giorni fa -, vista l'importanza che egli ha avuto fin dagli anni sessanta nel processo di sprovincializzazione delle nostre élites intellettuali, purtroppo ancora oggi non giunto totalmente a compimento.
 Eco fu un operatore culturale a tutto tonto: professore universitario, critico, saggista, teorico del linguaggio, giornalista, bibliofilo, romanziere, consulente editoriale, organizzatore di eventi, giocò ruoli diversi sempre da protagonista nel mondo delle lettere.
 Divenne famoso quando pubblicò Il nome della rosa, che è un bel romanzo, ma che alcuni ritengono sappia troppo di laboratorio perché lo si possa considerare un capolavoro; nonostante non sia uno dei miei romanzi preferiti, io penso invece che rimarrà nella storia della nostra letteratura, se non altro, come opera emblematica del periodo postmoderno (altre prove narrative dello scrittore piemontese, come ad esempio L'isola del giorno prima, risultano decisamente meno convincenti con la loro prolissità; e tuttavia all'interno della sua produzione romanzesca si trovano diversi libri che si leggono con piacere e interesse, dal Pendolo di Foucault al Cimitero di Praga).
 Assai più significativi sono comunque i saggi di Eco, sia quelli specialistici sia quelli più divulgativi. Fra tutti citerei le raccolte Diario minimo e Apocalittici e integrati, che contribuirono a innescare un dibattito sulla contaminazione tra "alto" e "basso" nella cultura contemporanea, evitando del tutto un approccio troppo snobistico alla cultura di massa, considerata invece degno oggetto di analisi.
 In gioventù Umberto Eco fu dirigente dell'Azione Cattolica, poi abbandonata dopo aver ripudiato l'opzione della fede; e tuttavia la Chiesa non gli fu mai realmente nemica, forse in virtù dei suoi studi tomistici, forse in nome di quel tanto di platonico che era presente nel suo approccio semiotico alla realtà.


 Guardando alla sua scomparsa con la stessa ironia con cui egli considerava abitualmente la morte, potremmo dire che è venuto a mancare giusto in tempo per lanciare nella maniera migliore il suo ultimo progetto editoriale: il suo romanzo postumo, infatti, inaugurerà in maggio l'attività de La Nave di Teseo, la casa editrice fondata insieme a un gruppo di intellettuali dotati di prestigio e di mezzi economici sufficienti per potersi permettere di rifiutare di essere assorbiti con Rcs Libri nella Mondadori a guida berlusconiana.
 Attendiamo con curiosità la sua uscita.

domenica 14 febbraio 2016

Pierluigi Battista, "Mio padre era fascista", Mondadori


 È un libro, questo, essenzialmente basato sulla figura dell’antitesi; e, forse, è inevitabile che sia così, dato che Pierluigi Battista decide di coniugare la massima sincerità nel raccontare tutti gli aspetti più sgradevoli del modo di essere e di pensare del padre con il resoconto della riscoperta della pietà figliale, nell’ultima fase della vita dell’ingombrante genitore e dopo la sua morte.
 Vi è antitesi tra l’“esilio spirituale” a cui si sente condannato Vittorio, reduce della Repubblica di Salò ostinato nel rivendicare la bontà della propria scelta contro ogni senso della storia, nostalgico del Duce e orgoglioso della propria fede fascista – tutte cose inaccettabili nell’Italia democratica del dopoguerra, che lo confinano idealmente tra i “reietti” –, e il suo profilo di borghese benestante perfettamente integrato dal punto di vista sociale e professionale nel nuovo contesto, che lo vede avvocato di successo nel foro romano e pater familias estremamente attento al decoro e alle buone maniere fra le mura di casa.
 Vi è antitesi tra la fedeltà del padre dell’autore a tutti i valori coltivati durante il Ventennio, e in primo luogo all’autoritarismo di matrice mussoliniana, e l’indole garantista palesata nell’esercizio della sua professione in nome di un rispetto assoluto delle norme giuridiche e della procedura prevista dal Codice penale, tanto da spingersi ad assumere, con grave rischio personale, la difesa di alcuni esponenti del terrorismo rosso durante gli Anni di piombo.
 Vi è antitesi tra la militanza missina di Vittorio, a fianco dell’amico di sempre Giorgio Almirante, e l’adesione di Pierluigi, durante gli anni del liceo, agli ideali e alle parole d’ordine della sinistra extraparlamentare; una distanza ideologica che porterà a uno scontro violento tra i due, a una sorta di guerra aperta destinata ad andare ben oltre i classici contrasti generazionali tra padre e figlio.
 Soprattutto vi è antitesi tra la figura del padre amorevole tout court e quella del fascista a tutto tondo, che Vittorio ugualmente provò a incarnare agli occhi del figlio.
 È su questa paradossale dicotomia che si basano tutti i ricordi di Pierluigi Battista, che racconta come, da bambino, il padre lo portasse “in pellegrinaggio” per le strade di Roma e anche in altre città italiane, attraverso i luoghi simbolici del fascismo, invitandolo a prendere coscienza della grandezza passata grazie alla monumentalità delle architetture (“guarda!” ripeteva continuamente Vittorio di fronte agli edifici dell’Eur, al Foro Italico, alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, la cui pianta dall’alto ricorda un fascio littorio); o addirittura tentasse di inculcargli la propria “topografia dell’anima”, che si sovrapponeva, elidendola, a quella imposta dai “vincitori” dopo il 1945 (per cui “via dei Fori Imperiali” non poteva che essere sempre “via dell’Impero”).
 Non sorprende che un padre del genere, così a disagio entro le coordinate ideologiche del proprio tempo, fosse determinato nell’insegnare al figlio una propria orrorifica controstoria, in cui i partigiani diventavano dei sadici criminali assetati di sangue, e i fascisti vittime innocenti della loro malvagità. Tanto che, nella mente di Pierluigi bambino, un personaggio come il partigiano Gemisto, responsabile dell'uccisione di alcuni fascisti nei giorni convulsi della Liberazione – così da dover riparare a Praga e lì attendere la grazia del Presidente della Repubblica Saragat, giunta solo nel 1965, per poter rientrare in Italia – si trasformò in una specie di orco.
 Una controstoria in cui ci si soffermava sulle fucilazioni dei repubblichini avvenute in prossimità del 25 aprile o anche dopo quella data, o sulle umiliazioni inflitte dai liberatori alle ausiliarie (che, sottolineava Vittorio, “non erano mai state armate!”), rapate a zero e, in alcuni casi, secondo quanto riportava il saggista Giorgio Pisanò – punto di riferimento della storiografia di destra − forse persino stuprate per il solo fatto di essere state dalla parte degli sconfitti. Racconti che proiettavano sulla nascita della nuova Italia la luce funerea di quel “cupo tramonto” icasticamente rappresentato nei celebri versi concepiti, ad uso degli antichi camerati, da Almirante in persona.
 Del resto, di immagini terribili era popolata la memoria intima di Vittorio, che dopo il 25 aprile 1945, quando egli aveva soltanto 22 anni, era stato internato nel campo di concentramento di Coltano.
 La marcia per raggiungere quel brullo appezzamento di terreno circondato dal filo spinato era avvenuta tra due ali di una folla composta per lo più da ragazze e da madri di famiglia inferocite che insultavano, spintonavano, coprivano di sputi gli ex militi. Quella marcia era stata tanto traumatica da aver popolato gli incubi di Vittorio per molti anni a venire.
 A Coltano, più della fame e degli stenti, era il disprezzo profondo che si riversava sui prigionieri la cosa peggiore che toccava soffrire e che lasciava sgomento il giovane Vittorio Battista. Lì era stato internato anche il poeta Ezra Pound, prelevato dagli americani dalla sua casa di Rapallo e rinchiuso dai propri connazionali nella cosiddetta “Gabbia del gorilla”: uno spazio di due metri per uno e mezzo, circondato da sbarre, dove il prigioniero era esposto alla vista di chiunque e a tutte le intemperie, fornito solo di un bugliolo per i propri bisogni e di una coperta sotto la quale proteggersi dal freddo della notte. Pound, trasferito in seguito negli Stati Uniti, pagherà il suo sostegno al fascismo con un internamento in un manicomio criminale durato ben 15 anni.
 Purtroppo, nel dopoguerra, il fascismo del padre di Pierluigi Battista non si limitò al formale rispetto del proprio passato e alla pretesa di un riconoscimento della dignità e della logica delle proprie scelte giovanili; esso si spinse fino ad abbracciare tutti gli aspetti più controversi o addirittura più turpi della filosofia e della fenomenologia neofascista: dal sessismo misogino all’omofobia (il disprezzo per i “pederasti” o “invertiti” veniva dichiarato a chiare lettere da Vittorio in ogni occasione, soprattutto quando si trovava in compagnia dei suoi “camerati”), dallo sciovinismo all’indulgenza verso la violenza politica (manifestata, negli anni settanta, con la prossimità nei confronti di quei gruppi di rozzi giovinastri di destra opposti a quelli in cui militava Pierluigi medesimo, fra i quali si trovavano diversi famigerati “picchiatori”), dalla condivisione di certe ridicole fantasie golpiste − coltivate da parecchi reduci di Salò insieme a truci personaggi dell’eversione nera − alla reticenza nel riconoscere la corresponsabilità di fascisti e nazisti nella teorizzazione del razzismo e nell’attuazione della “soluzione finale” per lo sterminio del popolo ebraico (peraltro tutto questo avveniva senza che Vittorio provasse particolare simpatia per i nazisti, il cui neopaganesimo era da lui rigettato, come quello di tutti i pensatori della “nuova destra” che ad esso cercavano di rifarsi).
 Come pensare all’eventualità di una composizione della guerra aperta scatenata da Pierluigi fin dagli anni dell’adolescenza contro un padre portatore di un pensiero siffatto?

Pierluigi Battista

 Eppure, anche se la rottura non venne mai realmente sanata, Battista racconta come un riavvicinamento, seppur lento e incompleto, tra padre e figlio ci fu, e fu innescato da un evento ben preciso: quel triste fatto di cronaca risalente al 16 aprile 1973, passato alla storia come il “rogo di Primavalle”. Quel giorno tre giovani “di sinistra” appartenenti alla buona borghesia romana appiccarono il fuoco nottetempo all’appartamento di un netturbino militante nelle file dell’Msi, Mario Mattei; 40 metri quadri in cui dormivano otto persone. Nell’incendio morirono carbonizzati due figli di Mattei: Virgilio, di 22 anni, e il piccolo Stefano, di soli 10 anni.
 Pochi giorni dopo il rogo, Pierluigi partecipò a una manifestazione a sostegno di Achille Lollo, uno degli assassini, reclamandone il rilascio dopo l’arresto da parte delle forze dell’ordine senza conoscere nulla della reale dinamica dei fatti; il padre Vittorio, nominato legale della famiglia Mattei, contravvenendo alla propria deontologia professionale, gli mise allora polemicamente sotto il naso le carte del processo, per permettergli di rendersi conto di quale crimine efferato si fossero macchiati i militanti di Potere Operaio per i quali egli era appena sceso in piazza.
 Da quel momento Pierluigi Battista afferma di essersi reso conto che non è vero, come si sosteneva all’epoca, che “anche il personale è politico”, e che, al contrario, gli ideali politici sono solo un pezzo, forse neppure il più importante, dell’identità di una persona.
 Sulla base di queste considerazioni, negli anni successivi, il fervore di Pierluigi nei confronti delle posizioni della sinistra estrema si andrà affievolendo non poco, e il suo giudizio nei confronti del padre si ammorbidirà gradualmente.
 Peraltro Vittorio morirà nel 1990, senza essere mai riuscito davvero a spiegarsi con Pierluigi e con i suoi fratelli, senza aver smesso di sentirsi “esule in patria”, e tuttavia avvertendo la chiara sensazione che tutto il suo mondo si andava sgretolando; tanto che, nell’ultimo anno di vita, dopo la scomparsa di Giorgio Almirante, non rinnoverà più l’iscrizione al Msi.
 Pierluigi, dal canto suo, supererà i problemi lasciati aperti dalla morte del padre, paradossalmente, soltanto in occasione dell’evento politico-mondano del Congresso di Fiuggi del 1994, quando l’Msi si scioglierà per dare luogo ad Alleanza Nazionale: di fatto, il funerale di tutto l’universo politico nel quale Vittorio aveva vissuto.
 Il libro è decisamente bello, per la franchezza e la chiarezza con la quale racconta una vicenda umana complessa ed estremamente interessante, che coinvolge contemporaneamente le dinamiche dei pensieri e quelle degli affetti.
 Il suo pregio maggiore è probabilmente quello di non pretendere di ridursi a formule con le quali esprimere giudizi che si ritengano universalmente validi.
 A margine di questa lettura, possiamo anche osservare come il testo pone, forse senza avvedersene, un problema delicato, che molti ritengono sia la vera questione irrisolta dell’Italia moderna e contemporanea: quella per cui le contrapposizioni politiche si configurano tutte come divisioni magari anche feroci ma filosoficamente superficiali all’interno della medesima classe dirigente che, trasformando il proprio profilo ideologico generazione dopo generazione, si perpetua nella gestione del potere.
 Un fenomeno che, a mio modo di vedere, si può combattere solo accostandosi alla politica con maggiore serietà, incentivando la partecipazione, e magari sfoggiando, ove necessario, un po' di sano giacobinismo. Ma queste considerazioni meriterebbero un discorso troppo lungo e articolato perché lo si possa affrontare in questa sede.

Voto: 7

domenica 7 febbraio 2016

Dario Fo, "Razza di zingaro", Chiarelettere


 Dario Fo fa sua e racconta la storia di Johann Trollmann, pugile tedesco di origine sinti cui recentemente è stato restituito il titolo di campione tedesco dei mediomassimi, conquistato sul ring il 9 giugno 1933 contro l’“ariano” Adolf Witt, ma vergognosamente revocato appena due settimane dopo dalla federazione pugilistica per intervento di Georg Radamm, nazista, allora presidente dell’Associazione dei pugili tedeschi.
 Fo segue la parabola di Johann fin da quando, ancora bambino, ad Hannover comincia a frequentare la locale palestra di pugilato insieme all’amico e compagno di scuola Franz Uhlman. Sono gli anni della Grande guerra, e tutta la Germania si mobilita per supportare lo sforzo bellico; anche gli “zingari”, che in altre circostanze lo Stato fatica a riconoscere come veri sudditi del Kaiser di nazionalità tedesca, sono chiamati a fare la loro parte, e tutti gli uomini giovani e abili vengono arruolati e spediti al fronte.
 Fra i richiamati vi sono diversi cugini di Johann che, con la famiglia, è così costretto a mettersi a lavorare nell’allevamento di cavalli dello zio, improvvisamente a corto di manodopera.
 Del resto il ragazzo condivide volentieri usi, costumi, abitudini della sua gente che conta, oltre a coloro che si dedicano all’attività tradizionale dell’allevamento, anche numerosi musicisti di strada, e gli artisti del circo che si esibiscono nella magica atmosfera dello chapiteau, il caratteristico tendone.
 Sembra anzi che Johann, quando sale sul ring, mostri l’intero portato culturale del popolo che gli ha dato i natali: la sua boxe, fatta di finte, schivate e affondi improvvisi assomiglia a una danza sinti.
 Crescendo il giovane Trollmann si rivela come il pugile di gran lunga più dotato della sua generazione; capita spesso che, in allenamento, riesca a battere atleti assai più grossi di lui, irridendoli con la sua velocità e l’imprevedibilità delle sue mosse.
 Ben presto, a guerra finita, con il procedere degli anni venti, Johann diventa l’idolo di tutte le ragazzine di Hannover, che accorrono a bordo ring per assistere alle sue esibizioni e per acclamare quello che – per la bellezza statuaria della figura, la pelle ambrata, il fascino esotico del volto, l’armonia dei movimenti – appare ai loro occhi come una sorta di semidio. I sinti, dal canto loro, vista la sua prestanza, l’hanno ribattezzato Rukeli, l’Albero.

Joahann Trollmann all'apice del successo

 Molti − fra cui il suo vecchio allenatore e maestro, e Margarete, una giovane psicologa che ha avuto occasione di assistere a uno dei suoi incontri − cominciano a metterlo in guardia dal pericolo che la precoce celebrità e le distrazioni che ne derivano possano fargli perdere la concentrazione e la determinazione necessarie a diventare un campione vero.
 Ma Johann Trollmann è un ragazzo con la testa sulle spalle; sebbene ami le spacconate e sia estroverso ed esibizionista per natura, possiede il senso del limite. Mostra infatti in varie circostanze un’intelligenza viva, e nel frattempo ha anche maturato precise opinioni politiche: fin dal 1919 apprezza la figura di Rosa Luxemburg e, istintivamente, si sente vicino agli spartachisti.
 Purtroppo la Germania di Weimar, con tutte le sue contraddizioni sociali e le sue difficoltà economiche, non è un luogo dove un giovane sinti possa coltivare con serenità la propria vocazione, le proprie opinioni, la propria indipendenza; ne è la dimostrazione quello che accade nel 1928, quando Johann Trollmann viene estromesso dalla selezione destinata a partecipare alle Olimpiadi di Stoccolma a favore di pugili molto meno dotati di lui, perché i funzionari della federazione non lo ritengono “abbastanza tedesco”.
 E negli anni successivi la situazione non può che peggiorare: nonostante Trollmann, divenuto ormai un uomo fatto (si è anche unito in matrimonio a una bella ragazza di origine cosacca, e ha conosciuto la gioia della paternità), si affermi come uno dei pugili più quotati dell’intera Germania, con il mutato clima politico la sua situazione, come quella di tutti i sinti, si fa sempre più precaria.
 Poi, con la presa del potere da parte di Hitler nel gennaio del 1933, ogni cosa precipita.
 Johann, che già era stato messo sull’avviso dal modo in cui viene trattato il 31 marzo del 1933 il pugile ebreo Erich Seelig, cui viene tolta la licenza la sera stessa in cui avrebbe dovuto combattere per il titolo nazionale dei pesi medi a Berlino, è costretto a prenderne atto personalmente poco più di due mesi dopo, quando tocca a lui giocarsi nella Capitale il titolo di campione tedesco dei mediomassimi.
 Quella sera, la superiorità di Trollmann è netta, e tuttavia l’arbitro, su imbeccata del gerarca nazista Georg Radamm, seduto a bordo ring, ignorando i cartellini dei giudici, proclama il no contest e rifiuta di assegnare la corona di campione allo zingaro. A quel punto, la reazione del pubblico è tanto violenta che la commissione di controllo della federazione riunita in tutta fretta negli spogliatoi si convince che è necessario obbligare l’arbitro a tornare sui propri passi e proclamare Trollmann campione.
 La gioia di Joahann, però, è di breve durata: pochi giorni dopo la federazione pugilistica tedesca annulla il verdetto con un comunicato stampa in cui la decisione presa viene giustificata con le “prestazioni insufficienti dei due pugili”; la teoria, piuttosto ridicola, è che i due contendenti abbiano messo in mostra troppo poco agonismo perché si possa parlare di un incontro di boxe degno di questo nome.
 Per di più, a Trollmann viene ingiunto, se vuole mantenere la propria licenza di professionista, di rispettare le “regole del pugilato tedesco”; vale a dire, smettere di danzare e di schivare, piazzarsi al centro del ring, e prendere e dare botte fino a quando uno dei due contendenti crolla al tappeto.
 L’assurdità di un simile ammonimento spinge Johann Trollmann a reagire con irridente sarcasmo: quando risale sul ring contro Gustav Eder di Dortmund, il 17 luglio 1933, lo fa presentandosi con i capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di borotalco; travestito, insomma, da “vero tedesco”.
 Ma non è più tempo di commedie: le minacce ricevute costringono Trollmann a sottomettersi, perdendo quello che sarà il suo ultimo incontro da professionista. L’anno dopo, infatti, la licenza gli verrà ritirata per aver partecipato a un’esibizione in un luna park.

Una caratteristica immagine di Dario Fo

 Seguiranno anni di mestizia, di miseria e di persecuzioni: Johann Trollmann per proteggere sua moglie sarà costretto a divorziare da lei, perché non le venga rovesciato addosso il disprezzo destinato alle donne tedesche sposate con un ebreo o uno zingaro, “nemici del popolo”; poi verrà addirittura obbligato a sottoporsi alle procedure di sterilizzazione disposte dal regime nazista per tutti i maschi adulti della sua “razza”.
 Questo, peraltro, non impedirà alla Germania di richiamarlo alle armi, come tutti i cittadini tedeschi abili – come venticinque anni prima era capitato ai suoi cugini – allo scoppio della guerra nel 1939. Tale “privilegio” non durerà molto; presto, come tutti gli zingari, Johann Trollmann verrà destinato ai lavori forzati in un campo di concentramento. 
 Approdato infine ad Auschwitz, vi troverà la morte per aver osato battere un kapò, in un incontro di pugilato davanti agli altri detenuti organizzato dal carceriere, convinto di poter avere facilmente la meglio sull’ex campione debilitato dalla fame e dagli stenti. In seguito a questo sgarro, Johann Trollmann, pugile sinti, verrà ucciso a bastonate dal suo aguzzino in una sera di settembre del 1943.
La scelta del premio Nobel italiano di riportare alla luce questa storia di sport, politica e vita è di per sé molto bella ed eticamente importante. Il risultato finale, però, non si può definire esaltante dal punto di vista letterario.
 Il libro, infatti, palesa una rappresentazione della realtà che, anche quando non è puramente didascalica, finisce per apparire tanto stilizzata da tendere al semplicismo caricaturale.
 La prosa su cui si basa il racconto, a sua volta, rifugge da quelle articolazioni capaci di modellare la materia narrata sulle forme dei sentimenti, degli ideali, del “clima morale” dell’epoca che si intende restituire; talvolta sembra non assecondare in maniera adeguata le pieghe della vicenda, altre volte è tanto scarna e poco elaborata da poter essere quasi riferita a una bozza preliminare, a una semplice ipotesi di lavoro.
 Il problema è che, se una impostazione del genere può non inficiare la bontà di un testo teatrale, che trova il suo naturale completamento nella messa in scena con il contributo recitativo degli attori, in un romanzo appare una scelta esteticamente discutibile, che rischia di sconfinare nella pura e semplice sciatteria.
 Da uno scrittore della statura di Dario Fo è forse lecito attendersi qualcosa di più.

Voto: 5,5