martedì 23 agosto 2016

Rossana Campo, "Dove troverete un altro padre come il mio", Ponte alle Grazie


 La scomparsa di un genitore in età adulta obbliga quasi sempre a fare i conti con il proprio passato, e in qualche modo a ritarare la propria percezione di sé; è come se venisse meno uno dei principali artefici e testimoni della formazione della nostra personalità, e anche uno dei depositari della sua sostanza, e questo ci costringesse a farci carico con maggiore consapevolezza di quello che siamo in effetti.
 E' ciò che accade a Rossana Campo, e da qui nasce il libro.
 Tale processo, tuttavia, si innesta nel suo caso su qualcosa di più: sulla rivendicazione orgogliosa di una "diversità" che la scrittrice sente sua, esattamente come era propria del padre, cui sovente costò la riprovazione altrui e qualche volta perfino l'emarginazione da parte dei cosiddetti "normali". Per questo lei lo capiva meglio di chiunque altro: loro due erano membri della stessa tribù di "Apache".
 Renato Campo era un'anima libera e una personalità anarchica, insofferente di ogni disciplina. La totale inaffidabilità in famiglia e sul lavoro era l'altra faccia della sua irriducibile allegria, della sua incredibile, zingaresca voglia di vita.
 Renato era un carabiniere: si era trasferito in Liguria dall'Italia meridionale, nella sede che gli era stata assegnata dal suo Comando, insieme alla moglie Concetta, sorella di un commilitone molisano. Quella del carabiniere era la professione meno adatta a lui che si potesse immaginare; eppure aveva ricevuto persino una decorazione per essersi distinto durante il servizio, salvando una donna nel corso di un'alluvione a Savona e aiutandola a partorire.
 Renato era uno spaccone, un contaballe, e amava bere; un whisky dietro l'altro, in certi squallidi baretti di provincia, bettole puzzolenti "di fumo, di sudore e di piscio", popolate di vecchi, dove si faceva accompagnare dalla figlia bambina di nascosto dalla moglie. Per questo, e per la sua inaffidabilità, a un certo punto, verso la fine degli anni sessanta, fu buttato fuori dall'Arma dei Carabinieri.
 Fino a quel momento aveva bevuto con spensieratezza, per festeggiare, per cercare lo swing, come soleva dire; da quel momento in poi bevve per dimenticare i suoi guai e le ingiustizie di cui si sentiva vittima, e divenne cupo e scontroso, anche in famiglia.
 In realtà anche prima avrebbe avuto qualcosa da dimenticare: nato nel 1932, cresciuto in una famiglia povera con dieci fratelli, aveva dovuto imparare presto a cavarsela da solo, negli anni terribili della guerra, fra la fame, i tedeschi, le bombe. Quando aveva 12 anni, il suo migliore amico era saltato in aria su una granata tedesca, ed era stato letteralmente ridotto a brandelli.
 Negli anni peggiori, dopo l'espulsione dall'Arma, questi ricordi dolorosi, insieme all'alcolismo e all'emarginazione dovuta al fatto di essere considerato uno spostato, un fallito, un "terrone", contribuirono ad alimentare in lui una psicosi a tratti devastante.
 Eppure, a dispetto dei pronostici nefasti dei medici che lo avevano in cura, dei malanni, dei numerosi incidenti avuti alla guida da ubriaco, Renato era arrivato a 82 anni senza mai smettere di bere, senza mai rinnegare se stesso e il proprio spensierato approccio alla vita.
 Per questo, agli occhi della figlia che si sente così simile a lui, egli appare come una sorta di eroe mitico, un idolo rock dalla vita spericolata.

Rossana Campo

 Il libro è piuttosto bello, a tratti perfino commovente, e sorretto da una struttura stilistica in cui la narrazione si integra perfettamente. Per celebrare la "diversità" del padre, Rossana Campo elabora infatti uno stile rustico, ibrido, artificiosamente vernacolare, in cui accenti di spiccata oralità, mimetici del parlato (tanto nella sintassi quanto nel lessico), si mescolano a riferimenti colti, che rimandano a un mondo di letture lontano ma in fondo non del tutto estraneo a quello raccontato. Una lingua che ricalca un idioletto famigliare di per sé rappresentativo dell'ambiente, degli stati d'animo, delle personalità, dei modi di essere che si cerca di rievocare. Giova riportare un esempio per darne un'idea:
 "A me invece mi piace com'è fatto Renato, mi piace che è spavaldo, sbruffone, che si spara la posa per cose insensate e cerca sempre di tirar fuori cazzate a tutta birra. A me piace così, anche perché quando hanno cercato di mandarmi all'asilo delle suore e io non ci sono voluta andare e mi sono buttata per terra urlando e scalciando per protesta, lui ha capito che non mi dovevano forzare, che tanto pure se mi sparavano io dalle cape 'e pezza non ci sarei andata. Infatti mi ha detto: Tu Rossanì, sei come me, non c'è verso di farti accettare la disciplina, non ci stanno cazzi! Concetta, niente asilo per la piccerella, questa è una testa matta come me! Poi, rivolto a me spiega: E quanto alle suore o a qualunque altra persona che si permette di romperti la uallera, sai che ci devi dire? Tu ci dici: ha detto mio padre, jatevenneaffanculo!".
 Il risultato finale è efficace, e Rossana Campo si dimostra un'eccellente interprete di questo modo di fare letteratura.

Voto: 7-

P.S. A margine della critica del libro in questione, è forse il caso di rilevare come impostazioni stilistiche simili a quella qui proposta sono assai apprezzate, in questo periodo, dagli editor delle case editrici italiane. Le contaminazioni linguistiche declinate in chiave autobiografica piacciono, soprattutto quando rispecchiano - o pretendono di rispecchiare - l'esotismo della provincia italiana in cui il pubblico crede, anche con una punta di nostalgia, di riconoscersi. La moda è tanto diffusa che sembra quasi che non si possa fare narrativa in altro modo oggi in Italia.
Ma nella nostra tradizione letteraria di breve e medio termine, modelli di scrittura diversi non mancano.   

giovedì 18 agosto 2016

Autori Vari, "Giochi di ruolo al Maracanà", edizioni e/o


 Raccolta che definirei "d'occasione" più che "a tema". Si tratta infatti di nove racconti polizieschi (con diverse gradazioni di genere, che vanno dal giallo vero e proprio al noir) che incrociano le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016.
 Fra le diverse prove - di livello letterario molto diseguale -, tutte di autori che pubblicano abitualmente con e/o, alcune prendono le Olimpiadi semplicemente a pretesto per sviluppare una trama che potrebbe essere ugualmente calata in qualsiasi altro contesto; altre, invece, interpretano in maniera più strutturalmente pertinente il tema sportivo e l'ambientazione brasiliana.
 Lo scambio di Massimo Carlotto vede l'Alligatore (storico personaggio dell'autore padovano) doversi rassegnare alla fine ineluttabile di Izaias Barbosa, un giornalista brasiliano espatriato in Italia, e condannato a morte da un'organizzazione criminale perché entrato in possesso di un video che riprende lo stupro di una ragazzina da parte di un politico e di un imprenditore legati ai criminali e coinvolti nel lucroso affare dello sgombero delle favelas per realizzare i nuovi piani di sviluppo immobiliare previsti per le Olimpiadi.
 Lo sgangherato L'angelo azzurro di Paolo Foschi racconta l'indagine di Igor Attila (incredibile figura di poliziotto specializzato in "crimini nello sport", ex grande campione di pugilato e omosessuale dichiarato) sul duplice omicidio di due atleti italiani possibili medagliati a Rio, uccisi dai servizi segreti russi per essere stati involontari testimoni, durante una trasferta a Mosca, delle pratiche dopanti a cui, in vista delle Olimpiadi, venivano sottoposti gli sportivi di diverse discipline provenienti da quel Paese.
 Valetudo di Carlo Mazza parla del capitano dei Carabinieri Antonio Bosdaves che si reca in Brasile per aiutare il cugino Leandro, figlio di parenti emigrati a Rio molti anni prima. L'unico figlio di Leandro, Caetano, pugile olimpionico, è stato ucciso in un incontro di Valetudo, una forma di combattimento senza esclusione di colpi che si svolge fra due avversari chiusi in una gabbia. Caetano si era prestato al combattimento per guadagnare i soldi necessari per riscattare dai suoi "protettori" la giovane prostituta di cui si era innamorato. Leandro sfrutterà l'abilità investigativa di Bosdaves per consumare la sua vendetta privata nei confronti dei responsabili della morte del figlio.
 Ipnosi olimpica di Luca Poldemengo mette in scena una sorta di spy story in cui i fratelli Tripaldi -rifugiatisi a Valona sotto falsa identità - vengono costretti da una misteriosa organizzazione segreta a recarsi a Rio e a utilizzare la loro famosa tecnica dell'ipnosi investigativa per fare luce sulla misteriosa sparizione di un pluricampione olimpico di pugilato. Scopriranno una esecrabile storia di doping con al centro una grande azienda farmaceutica.
 Meninos de rua. Bambini all'inferno di Piergiorgio Pulixi - uno dei racconti più convincenti - narra di Mazzeo, che dal servizio segreto del quale è suo malgrado a disposizione come "liquidatore" (in pratica un vero e proprio killer) riceve l'ordine di uccidere una serie di poliziotti appartenenti agli "squadroni della morte", che fanno strage dei bambini di strada nelle baraccopoli brasiliane. I poliziotti sono infatti legati a un'organizzazione criminale che intende approfittare delle Olimpiadi per stringere nuovi accordi con la 'ndrangheta, che il servizio segreto è chiamato specificamente a contrastare.

Sandro Fiori, storico direttore della casa editrice e/o

 Una ragione migliore di Roberto Riccardi è un racconto, tirato via un po' frettolosamente, sul rapimento della sorella di Manuel Ferrara, olimpionico italiano di tiro a segno di origine brasiliana. Sembra un semplice sequestro a scopo di estorsione (compiuto dai Morcegos Negros), ma c'è dietro qualcosa di più.
 Pur di vincere di Patrizia Rinaldi rappresenta un caso di morbosa gelosia di un'atleta paralimpica nei confronti dell'ex fidanzato, che al mondo dello sport per diversamente abili è pure legato (conduce in gara un'atleta cieca, diventata in breve la sua nuova fiamma). Si tratta di un racconto piuttosto pretenzioso, che strizza continuamente l'occhio ad allegorie abbastanza scontate e viene sviluppato attraverso l'impiego di tecniche narrative complesse, a tutto detrimento della leggibilità.
 Ragnatela mortale di Matteo Strukul ha come protagonista Mila Zago, una sorta di Nikita che viene incaricata, in una missione sotto copertura (vestirà i panni di una "vedova nera" della camorra), di uccidere un boss brasiliano che alleva cavalli, uno dei quali è destinato a partecipare al concorso ippico olimpico.
 Infine, Pulcinella e la pecora nera di Massimo Torre parla di un campione di canottaggio napoletano, a cui una capo clan della Camorra (donna tratteggiata in modo volutamente caricaturale) fa sterminare la famiglia, e poi rapire la sorellina superstite e la donna amata per obbligarlo - dopo aver vinto le Olimpiadi - a riportare in Italia una valigia dal misterioso contenuto approfittando dell'allentamento dei controlli di dogana sui medagliati. In questo caso l'impianto narrativo risulta bizzarro ma comunque appassionante.
 Il carattere comune a tutti i pezzi inseriti nella raccolta è l'attenzione, più che al "lato oscuro delle Olimpiadi", al lato oscuro del Paese che le ospita in questo 2016: un Brasile allo sbando, roso da una corruzione onnipervasiva, incapace di sfruttare il grande evento per risolvere, lenire o comunque cominciare ad affrontare i suoi atavici problemi, governato da una borghesia inetta e vorace, popolato da masse di persone senza speranza, sprofondate nella miseria più nera.
 Quasi nessuna delle questioni sfiorate dai racconti viene però approfondita in maniera tale da produrre una riflessione di qualche interesse. Quello che è uno dei pochissimi libri usciti sulle Olimpiadi di Rio resta così una lettura di puro diporto, a tratti piacevole, a tratti francamente non imperdibile.

Voto: 6--

domenica 14 agosto 2016

Federico Buffa e Paolo Frusca, "L'ultima estate di Berlino", Rizzoli


 L’ultima estate di Berlino nasce come testo teatrale col titolo Le Olimpiadi del 1936, prima di diventare un romanzo. Si tratta della rivisitazione letteraria della storia delle ultime settimane di vita di Wolfgang Fürstner, Capitano della Wehrmacht, veterano pluridecorato della Prima guerra mondiale, responsabile della perfetta macchina organizzativa delle Olimpiadi di Berlino del 1936.
 Ma, nella distorta visione del mondo dei nazisti, le capacità personali, l’efficienza e le benemerenze acquisite servendo la patria nulla contavano al cospetto di una presunta “purezza” razziale; così, quando Der Judenkenner – un foglio di propaganda razzista tenuto in grande considerazione dai gerarchi del Partito – rivelò che Fürstner aveva un nonno ebreo, il Capitano venne rimosso dall’incarico proprio alla vigilia dell’evento tanto atteso, pur restando all’interno del comitato organizzativo in posizione subordinata.
 Le Olimpiadi furono per la Germania un grande successo da ogni punto di vista, anche per merito di chi tanto si era speso affinché tutto funzionasse a meraviglia; ma Fürstner, forse sconcertato dal vuoto che improvvisamente si era fatto intorno a lui, pochi giorni dopo la fine dei Giochi si suicidò con un colpo di rivoltella.
 Alfred Rosenberg, uno degli ideologi del nazismo, così commentò la notizia sul proprio diario, sprofondando involontariamente nel ridicolo: “Apprendo oggi 21 agosto del suicidio del capitano Fürstner, responsabile dell’organizzazione del Villaggio olimpico. Si era saputo da qualche tempo che aveva sangue ebraico. Ha ottemperato ai suoi doveri fino all’ultimo giorno delle Olimpiadi, e poi è caduto vittima di un esaurimento nervoso. Uno dei molti, tristi casi limite. Rispetto assoluto per questo gesto di dignità, che gli proviene certamente dal suo lato germanico!”

Wolfgang Furstner

 Il romanzo è narrato da un duplice punto di vista: da una parte ci sono i sentimenti e i pensieri sempre più cupi di Wolfgang Fürstner, che ragionando in prospettiva futura vede chiudersi rapidamente l’orizzonte per se stesso e per la Germania intera; una prospettiva tanto più dolorosa in quanto contemplata sullo sfondo della bellezza dei Giochi Olimpici, della grandezza di molti dei personaggi che allo spettacolo delle Olimpiadi del 1936 diedero vita, e dello sconfinato amore per lo sport che nutre il Capitano.
 D’altra parte ci sono le impressioni di Dale Warren, giornalista americano al seguito della delegazione di atleti spediti in Germania dal suo Paese – uno dei pochi personaggi del libro che non siano storicamente documentati −, insieme ammirato dall’efficienza tedesca, stupito dall’entusiasmo dei cittadini del Paese organizzatore, e infastidito dall’eccesso di militarismo e di soldatesca disciplina che si percepisce a Berlino.
 Le parabole di Fürstner e Warren, in quella memorabile estate, incrociano tanti uomini e tante donne le cui vicende meritano di essere raccontate. C’è, naturalmente, Jesse Owens (a proposito del quale non si fa cenno al rifiuto del Führer di stringergli la mano, un vero e proprio falso storico), che era trattato molto peggio negli Stati Uniti della segregazione razziale di quanto lo fu sui campi di atletica dell’Olimpiade tedesca.
 C’è Carl Ludwig “Lutz” Long, che a Berlino vinse la medaglia di bronzo nel salto in lungo e di Owens divenne amico, dopo avergli consigliato durante la gara come correggere il suo stacco per rendere il proprio salto più efficace.
 C’è Leni Riefenstahl, la regista di Hitler, donna dall’innato carisma, dal gelido magnetismo.
 C’è Avery Brundage, capo della spedizione americana nel 1936 e poi, nonostante il suo fervente filonazismo, a lungo presidente del Comitato olimpico internazionale nel corso del dopoguerra.
 C’è Eleanor Holm (in alcuni passi chiamata erroneamente Horn), campionessa olimpica nel nuoto per gli Stati Uniti durante le Olimpiadi di Los Angeles del 1932, espulsa dalla squadra americana da Brundage durante la traversata dell’Atlantico per il suo comportamento disinvoltamente anticonformista, divenuta corrispondente per diverse testate giornalistiche durante le Olimpiadi di Berlino, e in seguito stellina del cinema hollywoodiano e poi ricca ereditiera.

Federico Buffa

 C’è Werner Seelenbinder, possente campione tedesco di lotta greco-romana, fiero oppositore del regime in nome della propria ideologia comunista, che sarà arrestato e decapitato in un carcere nazista nel corso della Seconda guerra mondiale.
 C’è Glenn Edgard Morris, fantastico campione di decathlon che dopo le Olimpiadi recitò a Hollywood nel ruolo di Tarzan, a fianco di Eleanor Holm nei panni di Jane.
 Vi viene nominato persino James Naismith, l'inventore del basket, che a Berlino fu chiamato a consegnare le medaglie ai membri della squadra vincitrice del torneo.
 Ci sono diversi esponenti delle forze armate tedesche, dall’infame Ministro della guerra Werner Fritz von Blomberg al barone Werner Albrecht von Gilsa, tipico esponente dell’aristocrazia militare degli Juncker, che alla fine della Seconda guerra mondiale morì suicida dopo aver consegnato la piazza di Dresda, di cui era comandante, nelle mani dei Sovietici.
 La storia più commovente è però quella del coreano Sohn Kee-Chung, vincitore della Maratona di Berlino, dove fu costretto a gareggiare sotto la bandiera degli invasori giapponesi, dai quali − durante la cerimonia di premiazione − fece di tutto per manifestare la propria presa di distanza con passività tutta orientale. In patria, i giornalisti che sottolinearono le sue origine coreane furono duramente perseguitati. Nel 1988 fu l’ultimo tedoforo durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Seul, 52 anni dopo il trionfo berlinese. 
 Il libro è sicuramente godibile; se un difetto va sottolineato è quello dell'eccessiva enfasi di determinati passaggi, che si traduce nella rappresentazione quasi caricaturale di talune scene e di taluni personaggi. Un difetto che gli deriva, con ogni probabilità, dalla superfetazione a seguito di un testo teatrale.

Voto: 6+

giovedì 11 agosto 2016

Paolo Rumiz, "Appia", Feltrinelli


 I libri di Paolo Rumiz riescono quasi sempre a conquistarmi immediatamente con la loro poesia.
 In questo caso, invece, mentre leggevo faticavo ad affezionarmi al testo perché avevo la sensazione che il racconto del viaggio di riscoperta della Regina viarum dei Romani - la prima grande arteria stradale del mondo antico - da parte del triestino e dei suoi compagni, pur ricco di suggestioni, fosse gravato dalla zavorra di troppi luoghi comuni; luoghi comuni sull'incapacità degli italiani di salvaguardare il proprio patrimonio culturale, sulla difficoltà di conciliare la modernità con il rispetto dell'antico, sulle stridenti contraddizioni che affliggono il nostro Meridione, sulla persistenza della stratificazioni storiche nelle differenze antropologiche riscontrabili fra le popolazioni della penisola italica.
 Poi ho capito che Appia non è solo un libro; è, prima di tutto, un manifesto, e come succede per i manifesti, il messaggio di cui si fa portatore trae forza dall'utilizzo dei luoghi comuni.
 Appia è un manifesto che dichiara la bellezza e la naturalezza del camminare, l'attualità della storia, e la necessità - per i singoli individui e per le comunità a cui essi danno vita - di mantenere intatto il legame con le proprie radici.
 Appia è una proposta: un invito a tutti i lettori a farsi carico del compito di rendere nuovamente percorribile dall'inizio alla fine la strada forse più importante della classicità, senza aspettare un intervento delle istituzioni.

Paolo Rumiz

 Voluta da Appio Claudio Cieco, realizzata tra la fine del IV e il III secolo a.C., in piena età repubblicana, capace di collegare Roma a Brindisi con un percorso perfettamente lineare, quasi rettilineo, l'Appia rappresentò di fatto per i Romani la porta verso l'Oriente.
 Fu innanzitutto strumento di dominio: consentì alle legioni di spostarsi velocemente verso il sud della Penisola evitando tortuosi sentieri, esposti agli agguati, entro i territori di popoli italici assoggettati ma mai del tutto domi.
 Condusse i soldati romani agli imbarchi verso est, aprendo loro la strada alla conquista nel mondo.
 Nello stesso tempo, però, aprì all'Oriente - alle merci e alle idee che da lì provenivano - la strada verso Roma: basti pensare che quella via percorsero Pietro e Paolo mentre si apprestavano a portare il Cristianesimo nel cuore dell'Impero.
 Lungo l'Appia vennero crocifissi Spartaco e gli schiavi ribelli che avevano osato sfidare l'autorità di Roma; lungo l'Appia venne trasportato verso la Capitale il cadavere di Ottaviano Augusto, morto a Nola nel 14; lungo l'Appia si facevano seppellire i ricchi romani, che speravano che il loro ricordo rimanesse vivo presso i viaggiatori.
 Mettendosi in cammino, Rumiz ha ben presente tutto questo, e ha presente soprattutto la lezione di Antonio Cederna, colui che maggiormente si batté per difendere il tratto della via più vicino a Roma dalla rapacità dei privati e dall'incuria dello Stato; non sa però che cosa lo attende lungo il percorso, né se sia rimasta davvero qualche testimonianza della strada in lunghi tratti del suo originario tracciato attraverso le Regioni del Sud.

Rumiz in cammino attraverso un campo di grano

 In questo senso, l'esperienza del viaggio raccontata nel libro è il resoconto di un'esplorazione e di un processo di apprendimento: Paolo Rumiz comprende a poco a poco come l'Appia possa trasformarsi in un campo di grano, nel giardino di una villa con piscina difesa da feroci molossi, in una fabbrica (a Taranto addirittura l'Ilva), in un'autorimessa o persino in una discarica; e tuttavia, per l'occhio attento, la razionalità del suo sviluppo, la sua linea resta qualcosa di chiaramente riconoscibile, di assolutamente reale, e di concreto, anche dove nulla è rimasto dell'antico basolato.
 Prende così consistenza l'idea di fare del percorso dell'Appia antica - di tutto il percorso, gli oltre 600 km che separano Roma da Brindisi - qualcosa di simile al Camino de Santiago o alla via Francigena: un nuovo Cammino italiano, privo però della zuccherosa astrattezza della spiritualità trasfigurata dal marketing in una moda; dotato invece di una fisionomia viva e vera, sia nei suoi aspetti laici sia nei suoi addentellati con la fede religiosa, e costruito su un numero di testimonianze archeologiche di cui i suoi omologhi sono del tutto privi.

Il simbolo per la "Strada ritrovata" studiato da Pietro Porro. Così lo descrive Paolo Rumiz: "L'imperiosa doppia A che segna la via numero uno del mondo antico.
Due linee prospetticamente convergenti come una strada
che punta all'orizzonte.
[...] cinque lettere in un fascio, come spighe".

 La cronaca del viaggio da cui nasce il libro, naturalmente, è anche molto altro: è la fatica del camminare, il cameratismo fra i compagni di avventura (quelli che accompagnano Rumiz dall'inizio alla fine e quelli occasionali, che fanno solo un tratto del percorso, come Giuseppe Cederna, Vinicio Capossela e i molti archeologi e archeologhe che dischiudono al viandante i segreti dell'Appia antica nei suoi diversi segmenti), la gioia della scoperta dei luoghi, la continua suggestione della mitologia, gli incontri inattesi, la possibilità di riconoscere il bello e il brutto dell'Italia vecchia e nuova, le giustificate critiche alle istituzioni e al popolo italiano, i pensieri che prendono forma mentre si va.
 Quello che più resta al lettore, però, è senz'altro il fascino di un sogno che si trasforma in progetto, e che c'è da augurarsi possa avere davvero seguito.

Voto: 6,5 

lunedì 1 agosto 2016

Lodovico Terzi, "Due anni senza gloria", Einaudi


 È un piccolo gioiello questo libro di Lodovico Terzi (illustre traduttore di classici inglesi, einaudiano, per lunghi anni iscritto al PCI), che ripercorre in chiave autobiografica i due anni tra la caduta del fascismo e la Liberazione. In quei due anni il giovane Lodovico (classe 1925), appartenente a una famiglia altoborghese di origine parmense che non poteva che essere filofascista, nell’infuriare della guerra, perse entrambi i genitori, un fratello e l’amatissimo zio - un grosso burocrate diventato segretario particolare di Benito Mussolini e per questo ucciso dai partigiani -, e fece scelte (l’adesione all’esercito della RSI) che oggi appaiono sbagliate, ma che furono perfettamente coerenti con la sua formazione, il suo senso dell’onestà e l’ambiente sociale in cui si muoveva.
 Di due cose, infatti, bisogna tenere conto per capire le decisioni prese nel 1943 dal diciottenne Lodovico: in primo luogo egli non conosceva partigiani e neppure persone che si professassero apertamente antifasciste; in secondo luogo, l’adesione all’esercito della Repubblica Sociale fu determinata non certo dalla devozione nei confronti del fascismo e neppure da un astratto senso dell’onore militare o dell’onore di patria, bensì dalla fedeltà a se stesso e alla propria visione del mondo. Lodovico, ben consapevole che in quella confusa stagione la guerra tout court e la guerra civile stavano per sovrapporsi e intrecciarsi, cercò pragmaticamente di trovarsi in una posizione che gli permettesse di non intervenire in armi contro propri connazionali e, insieme, di assumere una qualche forma di razionale rispetto nei confronti della storia propria e della propria famiglia: una strada intrapresa non senza indecisioni, pentimenti, momenti di ripensamento, e lungo la quale il caso contribuì non poco a farlo proseguire fino in fondo.

Lodovico Terzi

 Il quadro che da questo testo viene fuori di quel periodo è vario, pieno di sfumature e del tutto privo di quei banali schematismi da cui sono parimenti afflitte certa storiografia "ufficiale" e tutta la storiografia "revisionista"; perché le cose umane sono sempre più complesse di come le si pensa.
 Mi piace qui riportare una citazione dal libro che mi pare particolarmente significativa:
 “L’onore della patria è un’espressione retorica, un simbolo, una bandiera, e quindi non può essere oggetto di una scelta politica. I giovani marciano dietro le bandiere , per realizzare sul campo di battaglia le scelte politiche fatte da altri. D’altra parte l’onore della patria, nell’uso che si fa di questa espressione un po’ enfatica, coincide in sostanza con l’onore militare, cioè con il coraggio e la disciplina richiesti per svolgere quella che in realtà è una funzione subalterna rispetto alle scelte politiche. Quando la situazione è tale che anche i semplici soldati o i giovani sono chiamati a scegliere, come nel caso di una guerra civile, il criterio più ingannevole a cui possono appigliarsi è appunto quello dell’onore militare, che implica una continuità perduta e una scelta già fatta.”

Voto: 8,5