venerdì 30 dicembre 2016

Roberto Burioni, "Il vaccino non è un'opinione", Mondadori


(recensione di Laura Uva, neurobiologa)

 Il dottor Burioni, medico e professore ordinario di microbiologia e virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, tratta in questo testo - pubblicato nel settembre del 2016 - un tema di scottante attualità, non perché i vaccini siano di recente invenzione (i primi tentativi di immunizzazione preventiva risalgono addirittura alla prima metà del Settecento, e il primo vaccino contro il vaiolo fu messo a punto nella seconda metà del XVIII secolo), ma perché la loro sicurezza ed efficacia è stata ultimamente messa in discussione dai cosiddetti antivaccinisti. 
 La questione è seria, anche perché esula dagli steccati di un dibattito puramente teorico: negli Stati Uniti l’immunità di gregge (ovvero un’immunità su larga scala che ostacola la diffusione del virus) per il morbillo, raggiunta nel 2000, è stata recentemente persa proprio a causa della moda antivaccinista.
 L’autore comincia col presentare una lunga serie di dati e statistiche allo scopo di dimostrare che, se si procede con una vaccinazione su larga scala, è possibile contenere se non debellare la diffusione dei virus. Attraverso la vaccinazione, infatti, si è ad esempio ottenuta la vittoria sul vaiolo che ha registrato nel mondo l’ultimo caso nel 1977 e che è stato ufficialmente dichiarato scomparso nel 1980.
Si era ad un passo anche dal debellamento della poliomielite, ma le recenti guerre civili in diverse regioni del globo ne hanno impedito la sconfitta.
 Alla luce delle evidenze scientifiche in nostro possesso, si può così arrivare a un assunto su cui Burioni insiste in maniera particolare: la decisione di non vaccinare i propri figli rappresenta non solo una scelta irresponsabile nei confronti dei propri bambini, che risultano esposti al contagio di virus che causano patologie gravi di per sé (pensiamo alla poliomielite) o che possono avere complicazioni estremamente serie (pensiamo al morbillo), ma anche nei confronti di coloro che per varie ragioni non possono accedere al vaccino o sono immunodepressi (perché affetti da altre malattie di natura non virale).
 Oltre a riportare l’efficacia dei vaccini verso le malattie per le quali sono somministrati, Burioni prova a offrire risposte molto nette ad una lunga serie dubbi che il pensiero antivaccinista insinua.  Non c’è legame dimostrabile tra vaccini e autismo: è vero che il numero dei casi riconosciuti di autismo è aumentato nel tempo, ma questo si può spiegare con un miglioramento nella procedura diagnostica (in passato molti autistici non erano riconosciuti come tali). 
 Non è vero che i vaccini favoriscono la comparsa di allergie: i dati di cui disponiamo ci permettono di stabilire che, prima della caduta del muro di Berlino, nella Germania Ovest - dove le vaccinazioni non erano imposte - si aveva una maggiore incidenza di allergie rispetto a quanto accadeva nella Germania Est, dove vaccinarsi era obbligatorio. 

Il virologo Roberto Burioni

 Non è vero che i bambini vaccinati si ammalano di più: la vaccinazione contro il morbillo ad esempio, oltre a proteggere dal virus specifico, protegge anche dalla depressione immunologica pluriennale che segue la contrazione della malattia; la vaccinazione contro il virus del papilloma umano svolge una duplice azione di protezione: contro il virus e contro il cancro del collo dell’utero che questo può causare.
 I vaccini sono sicuri: solo in rari casi la vaccinazione contro parotite-morbillo-rosolia può causare anafilassi subito dopo la somministrazione (ma questa si risolve positivamente con un intervento medico tempestivo), trombocitopenia (che guarisce spontaneamente) o encefalite. In ogni caso le conseguenze post-vaccinazione hanno un’incidenza inferiore rispetto alle complicazioni riportate dopo le patologie contro le quali le vaccinazioni agiscono.
 I vaccini non arricchiscono le ditte farmaceutiche perché non costituiscono una delle voci principali dei loro bilanci, e rappresentano solo lo 0.3% della spesa sanitaria nazionale.
 I dati e le statistiche sono sempre riportati con insistenza e precisione meticolosa a sostegno di quanto spiegato dall'autore, perché servono proprio a distinguere ciò che è un fatto (dimostrabile) da ciò che è un’opinione (contestabile).
 Rivolgendosi a un pubblico di non addetti ai lavori, Burioni utilizza un linguaggio semplice e facilmente comprensibile. Forse proprio per questo il capitolo sul sistema immunitario e su come i vaccini sono in grado di stimolarlo si esaurisce in poche pagine. In questo caso qualche nozione in più avrebbe giovato sia a chi non si fida dei vaccini, sia a chi - pur riconoscendo l’utilità dei vaccini - desidererebbe approfondire la questione per avere un quadro più completo dei valori in gioco.
 In conclusione, possiamo dire che questo libro offre risposte chiare, convincenti e per tutti comprensibili ai dubbi insinuati dagli antivaccinisti, suffragate da una lunga serie di dati oggettivi e di fatti incontrovertibili. Burioni suggella il suo discorso con una proposta operativa che condividiamo: lo Stato dovrebbe pensare a proteggere in primo luogo i più deboli (i bambini e i malati) rendendo le vaccinazioni obbligatorie, senza offrire una sponda alla pretesa di legittimazione giuridica di posizioni basate su pure e semplici petizioni di principio e nutrite di pregiudizi antiscientifici.

Voto 7,5

martedì 27 dicembre 2016

Melania G. Mazzucco, "Io sono con te. Storia di Brigitte", Einaudi


 Cosa sanno gli italiani dei richiedenti asilo, della loro storia, delle loro peripezie, del loro profilo umano, e delle trafile burocratiche attraverso le quali devono passare affinché sia riconosciuto loro lo status di rifugiati e il diritto a rimanere nel nostro Paese? La risposta, in media, è: assolutamente niente. 
 Per i più, il "richiedente asilo" appartiene a un sottogruppo dai contorni mal definiti della più vasta famiglia dei "migranti" (a cui magari si aggiunge a sproposito l'aggettivo "clandestini"), ed è - nel migliore dei casi - un essere umano genericamente bisognoso di aiuto, nel peggiore soltanto un problema sociale o l'oggetto di una polemica politica più o meno pretestuosa; raramente è un individuo meritevole di attenzione per via della sua particolare esperienza o delle sue specifiche qualità.
 Con questo splendido libro-verità, Melania Mazzucco si fa tramite del racconto della storia di una rifugiata, una donna congolese, la cui vicenda viene resa in tutta la sua drammatica tipicità, palesandone l'orrore, ma evitando di far gratuitamente vibrare le corde del pathos.
 Evidente è lo sforzo dell'autrice di non eclissare con il suo punto di vista quello della protagonista, che viene subito messa in primo piano, ma senza svelare troppo di lei; si fa anzi in modo che il lettore vi si avvicini e la conosca piano piano.
 Quando poi lo sviluppo narrativo ha svelato abbastanza del suo "salvataggio" in Italia, si lascia che la stessa Brigitte (questo il nome della donna) possa raccontare quello che le è successo, con la stessa asciutta fermezza e la stessa lucidità con cui ha permesso di ricostruire nel dettaglio la sua storia agli operatori del Centro Astalli che, a Roma, si sono presi in carico il suo caso, dopo averla trovata - grazie all'intervento di un religioso - alla Stazione Termini, in condizioni fisiche pietose e in preda a una totale confusione mentale.

Melania Mazzucco

 Solo a questo punto entra in scena in prima persona la narratrice Melania Mazzucco, che ci dice come è arrivata a occuparsi di rifugiati, come ha imparato a conoscere il Centro retto dai Gesuiti che offre soccorso e assistenza ai richiedenti asilo, come poi si è imbattuta in Brigitte Zébé. E' allora, con la palese estrinsecazione della personalità della scrittrice - e con una scrittura che si fa più distesa, meno "elettrica" - che si realizza un inquadramento prospettico dell'avventura della protagonista nel panorama più ampio dei fenomeni migratori e delle questioni che sollevano.
 Da ultimo, Melania e Brigitte diventano due donne con esperienze di vita molto distanti, con un retroterra culturale diversissimo, con prospettive esistenziali incomparabili, eppure in grado di trovare un terreno comune in cui riconoscere dei punti di contatto e imparare a comunicare da pari a pari.
 Quello che è accaduto a Brigitte è quasi impensabile per chi sia cresciuto sotto l'ombrello di uno Stato di Diritto e sia abituato ai nostri standard di vita. In Congo, a Matadi, la donna, nonostante fosse vedova e con quattro figli a carico, conduceva un'esistenza che potremmo definire "borghese": non solo possedeva un diploma di infermiera e faceva parte della Croce Rossa Internazionale, ma, grazie alla sua iniziativa imprenditoriale, era riuscita ad aprire una piccola clinica in cui lavoravano sotto la sua diretta responsabilità diversi medici e operatori sanitari.
 Un giorno erano venuti a farsi soccorrere nel piccolo ospedale alcuni uomini feriti negli scontri a fuoco scoppiati durante una manifestazione politica indetta contro il Vicegovernatore Déo Nkusu, già protetto del presidente Kabila. La sera stessa si era presentato alla clinica un colonnello dell'esercito, che pretendeva che Brigitte somministrasse ai feriti una sostanza che li avrebbe uccisi; in cambio, la donna avrebbe ricevuto un assegno per l'equivalente di 100mila euro.
 Davanti al rifiuto di Brigitte (legata, come i suoi medici, alla pronuncia del giuramento di Ippocrate), l'uomo se ne era andato senza protestare. Ma il giorno dopo erano venuti a casa sua dei soldati armati, che avevano ucciso suo fratello e avevano rapito lei, strappandola ai suoi figli. Brigitte era stata portata in una località segreta e chiusa in una cella stretta e buia, dove erano ammassati così tanti prigionieri che nessuno poteva stendersi sul pavimento.
 Nella cella non c'era un luogo deputato a fare i propri bisogni, e non si aveva la possibilità di mangiare né di bere, se non la propria urina. Ogni giorno i soldati venivano a prelevare gli uomini e le donne da interrogare con la tortura; quelli che non tornavano venivano chiusi in sacchi di juta e gettati in un fiume. Quasi ogni notte, Brigitte veniva presa e portata in una stanza dove i soldati la seviziavano e poi la violentavano a turno per ore, fino a lasciarla dolorante ovunque e quasi priva della ragione.
 Destinata anch'essa a un sacco di juta, Brigitte era riuscita a salvarsi solo grazie all'intervento di uno dei soldati, un graduato che aveva riconosciuto in lei la donna capace di assistere anni prima sua moglie in un parto difficile. Il soldato l'aveva fatta fuggire di nascosto; Brigitte tagliando per la foresta e per i campi, era riuscita a raggiungere la vicina carreggiabile e, nascondendosi nel cassone di un camion che trasportava fusti di olio di palma, era arrivata a Kinshasa. Qui aveva rintracciato fortunosamente un cugino che l'aveva aiutata a salire a bordo di un aereo, con la complicità di un amico deputato, del quale era stata presentata al check-in come la moglie. Partita con l'aereo, Brigitte aveva fatto scalo a Istanbul, e poi era atterrata a Roma. Il deputato, spaventatissimo dalle possibili conseguenze dell'appoggio dato a una presunta oppositrice del regime, l'aveva accompagnata a bordo di un taxi fino alla Stazione Termini, dove l'aveva abbandonata senza troppi complimenti con una banconota da venti euro in mano e nessun viatico.

Brigitte Zébé con il libro che racconta la sua storia

 Brigitte si era così ritrovata in una città per lei misteriosa, fiaccata fisicamente e destabilizzata mentalmente, senza conoscere una parola di italiano né di inglese, senza sapere dove fossero i suoi figli e se fossero ancora in vita; rapidamente si era lasciata andare, trasformandosi in una clochard.
 Senza l'intervento degli operatori del Centro Astalli sarebbe forse tuttora fra i tanti "invisibili" che, quasi dimentichi di sé, si incontrano talvolta nelle stazioni delle grandi città.
 La risalita di Brigitte dal buco nero in cui era precipitata è stata lenta e difficile, e resa possibile solo dagli psicologi, dagli avvocati, dai mediatori che si sono occupati di lei in Italia. Per lungo tempo la donna è vissuta nell'incertezza della sorte dei suoi figli ancora bambini, abbandonati senza parenti che potessero occuparsi di loro.
 E le sue peripezie, in verità, non sono terminate col suo salvataggio, né con la lunga attesa e i numerosi esami superati per ottenere lo status di rifugiata, e nemmeno con il commovente ricongiungimento con due dei suoi quattro figli rocambolescamente ritrovati in Congo.
 La sua non è necessariamente una storia a lieto fine, ma - come quella di tanti altri rifugiati approdati in Italia - una vicenda aperta, come aperta è la sua lotta per riconquistare un minimo di dignità, e la facoltà di mantenere da sola sé stessa e i suoi figli, con sulle spalle il fardello dei soprusi subiti e in aggiunta la zavorra del razzismo strisciante di un Paese che ella considera ormai la sua patria d'elezione, ma che - spesso solo per il colore della sua pelle -, pur senza dichiararlo apertamente, la ritiene inadeguata per svolgere persino i mestieri più umili.
 Questo è uno di quei libri che meritano di essere fatti leggere a scuola, perché contengono informazioni indispensabili per capire la realtà con cui abbiamo quotidianamente a che fare, e possono costituire il fondamento (anche emotivo) di un'educazione civica che non sia solo un rito formale.

Voto: 8 

sabato 17 dicembre 2016

Paolo Cognetti, "Le otto montagne", Einaudi


E' banale affermare che la montagna è, metaforicamente, una scuola di vita; più vero è che, per chi se ne innamora, la montagna finisce per essere il polo emotivo di una vita intera.
Pietro detto Berio ha imparato a conoscere e ad amare la montagna grazie ai suoi genitori - lei assistente sociale, lui chimico - che, veneti di origine, si sono trasferiti a Milano all'inizio degli anni settanta, dopo il matrimonio celebrato presso un rifugio sulle Dolomiti, davanti alle Tre cime di Lavaredo.
Da Milano, nelle belle giornate, le Alpi e le Prealpi appaiono a fare da corona all'orizzonte, e permettono di immaginare un mondo lontano da una quotidianità acre e difficile.
Per i genitori di Pietro le Dolomiti sono le montagne dei ricordi di gioventù, gioiosi e anche dolorosi; le Alpi occidentali - e il Monte Rosa in particolare, il cui imponente massiccio è ben visibile dal capoluogo lombardo - diventano invece il regno del sogno e dell'evasione.
E' il 1984 l'anno in cui la famiglia di Pietro comincia a prendere in affitto, nei mesi estivi, una casa in cui passare le vacanze nel paesino di Grana, in una valle appartata ai piedi del Monte Rosa.
Mentre la madre aspetta i suoi uomini a casa, avendo trovato nel fondovalle con i suoi pascoli tranquilli una sorta di habitat naturale, Pietro - allora dodicenne - comincia a salire in alto con suo padre, che affronta sempre il cammino con furia, quasi volesse scrollarsi di dosso persino il ricordo della pianura, spingendo su il figlio lungo le linee di massima pendenza. Ma mentre il padre si sente perfettamente a suo agio nel brullo paesaggio dove dominano la roccia e il ghiaccio, Pietro, che soffre di mal di montagna, preferisce, a una quota inferiore, l'abbraccio misterioso dei boschi, la limpidezza dei laghi alpini, l'irrequieta rissosità dei torrenti.
E' proprio durante una delle sue esplorazioni lungo il torrente che scende a Grana che Pietro si imbatte per la prima volta in Bruno, un ragazzo biondo della sua stessa età che si occupa delle mucche dello zio, e resta tutto l'anno in quel borgo lontano da tutto, frequentando solo saltuariamente la scuola.
A Grana, con i suoi genitori e con Bruno, Pietro-Berio (è l'amico a dargli questo soprannome, modellato sul dialetto valligiano) passerà tutti le estati della sua adolescenza e della sua prima giovinezza.
Le trasformazioni del rapporto col padre e della duratura amicizia con Bruno, veicolate dall'amore un po' contraddittorio per le Alpi e dalla loro discontinua frequentazione, segneranno le tappe della crescita emotiva di Pietro.
Col padre si consumerà presto una dolorosa rottura - dovuta a una distanza caratteriale ben rappresentata dal diverso modo di "sentire" la montagna -, che solo alla morte del genitore (di infarto, a sessantadue anni, con Pietro ormai trentunenne) troverà una ideale ricomposizione.
Bruno invece, sostituendo Pietro accanto al padre di lui nelle ascensioni verso le vette, con la sua aspirazione forse anacronistica a restare puramente e semplicemente un montanaro, finirà per incarnare una sorta di alter ego del protagonista, vivendo la vita che, con una parte di sé, egli avrebbe voluto vivere.

Paolo Cognetti

Pietro diverrà un documentarista, girerà il mondo raccontando montagne splendide e lontanissime, e non fonderà mai una famiglia sua.
Bruno, lasciata la professione di muratore che aveva intrapreso, salirà in montagna a riaprire un alpeggio abbandonato anni prima dallo zio, si metterà con una ragazza presentatagli proprio da Pietro, avrà una figlia, andrà incontro a una serie di fallimenti economici ed esistenziali, ma non rinuncerà mai a vivere integralmente il suo sogno di interpretare la montagna come una dimensione totalizzante.
E alla fine, tragicamente, Bruno in montagna morirà: farà come il personaggio di un antico proverbio nepalese, restando per sempre sulla prima montagna, la più bella, quella posta al centro del suo mondo; mentre Pietro, lontano da essa, ormai incapace, dopo la scomparsa dell'amico, di attingere alla sua essenza originaria, sarà destinato a vagare per tutte le altre - le "otto montagne" del titolo - all'eterna ricerca della felicità perduta e ora dispersa per tutto l'universo.
"Le otto montagne" è un libro bello e complesso: partendo dall'apparente linearità di un racconto condotto famigliarmente in prima persona dal protagonista (Pietro è tecnicamente anche il narratore della storia), sviluppa una trama che contempla, in chiave insieme realistica e simbolica, la rappresentazione di relazioni umane basilari, quali il rapporto tra padre e figlio e l'amicizia maschile, esplorandole nell'appassionante tortuosità della loro evoluzione.
Lo stile è fresco, sobrio, piacevole, ugualmente alieno da banalità paraletterarie e da astruserie iperletterarie, adatto a supportare un intreccio narrativo privo di schematismi e dagli esiti non scontati.

Voto: 7

venerdì 9 dicembre 2016

Leonard Michaels, "Sylvia", Adelphi


 Uscito negli Stati Uniti nel 1992, e pubblicato solo ora in Italia, il romanzo autobiografico di Leonard Michaels - scrittore americano di origini ebraiche famoso soprattutto per le sue raccolte di racconti - narra la storia di Sylvia, la prima moglie dell'autore, e del loro tormentato rapporto d'amore e di dolore.
 L'incipit del libro è di per sé esemplare dello stato d'animo entro il quale di incrive la vicenda narrata:
"Nel 1960, dopo due anni di corsi postuniversitari a Berkeley, tornai a New York senza un PhD e senza alcuna idea di cosa fare, a parte il desiderio di scrivere".
 E' in questo clima emotivo di sospensione e d'attesa che, grazie alla comune amica Naomi, a casa di quest'ultima al Village, avviene il fatale incontro tra Leonard e Sylvia.
 Sylvia è bruna, svagata, sensuale; l'attrazione dell'uomo per lei è immediata e travolgente. Più della sensualità e della chimica erotica, però, a giocare un ruolo nell'innamoramento di Leonard è il carattere di Sylvia, il suo naturale anticonformismo, il suo atteggiamento sempre spiazzante, che trasforma fin dall'inizio le giornate con lei in una continua avventura.
 Il problema è che la ragazza è tanto morbosamente nevrotica quanto brillante e imprevedibile: la vita a due diventa presto un inferno, e il tentativo sempre frustrato di Leonard di rendere Sylvia felice, combinato con la caparbia e contraddittoria umoralità di lei, dà luogo a un perverso intreccio psicologico molto simile a una "folie 'a deux".
 Si parte con il rifiuto di Sylvia di visitare i genitori di Leonard e si arriva fino all'incapacità da parte della ragazza di sopportare il ticchettio della macchina da scrivere che accompagna i tentativi letterari dell'autore; gli scoppi d'ira di Sylvia si alternano a furiosi amplessi, che non rappresentano momenti di riconciliazione, ma seguono la logica di una coazione a ripetere gesti che mimano un ingannevole scambio di emozioni "forti", a cui si è assuefatti come a una droga (tanto che dal letto si passa poi, automaticamente, nella sala di un cinema, senza confrontarsi affatto sulle ragioni del precedente dissidio).

Leonard Michaels

 La rottura che sembra costantemente sul punto di consumarsi, tuttavia, viene continuamente procrastinata in nome di una sofferenza che non si vuole infliggere all'altro soprattutto perché verrebbe, di riflesso, personalmente avvertita come un proprio fallimento.
 La conclusione è tragica: quando Leonard è ormai sul punto di allontanarsi definitivamente da quella che nel frattempo è diventata sua moglie, Sylvia troverà la morte, portando fino in fondo un tentativo di suicidio che sembra quasi messo in atto per gioco, o come estrema, implicita richiesta di aiuto.
 Il romanzo è decisamente bello: nonostante sia stato scritto 25 anni fa, e narri vicende risalenti a 55 anni orsono, il suo passo è quello dei libri senza tempo.
 La scrittura è densa, analitica senza mai diventare pesante, e l'alternarsi del resoconto dei fatti steso a posteriori e delle pagine del diario di Leonard redatto praticamente in presa diretta determina un sovrapporsi di piani prospettici e di punti di vista che rende giustizia fino in fondo della complessità psico-emotiva della storia raccontata.
 In più, il libro ha il merito di restituire alla perfezione l'atmosfera di anni che preparavano una autentica rivoluzione copernicana della mentalità e dei costumi (quella che deflagherà col Sessantotto, inteso in senso più culturale che cronologico), mettendo in discussione anche ciò che in precedenza non poteva divenire oggetto di aperta riflessione e di pubblico confronto, in quanto protetto dall'impenetrabile riservatezza e circonfuso dell'ovattata vaghezza che avvolgeva tutto quanto faceva parte della sfera privata e famigliare, obbligatoriamente avvolta in un decoroso silenzio.
 Tutto molto americano: a tratti sembra di essere dentro un libro di John Updike.

Voto: 7

giovedì 1 dicembre 2016

Dario Fo e Giuseppina Manin, "Dario e Dio", Guanda


 L'ultimo libro pubblicato in vita da Dario Fo (in occasione dei suoi novant'anni) è, in realtà, un libro-intervista, ma di un tipo tutto particolare: la giornalista Giuseppina Manin pone a Fo delle domande sul suo rapporto con Dio, con la religione, coi Vangeli; e Fo, come suo stile, risponde debordando e divagando, senza mantenersi mai entro i binari di un'intervista convenzionale. Così produce aneddoti su aneddoti, si burla di ogni cosa, persegue a bella posta l'irriverenza patente, dice e si contraddice senza dare troppo peso alla cosa.
 Alla domanda fondamentale Fo risponde subito: no, non crede in Dio, anche se spesso gli piace rivolgersi a lui come se ci fosse e avesse le caratteristiche proprie del Dio dei cattolici. Più che altro, ciò da cui è attratto è lo spirito essenziale e originario del cristianesimo, e i racconti che intorno ad esso si sono sviluppati; non solo e non tanto quelli ufficialmente approvati dalle istituzioni ecclesiastiche, quanto quelli - spesso assai stravaganti - contenuti nei Vangeli apocrifi (da cui del resto, come è noto, il premio Nobel attinse a piene mani per la redazione della sua opera più nota, Mistero buffo).
 Come è facile immaginare, assai critico è l'atteggiamento di Dario Fo nei confronti delle gerarchie in cui la Chiesa si sostanzia, ma la critica non diventa mai attacco frontale né polemica teologica, e si risolve invece in allegro sberleffo. La tendenza è al massimo quella di sottolineare l'aspetto curioso, bizzarro o inverosimile di tutto ciò che l'ortodossia religiosa, con serioso rigore, considera dogma indiscutibile, Verità sacra.  
 Fra i santi e gli uomini di Chiesa, naturalmente, vi sono anche coloro per cui il premio Nobel manifesta il massimo rispetto: prima di tutto san Francesco, figura rivoluzionaria capace di elaborare un atteggiamento nuovo verso la vita e il mondo, ridotta spesso dal Vaticano a caricatura di un pauperismo ingenuo e puerile, buona per le immaginette; e poi il suo omonimo papa Francesco, il Pontefice attuale. Di papa Bergoglio Fo apprezza non solo il buon senso e il sano pragmatismo, ma anche e soprattutto l'attenzione verso l'ambiente e i problemi ecologici (in un mondo in cui la questione ambientale è destinata a diventare sempre più centrale), e la netta presa di distanza nei confronti della tradizionale misoginia cattolica. 

Dario Fo e Giuseppina Manin 


 Proprio la rilettura della storia del Cristianesimo alla luce di una rivalutazione dell'essenza femminina è probabilmente il contributo più originale che da questa intervista può derivare dal punto di vista filosofico. 
 Per Fo, l'idea stessa della donna è stata per secoli elusa dal Cristianesimo, che non ha saputo trovare alla versione femminile dell'essere umano una degna collocazione all'interno della propria visione del mondo; e questo, per il drammaturgo (che faticava persino a concepire se stesso disgiunto dalla sua metà femminile, Franca Rame), è un peccato mortale.
 Forse l'idea più bella che da questa critica proviene è la proposta di considerare la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo - di solito ridicolamente rappresentato dall'iconografia ufficiale come una candida colomba - alla stregua di una donna: una donna, madre sorella o amante, capace di trasformarsi in veicolo universale della femminilità intrinseca del divino.
 Basta questo lampo creativo a riscattare dalla generale mediocrità una lettura invero non eccezionale.

Voto: 6-