domenica 29 gennaio 2017

Erri De Luca, "La Natura Esposta", Feltrinelli


 La scrittura di Erri De Luca, sincopata, costruita su frasi brevi o brevissime, eminentemente paratattica, e impreziosita da un uso calibratissimo del lessico, induce al raccoglimento e alla meditazione: un effetto che l'autore riesce a ottenere forse grazie alla sua ben nota assiduità con le Sacre scritture.
 In questo romanzo, tale caratteristica è particolarmente evidente, e ben si attaglia al tema centrale dello sviluppo narrativo: la ristrutturazione - ricca di valori simbolici - di un crocifisso di marmo, capolavoro di uno scultore moderno, volta a restituire all'opera il profondo significato originario, compromesso da interventi successivi.
 Il racconto, condotto tutto in prima persona, procede dalla singolare esperienza del protagonista narratore, un anziano artista (che però si considera un semplice artigiano) capace in passato di raggiungere una certa notorietà, che vive in un piccolo villaggio alpino vendendo ai turisti i propri lavori - raffinate sculture in pietra e in legno - e ristrutturando le opere d'arte presenti nelle chiese delle valli circostanti. Alla sua attività ufficiale, l'uomo ne associa però un'altra: aiuta gli immigrati approdati in Italia e desiderosi di raggiungere il Nord Europa ad attraversare clandestinamente il confine, percorrendo impervi sentieri d'alta montagna. Anche il fabbro e il fornaio del villaggio svolgono lo stesso servizio; soltanto, loro si fanno pagare per quello che lo scultore si presta a fare gratuitamente. O meglio, lascia che i migranti versino la quota pattuita prima di mettersi in cammino, per poi restituirla loro quando li congeda oltre confine.
 Capita però che, un giorno, uno dei migranti racconti in un libro la sua avventura, e parli del passaggio in Italia e della singolare generosità della sua "guida"; d'improvviso il borgo montano e l'artista medesimo sono investiti da un'ondata di inattesa e indesiderata popolarità. Questo, naturalmente, segna anche la fine dei passaggi, per via dell'attenzione riservata da quel momento in avanti dalle autorità a quel tratto prima trascurato della frontiera.
 Il protagonista, ostracizzato dal fabbro e dal fornaio (che non possono più condurre liberamente i loro traffici), e guardato con sospetto da tutta la comunità del villaggio, decide allora di cambiare aria: andrà a svernare lontano dai monti, in una località sul mare a sud, e per mantenersi si metterà di nuovo sul mercato cercando qualche buona commissione.
 L'occasione di lavoro giunge presto, ed è più stimolante di quanto il vecchio artista sperasse: il parroco della "grande chiesa" del luogo è stato incaricato dalla Curia di trovare l'uomo giusto per restituire l'aspetto originale a un crocifisso in marmo nei primi del Novecento, concepito come un Cristo nudo e poi, nel primo dopoguerra, coperto con un brutto panneggio per via del cambio di mentalità e degli scrupoli del vescovo di allora.

Erri De Luca

 Il protagonista accetta subito quel compito delicato, rischioso, che altri artisti più quotati di lui hanno in precedenza rifiutato. Il problema tecnico più grosso che occorre affrontare è legato al fatto che il panneggio marmoreo è ancorato alla "natura", vale a dire alle parti intime del Cristo; rimuovendo il panneggio, si rimuove anche il sesso, e chi compie l'operazione deve poi ricostruire quanto del crocifisso va in frantumi.
 Messosi al lavoro, mentre svolge tutti gli studi storici e anatomici necessari per portare a termine l'incarico, l'uomo fa una scoperta sensazionale: in biblioteca si imbatte infatti nell'unica fotografia rimasta che documenti l'aspetto originale del crocifisso. L'immagine è sgranata ma inequivocabile: nella statua com'era un tempo, Gesù appeso nudo alla croce presentava un'evidentissima erezione. Il particolare non costituisce semplicemente e banalmente un tratto iperrealistico; vuole rappresentare invece l'assunzione su di sé da parte di Cristo di ciò che è umano nella sua totalità, fino all'umiliante esposizione della meccanica fisiologica delle parti intime del condannato, fino all'estremo, imbarazzante guizzo della vita subito prima della morte, visibile nei luoghi riposti della sensualità e del desiderio.
 La fase dell'analisi delle tecniche di riproduzione del sesso maschile nella statuaria antica, della scelta del marmo per la parte da ricostruire, della realizzazione del restauro, si intreccia con la singolare storia personale che coinvolge il protagonista, e che - tortuosamente - avvicina la sua vicenda sia a quella dell'autore della statua (morto in montagna subito dopo il compimento del suo capolavoro), sia a quella di Cristo, tradito, condannato ed appeso sulla croce nella sua inerme nudità.
 L'uomo, infatti, incontra mentre passeggia sulla spiaggia una giovane donna con la quale, a poco a poco, entra in intimità. Quando la relazione tra i due è ormai avviata, la donna, venuta a sapere dei "passaggi" dei clandestini a cui l'uomo si dedicava, chiede al restauratore di condurla per quei sentieri segreti. Solo che, al momento dell'accompagnamento - compiuto quando ormai l'opera di restauro è prossima al termine -, si scopre che altre sono le reali intenzioni di quella che sembrava avviata a diventare la compagna del protagonista, e che invece tenta di farlo uccidere da un misterioso complice con il quale progettava di espatriare segretamente, forse in fuga dalle forze dell'ordine.
 Vivo solo grazie al tempestivo intervento dei suoi ex amici - il fabbro e il fornaio -, capace ora di identificarsi fino in fondo con l'umanità di Cristo e con quella dello scultore della statua, che prima di lui era arrivato a sublimarsi in quel processo di immedesimazione, l'artista porta a termine la sua opera, accompagnando la sua realizzazione con la richiesta al parroco e alla Curia che il suo nome non compaia da nessuna parte.
 Il pene di Gesù, in marmo verde, leggermente più scuro rispetto a quello in cui è scolpito il resto della statua, prende infine il suo posto con il massimo della naturalezza, così come deve essere.
 Il libro è bello e godibile, la storia insolita e intrigante, e riesce ad arrivare al lettore con grande intensità. Qualche limite è riscontrabile nella meccanica dello sviluppo narrativo e, soprattutto, nella definizione della fisionomia dei personaggi: la donna che seduce e poi tradisce il protagonista finisce per essere più una funzione narrativa che un personaggio a tutto tondo, e gli ingranaggi di quella parte dell'intreccio in cui è coinvolta risultano un po' rugginosi (non si capisce bene chi sia e cosa abbia fatto il suo misterioso complice, perché sia necessario per lei appoggiarsi al protagonista per espatriare, e perché poi progetti di ucciderlo); lo stesso protagonista narratore, con tutta la sua abnegazione, con la sua esibita umiltà, con l'eccessiva ostinazione nel rifiutare qualsiasi titolo di merito, nell'arte come nella vita, finisce per ribaltare la sua apparente, assoluta modestia nel suo opposto speculare, vale a dire una estrema superbia e, agli occhi del lettore, diventa antipaticissimo (se così è consentito esprimersi a proposito di un uomo fatto di carta e di parole).
 Ma, a conti fatti, tutto ciò poco toglie all'innegabile valore di questo romanzo.

Voto: 7  

domenica 22 gennaio 2017

Sven Felix Kellerhoff, "Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf", Rizzoli


 Fino al 31 dicembre 2015, in Germania, la pubblicazione del Mein Kampf di Adolf Hitler era vietata: la impediva una determinazione del Land della Baviera, che deteneva legalmente i diritti d'autore, essendo stato nominato erede di tutte le proprietà dell'ex Fuhrer dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
 A questa linea di condotta - originariamente dettata dal proposito di impedire la propaganda delle idee naziste - il Governo bavarese non venne mai meno per tutto il dopoguerra, nonostante le ricorrenti proteste di molti studiosi, che pensavano fosse giusto dare la possibilità al pubblico di accostarsi criticamente a quella che era considerata la bibbia del nazionalsocialismo, per meglio capirne la genesi e le ragioni che ne determinarono le fortune politiche.
 Il divieto si riteneva cogente anche al di fuori dei confini tedeschi, ma in molti Paesi un controllo capillare sulla stampa e la diffusione dei prodotti editoriali era difficile da esercitare; io stesso, negli anni novanta del Novecento, ai tempi dell'Università, riuscii a procurarmi una copia in traduzione del testo presso un remainder, nonostante un giudice avesse disposto il sequestro di quell'edizione illegale (con tanto di svastica in copertina) pubblicata da un'oscura casa editrice legata a gruppi di nostalgici del Terzo Reich. 
 D'altra parte, una censura pervicacemente mantenuta finisce per stimolare la curiosità: non sorprende così che, nel 2016, allo scadere dei termini entro i quali è possibile esercitare il diritto d'autore, l'edizione commentata del libro finalmente messa a disposizione dei lettori in terra tedesca sia diventata un best seller, con quasi 86mila copie vendute.
 Il libro di Hitler è prolisso, noioso, approssimativo nei riferimenti filosofici, scadente dal punto di vista letterario, a tratti quasi illeggibile; l'impalcatura logica su cui si regge è assai traballante, e le idee cardine che vi sono espresse sono chiaramente il frutto di un'ossessione paranoica. Proprio per questo, più che temerlo, è importante studiarlo - e studiarne la storia - per comprendere come una simile accozzaglia di sciocchezze sesquipedali, in un determinato contesto socio-economico e culturale, abbia costituito un ingrediente importante di un insieme di fattori capace di scatenare una sequenza di eventi devastanti.
 Tale è il presupposto da cui parte l'attentissima ricerca di Sven Felix Kellerhoff sul testo e su tutto quello che vi è cresciuto intorno.
 L'autore comincia con un'analisi dettagliata dei contenuti del Mein Kampf; operazione indispensabile, visto che molti citano il libro e pretendono di parlarne senza averlo letto affatto. Il Mein Kampf  si presenta di primo acchito come un'autobiografia di Hitler, che però si trasforma presto in un manifesto teorico da cui scaturisce un programma politico. Le idee cardine che tengono insieme questo ammasso di aneddoti, sfoghi, invettive, fantastiche ricostruzioni di eventi storici reali, petizioni di principio, bizzarre convinzioni presentate come incontrovertibili verità, perentorie dichiarazioni d'intenti sono l'antisemitismo (che è la vera architrave di tutto il pensiero hitleriano) e una visione del processo storico come lotta tra gruppi nazionali di matrice razziale, basata su una versione assai rozza del darwinismo sociale.
 L'intento palesato è quello di indicare la direzione verso la quale il popolo tedesco e la razza germanica devono muoversi affinché possa compiersi il loro destino di dominazione degli altri popoli europei. I passaggi obbligati da affrontare per ottenere questo risultato sono, sul fronte interno, la ricostituzione della vera razza ariana attraverso l'espulsione di tutti gli elementi che ne inquinano la purezza, in primo luogo quello ebraico; in politica estera, l'abbandono della politica coloniale e la ricerca di una supremazia sul continente europeo, con l'isolamento e la neutralizzazione della Francia prima, e la ricerca dello "spazio vitale" a est poi. In quest'ottica, il nemico mortale della Germania è giocoforza la Russia, patria del "bolscevismo di matrice giudaico-massonica"; possibili alleati sono invece l'Inghilterra, a cui potrebbe essere lasciato il dominio degli Oceani e dei territori extraeuropei, e l'Italia fascista, che avrebbe nel Mediterraneo il proprio naturale bacino di espansione.
 La guerra, naturalmente, rappresenta l'indispensabile strumento per attuare in concreto questo programma.

Sven Felix Kellerhoff

 Passato in rassegna quello che il libro dice, Kellerhoff si dedica allo studio di documenti e testimonianze che ci raccontano come nacquero i due volumi del Mein Kampf: il primo volume - pubblicato il 18 luglio 1925 - fu battuto a macchina in gran parte dallo stesso Hitler nel 1924, nel carcere della fortezza di Landsberg, dove era rinchiuso in seguito al fallito "Putsch di Monaco" del novembre 1923.
 L'autore lavorava sulla base di scalette sovente assai dettagliate, preparate prima della redazione del testo vero e proprio. Falsa è la vulgata secondo cui il volume sarebbe stato dettato dal capo dell'NSDAP all'allora segretario e compagno di prigionia Rudolf Hess; pare invece che Hitler abbia coinvolto Hess solo dopo la stesura del testo, per discuterne con lui alcuni passaggi (come attestato dalle lettere dello stesso Hess ai familiari).
 Il secondo volume - pubblicato l'11 dicembre 1926 - fu invece dettato da Hitler a diverse dattilografe (tra cui certamente ci fu Herta Frey) fra il 1925 e il 1926, in varie località (ma in gran parte nel suo "rifugio" di Berchtesgaden), e poi rivisto nello stile e curato dal punto di vista redazionale da Ilse Prohl, futura moglie di Rudolf Hess.
 Assai interessante è la ricerca delle fonti del pensiero esposto da Hitler nel Mein Kampf: si tratta perlopiù di libri assai oscuri, pubblicati quasi tutti nel corso dell'Ottocento o nel primo Novecento, collocabili al di fuori del novero degli studi cui è possibile attribuire un minimo di autorevolezza dal punto di vista scientifico, e nati nell'ambito della composita costellazione ideologica dell'antisemitismo europeo. Un esempio rilevante dei riferimenti culturali del Fuhrer è costituito da quel clamoroso falso storico che sono i Protocolli dei Savi di Sion, più volte citati nel Mein Kampf  e utilizzati dagli antisemiti di tutto il mondo (è il caso di ricordare, negli Stati Uniti, Henry Ford, che fu un fervente ammiratore di Hitler) per sostenere l'esistenza di una congiura ebraica internazionale.
 Il concetto di "spazio vitale", invece, fu ripreso dalle teorie di Karl Haushofer, conosciuto da Hitler grazie alla mediazione di Rudolf Hess, che di Haushofer era stato allievo all'Università di Monaco.
 L'analisi dimostra come, sotto diversi aspetti, il Mein Kampf non sia un'opera particolarmente originale, ma derivi dalla citazione approssimativa, dalla combinazione e dalla rimasticatura di materiali vari, ascrivibili alla paccottiglia teorica della sottocultura nazionalista e razzista.
 Oltre all'attendibilità culturale, assai discutibile è anche l'attendibilità storica di quello che Hitler racconta nella parte autobiografica del suo libro: la sua infanzia e la sua giovinezza sono infatti rivisitate sorvolando su tutto quello che avrebbe potuto nuocere all'autore dal punto di vista politico, e presentando ogni avvenimento come un tassello di un mosaico biografico coerente col successivo sviluppo dell'ideologia nazionalsocialista. Si pensi, ad esempio, all'omissione della notizia dell'elusione del servizio militare nell'impero Austro-ungarico, alle fandonie raccontate da Hitler a proposito delle modalità del suo arruolamento nell'esercito bavarese dopo il suo trasferimento a Monaco (da "apolide") e lo scoppio della Grande Guerra, all'esaltato e inverosimile resoconto dell'unica battaglia a cui Hitler partecipò personalmente col reggimento List nel corso della guerra, quella di Gheluvelt nell'ottobre 1914 (poi, dopo essere stato promosso caporale nel mese di novembre, Hitler ricevette l'incarico di portaordini, e passò il resto della guerra lontano dalla prima linea). Si pensi, ancora, alle inesattezze narrate a proposito del proprio comportamento nel corso dei convulsi avvenimenti del 1919, e del proprio ingresso, nel settembre di quell'anno, nel Partito tedesco dei lavoratori.
 Come fu accolto il Mein Kampf alla sua uscita? I critici che lo presero in considerazione - quasi tutti appartenenti ad ambienti vicini alla destra - espressero giudizi negativi sia sullo stile sia sui contenuti, pur riconoscendo all'autore una certa forza e apprezzando il tentativo di cercare una strada per riportare la Germania verso la grandezza perduta. Qualcuno parlò addirittura della "più ricca raccolta di svarioni del mondo"; qualcun altro lo giudicò "un miscuglio di idee nietzschiane e darwiniane patinate".
 Il fatto è che i seguaci e i simpatizzanti del movimento di cui Hitler era il capo vi si riconobbero alla perfezione, e riconobbero tutto l'ardore di quello che Hess chiamava "il tribuno", e che era capace di esaltarli con i suoi discorsi incendiari; Goebbels ritenne il libro addirittura "meraviglioso". Tanto che, sulla scorta di simili pareri, Kellerhoff scrive: "il libro di Hitler non riuscì a convincere i lettori abituali colti, né tanto meno a conquistare la loro adesione al nazionalsocialismo. Al contrario fece perfettamente leva sulle emozioni delle cerchie nazionaliste e antisemite, e per di più con una retorica davvero travolgente".
 Le vendite, così, crebbero col crescere della fortuna del movimento politico nazionalsocialista: nei primi anni gli incassi non riuscirono neppure a ripagare gli anticipi piuttosto cospicui che l'editore (l'Eher-Verlag, lo stesso del Volkischer Beobachter) aveva versato a Hitler durante la fase di stesura; in seguito esplosero letteralmente, rendendo ricchissimo il suo autore prima ancora che giungesse a conquistare il potere.
 Fino al 1944 si calcola che furono vendute 12.400.000 copie del Mein Kampf, e ricerche condotte dall'esercito Alleato al termine della guerra portarono a concludere che - secondo stime prudenziali - almeno un tedesco su quattro avesse letto buona parte del libro del Fuhrer.
 Al cospetto di dati del genere, è lecito chiedersi quanto il Mein Kampf contribuì alla traduzione in atto delle idee naziste. Se si guarda all'evoluzione della carriera politica di Hitler, alle determinazioni giuridiche assunte dal suo Governo a partire dal 1933, e all'esplicarsi della politica estera della Germania negli anni trenta e quaranta, vi si ritrova moltissimo di quanto previsto nel libro.
 Vero è che lo sviluppo del processo storico che vide i nazisti protagonisti non fu sempre coerente né lineare: vi furono fasi in cui il Mein Kampf  dovette risultare anacronistico agli occhi dei tedeschi, e forse anche un poco imbarazzante per Hitler medesimo; si pensi, ad esempio, a quando i nazisti affermarono che il Sud Tirolo e i sudtirolesi "di nazionalità tedesca" dovessero essere sacrificati a un'alleanza con l'Italia fascista; o quando, nel 1939, si giunse a un compromesso con la Russia (il presunto nemico giurato della Germania e del popolo tedesco) per la spartizione della Polonia.
 Diciamo dunque che il Mein Kampf non fu un vero proprio manuale d'azione politica per i nazisti; rappresentò piuttosto uno strumento propagandistico e una guida ideologica doviziosamente ammannita a una generazione intera di cittadini tedeschi.
 Alla luce di tutte le questioni trattate da Kellerhoff, con che occhi occorre guardare oggi questo libro di eccezionale rilevanza storica? Bisogna innanzitutto affermare con forza che il Mein Kampf non ha nulla di stregonesco, e non deve quindi essere considerato tabù. Al contrario, è bene accostarvisi sulla scorta della consapevolezza delle terribili conseguenze prodotte dall'ideologia di cui è lo specchio fedele, ma senza paure irrazionali. Piuttosto, esso rappresenta un documento insostituibile per cercare di capire attraverso quali processi psicologici, in un'epoca non troppo lontana, il male abbia potuto farsi strada accanto a noi e dilagare in mezzo a noi.

Voto: 7,5             

domenica 15 gennaio 2017

Fredrik Backman, "L'uomo che metteva in ordine il mondo", Mondadori


 Pubblicato un paio di anni fa, questo romanzo svedese (ben tradotto da Anna Airoldi) è un tipico esempio di quel transrealismo che, con varie sfumature, è una delle modalità espressive privilegiate dalla narrativa scandinava dell'ultimo periodo.
 Si tratta di un approccio al reale che, adottando di preferenza un punto di vista interno, e presentando personaggi leggermente straniati rispetto al mondo circostante e a una società basata su convenzioni che trasformano la vita quotidiana in qualcosa di simile a una brillante rappresentazione teatrale, opera su un registro prevalentemente comico, contando su uno stile lieve e vivace; ma quando il velo delle convenzioni cade, si palesa la sostanza malinconica dell'esistenza umana, di fronte alla quale i personaggi appaiono inesorabilmente nudi e soli. 
 A differenza di quello che accade - ad esempio - nell'ambito dell'umorismo di matrice pirandelliana, però, il "sentimento del contrario" non conduce a una visione del mondo profondamente pessimistica, e la cupezza non prende mai definitivamente il sopravvento; la vita ricomincia presto a scorrere con la sua multiforme varietà, i suoi chiaroscuri, la sua inesauribile capacità di mascherare e obliterare con la levità tristezze e dolori. 
 In questo caso il libro è tutto imperniato sull'originalità del protagonista, Ove, un uomo di cinquantanove anni, burbero, metodico, amante dell'ordine, che vive in un tranquillo quartiere residenziale e guida una Saab; anzi, non ha mai guidato - e mai guiderebbe - auto di un'altra marca.
 Ogni giorno, Ove si alza presto e, indossata la sua giacca blu e un paio di zoccoli di legno, comincia il giro del quartiere, armato di un taccuino, a rilevare qualsiasi cosa si trovi fuori posto: viali sporchi, biciclette appoggiate contro il muro del deposito, auto parcheggiate dove non dovrebbero essere.
 Ove è orgoglioso della sua abilità nel riparare qualsiasi dispositivo meccanico e della sua capacità di progettare e costruire case, e disprezza i nerd dell'informatica, gli impiegati incravattati, le camicie bianche dei pubblici funzionari dei servizi sociali. Ove non ama i cani e sopporta a malapena i gatti, specie quel randagio spelacchiato che si aggira all'alba intorno a casa sua.

 Fredrik Backman

 Ove è un uomo tutto d'un pezzo, che non tollera l'approssimazione e l'esibizionismo, e non vuole essere disturbato da vicini importuni, chiassosi, strambi, diversi, incompatibili con le sue abitudini: come Patrick, il tipo biondo, alto e goffo che ha danneggiato la cassetta delle lettere facendo maldestramente retromarcia con la sua auto giapponese nel vialetto vietato al transito dei veicoli a motore, e che vive nella casa di fronte con le due figlie e Parvaneh, la moglie dalle fattezze mediorientali, visibilmente incinta del loro terzo pargolo; o come Jimmy, il ragazzo obeso della villetta accanto alla sua, che passa per un mago dei computer ma riesce a stento badare a se stesso; o come Adrian, il giovane tatuato che gli consegna la posta, lavora come cameriere in un bar, è innamorato di una ragazza del vicinato e pare non sappia cosa sia l'educazione... Solo con Rune, il marito di Anita, Ove un tempo andava d'accordo nonostante guidasse una Volvo e non una Saab; ma poi Rune - mettendo in atto quello che Ove ha vissuto come un vero e proprio colpo di Stato - ha votato perché l'amico fosse rimosso dalla Presidenza dell'Associazione dei Residenti e, come se non bastasse, ha smesso di guidare Volvo per comprare una Bmw!
 A ben vedere, Ove mostra verso chiunque un atteggiamento così critico e scostante che si può credere che solo sua moglie riesca a sopportarlo.
 La verità, naturalmente, è più complessa di così. Ove è sì burbero e poco conciliante, odia il disordine e fa di tutto per tenere lontano il prossimo; ma vuole stare solo perché sta cercando la tranquillità necessaria per portare a termine il suo progetto, cioè togliersi la vita nel modo più pulito e meno traumatico possibile.
 Infatti sua moglie Sonja, bellissima donna dalla risata cristallina, apprezzata insegnante di lettere in una scuola della città, è morta sei mesi prima, e Ove ha promesso di raggiungerla al più presto.
 Prima prova a impiccarsi a un gancio con una corda che risulta difettosa, poi tenta con il gas, in seguito accarezza l'idea di ricorrere a un fucile o a un tubetto di medicinali, ma qualcuno dei vicini invadenti arriva sempre a interromperlo sul più bello con qualche strampalata richiesta di aiuto; e Ove, che fin da bambino è stato educato dal padre a fare semplicemente e senza trovare scuse ciò che è giusto, con tutta la sua musoneria, non riesce a dire di no a chi ha bisogno di lui.
 Del resto Sonja, se davvero lo sta aspettando da qualche parte, non potrà non capire: anche lei è stata assistita amorevolmente da Ove per quasi tutta la loro vita in comune, da quando, più di trent'anni prima, durante una vacanza in Spagna, un incidente automobilistico l'ha ridotta su una sedia a rotelle, facendole perdere il bambino di cui era incinta e, con esso, la capacità di procreare e di essere autonoma.
 Il lettore, condotto per gradi alla scoperta del carattere scontroso e generoso di Ove è così infallibilmente conquistato da un personaggio che riesce a essere tutto positivo senza scadere nella melensaggine, che appare quasi fiabesco senza risultare irrealistico.
 Il protagonista, con la sua bonaria rudezza - sostanziata con abilità dall'autore - si presta a diventare una sorta di archetipo nordico del burbero benefico, e finisce per rendere quest'opera, di per sé piacevole e brillante ma forse non eccezionale, direi quasi memorabile.

Voto: 6,5           

domenica 8 gennaio 2017

Enrico Camanni, "Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia", Laterza


 Alpi ribelli si presenta esteriormente come una galleria di personaggi “irregolari”, eretici, invisi al potere costituito, che nel corso della storia hanno trovato fra le montagne un rifugio sicuro per sfuggire ai loro persecutori, o hanno cercato un luogo separato per sperimentare un modo di vivere diverso, coltivando liberamente le proprie idiosincrasie, lontani dalla pianura - sede privilegiata delle istituzioni “ufficiali” - e dalle sue costrizioni. 
 Eppure l'indole di questo libro non è puramente tassonomica, e l'interesse che suscita non deriva soltanto dal fascino dei personaggi raccontati; infatti, se da una parte, per la loro morfologia naturalmente impervia, le valli montane hanno costituito sempre un mondo "altro" rispetto ai centri urbani della pianura, la diversità dell'ambiente alpino è mutata continuamente di segno a seconda dei luoghi e delle epoche in cui si è configurata, e di conseguenza sono mutate anche le geometrie del rapporto dei comprensori montani con le capitali politiche ed economiche dei loro territori di riferimento: le città e gli Stati su di esse focalizzati, di volta in volta, si sono completamente disinteressati alla "periferia" alpina, oppure hanno manifestato la tendenza a vederla come una propria appendice, destinata inevitabilmente ad essere ridotta al rispetto delle regole da essi imposte, e asservita alle proprie necessità. 
 Dal canto suo, la montagna ha efficacemente risposto alle due diverse facce del "colonialismo" cittadino, opponendogli talvolta l'inerzia dell'attaccamento alle proprie secolari tradizioni, e talaltra la vitalità di chi si dimostra capace di assorbire il meglio dal proprio competitore senza sottomettersi ad esso e senza rinunciare alla propria fondamentale identità.
 Questo schema, in realtà, è un po' andato in crisi con l'accelerazione imposta dalla modernità alla dialettica tra pianura e montagna: di fronte allo spopolamento delle medie valli dovuto alla forza attrattiva dello sviluppo industriale delle pianure, alla disordinata crescita edilizia dei villaggi d'altura dovuta al turismo di massa, alle piste da sci che hanno cancellato boschi e pascoli, alle strade asfaltate e alle funivie che hanno reso alla portata di tutti le valli più remote e i picchi più inaccessibili, la specificità della montagna può dissolversi per sempre; e chi tenta di difenderla con caparbia ostinazione rischia di scivolare nel puro velleitarismo.
 Per Camanni, per contrastare il "genocidio" della civiltà alpina, c'è un'unica possibilità: solo il recupero, da parte di chi ama veramente la montagna, della consapevolezza che il mondo alpino, nella sua complessità, presenta caratteristiche identitarie omogeneee, che meritano di essere difese con forza, tutelate e valorizzate, e contemporaneamente il ricorso all'antica capacità dei montanari di dialogare con il mondo cittadino senza sudditanza - e senza divenire schiavi di piccoli egoismi, di assurdi particolarismi o di stupidi pregiudizi - possono tenere aperta la strada stretta da imboccare per favorire lo sviluppo di un turismo davvero sostenibile, e per impedire la definitiva omologazione delle Alpi ai costumi e alla mentalità della pianura.
 In questa prospettiva, i personaggi presentati nel libro non appaiono semplicemente romantiche figure rappresentative di uno spirito antico ormai al tramonto, da ammirare e da rimpiangere nostalgicamente, ma diventano - anche quando sono votati alla sconfitta - campioni di una mentalità e di un modo di essere che è giusto mantenere in vita e prendere ad esempio.


Enrico Camanni

 Questa chiave di lettura funziona particolarmente bene per alcuni dei protagonisti delle storie proposte da Camanni, lontani o vicini nel tempo. Penso ad esempio, più che a fra' Dolcino, a Giosuè Janavel, mitico comandante dei resistenti delle valli valdesi contro la prepotenza dei Savoia nel XVII secolo. Penso a César-Emmanuel Grappein, il "comunista di Cogne", un medico che tra Settecento e Ottocento coltivò il sogno di sfruttare le miniere di ferro della sua terra a esclusivo beneficio dei valligiani. Penso a Tita Piaz, il "diavolo delle Dolomiti", protagonista dell'epoca d'oro delle guide, legato indissolubilmente alla val di Fassa e insieme aperto al mondo, tanto da saper difendere con fermezza e con straordinaria lucidità le proprie idee e la propria autonomia anche al cospetto del conformismo autoritario dei fascisti. Penso ai fratelli Berthalon, nativi del Delfinato, renitenti alla leva disposta in Francia per il gigantesco massacro della Grande Guerra in nome della fedeltà al precetto biblico "non ammazzare", e di una viscerale estraneità alle logiche di uno Stato nazionale a cui non sentivano di appartenere. 
 Penso, ancora, alla spiccata personalità di due donne come Mary Varale e Giovanna Zangrandi: la prima, formidabile compagna di cordata del mitico Emilio Comici in un'epoca in cui l'alpinismo non era considerato cosa per donne, fu capace di ritirarsi dall'attività quando la sua stella brillava più che mai, e di chiamarsi fuori dal Cai commissariato da politici al servizio del Regime; la seconda, insegnante decisa a rinunciare alle comodità e all'agiatezza di una vita borghese per amore della montagna, fu staffetta partigiana e in seguito autrice de I giorni veri, una delle migliori - per quanto misconosciuta - testimonianze della Resistenza in Italia. 
 Penso all'indimenticabile Franz Thaler, il "ricamatore di piume di pavone" (secondo la tradizione della nativa Val Sarentino), altoatesino di lingua tedesca che, nel 1939, all'epoca delle famigerate "Opzioni" (che consentivano ai sudtirolesi che ne facessero domanda di aderire al Reich ottenendone notevoli vantaggi) seppe dire di no al nazionalsocialismo anche in nome della fedeltà alla propria terra. Penso allo sguardo dolente di Nuto Revelli, costantemente rivolto al passato per poter meglio leggere i mali del presente. Penso al beatnik dell'alpinismo Gary Hemming, divenuto una celebrità a Chamonix negli anni sessanta, e poi morto suicida sulle Montagne Rocciose, travolto dalle proprie inquietudini.
 Notevoli sono i ritratti di personaggi in qualche modo noti al grande pubblico, che con le montagne ebbero a che fare, come la coraggiosa Tina Merlin - l'unica giornalista che non chiuse gli occhi dinanzi al crimine che si stava perpetrando nella valle del Vajont, e che deflagrò con la tragedia di Longarone - e il mite Alexander Langer, il più importante esponente dell'ecologismo in Italia, l'uomo che forse meglio di tutti incarnò la mentalità di cui questo libro vorrebbe essere manifesto (con il suo motto "più lento, più profondo, più dolce").
 Poi ci sono i miei preferiti, i personaggi poliedrici: Attilio Tissi, alpinista, imprenditore, uomo politico; Guido Rossa, alpinista, operaio e sindacalista, assassinato barbaramente dalle Brigate Rosse; Gian Piero Motti, alpinista, filosofo, scrittore. Uomini che dimostrano come l'amore per la montagna e la comprensione della montagna possono diventare più profondi e concreti se trasfigurati attraverso un'esperienza a tutto tondo.
 Alla galleria di personaggi non poteva naturalmente mancare Reinhold Messner, controverso quanto si vuole ma capace come pochi di proporre una sua visione della centralità della montagna e dell'omogeneità della civiltà alpina. 
 Più difficile da giudicare, infine, risulta per me la figura di Luca Abbà, in cui si compendiano tutte tensioni e le contraddizioni riconoscibili nel movimento No Tav, al centro di una vicenda che a mio parere è emblematica più dell'incapacità, tipica del nostro Paese, delle istituzioni centrali e delle periferie di dialogare proficuamente tra loro, che di un reale tentativo della civiltà alpina di elaborare, sulla base delle proprie autentiche radici identitarie, un progetto di autorigenerazione che possa guardare al futuro. 

Voto: 6,5