lunedì 29 maggio 2017

Michele Mari, "Leggenda privata", Einaudi


 In Italia vi sono scrittori raffinati e scrittori popolari, scrittori seri e scrittori umoristici; autori colti, brillanti divulgatori, originali contaminatori, freschi comunicatori; giovani rapsodi e affascinanti narratori, autori tradizionali e autori vernacolari. E poi c'è Michele Mari, che si è ritagliato un posto tutto suo nella nostra letteratura contemporanea, elaborando, sulla scorta di riferimenti culturali molteplici e disparati, una poetica originalissima, col suo stile proteiforme e il suo ritmo narrativo caratteristicamente sincopato.
 In quest'ultimo libro Mari dà vita a una sorta di autobiografia dal sottosuolo: immagina che i suoi demoni di sempre lo convochino nottetempo nella Sala del Camino - esattamente come, una settimana prima, altri demoni, quelli dell'Accademia dei Ciechi, l'avevano convocato in Cantina - e gli chiedano di scrivere proprio la sua autobiografia; ma di un'autobiografia particolarissima si deve trattare, deve essere "iss hgioman'zo con cui ti chonshgedi", come ha specificato Quello che Biascica.
 Da cosa dovrebbe prendere congedo, poi, l'autore? Dai fantasmi che lo tormentano? Dai suoi ricorrenti ricordi d'infanzia? Dall'immagine incombente dei suoi genitori? Dalla sua identità come l'ha costruita pubblicamente? O magari dalla vita stessa, come sinistramente pare suggerire qualche passaggio dei colloqui con gli "Accademici del sottosuolo"?
 Difficile stabilirlo una volta per tutte, perché la stesura di queste singolarissime memorie si trasforma presto in una sorta di partita a scacchi fra Michele Mari e i suoi misteriosi, esigentissimi persecutori, dove a ogni mossa corrisponde una parziale ridefinizione del tenore e degli scopi di uno scritto che tende sempre più ad assomigliare a un verbale, sulla base del quale pare quasi che si debba istruire un processo all'esistenza intima dello scrittore, in cui rientrano e su cui incidono allo stesso modo fattori di ordine psicologico, biologico, genealogico ed escatologico.
 Il sospetto che viene più volte avanzato è che il destino dello scrittore-protagonista-narratore preesistesse alla sua nascita; fin da quando il nonno paterno, Gino, rimasto orfano durante la Prima guerra mondiale, nel 1917 salì insieme al fratellino su un treno merci diretto dalla Puglia verso il Nord, giungendo a Milano e riuscendo a costruirsi eroicamente, giorno dopo giorno, col lavoro, un proprio piccolo meritatissimo benessere imperniato sull'apertura di una bottega da barbiere; fin da quando il padre Enzo riuscì a vincere una borsa di studio (l'unica disponibile per 500 candidati) entrando all'Accademia di Brera per frequentare un corso di disegno che poi l'avrebbe avviato alla brillantissima carriera che fece di lui il re del Design italiano.

 Michele Mari

 Proprio a Brera, Enzo Mari conobbe la madre di Michele, Gabriela detta Iela; di famiglia proletaria lui, di provenienza altoborghese lei, figlia di un medico amico di Montale, di Buzzati, di alcuni dei personaggi più in vista del mondo culturale italiano. Iela, amante della montagna, da giovane si dedicava all'alpinismo sulle Dolomiti proprio con Buzzati e col giovane Walter Bonatti. Legarsi a Enzo, per la ragazza, fu anche un modo per prendere ribellisticamente le distanze dal proprio mondo e dalle sue soffocanti convenzioni: i due frequentavano insieme il bar Jamaica, negli anni cinquanta ritrovo di un gruppo di artisti e intellettuali anticonformisti fra i quali, ad esempio, Jannacci.
 Dall'immagine di quella che uno psicoanalista definirebbe "scena primaria", e che per l'autore è semplicemente il raptus, il mostruoso amplesso fra i genitori che portò alla sua nascita, si snoda poi sotto il segno della diversità, dell'inadeguatezza e, in un certo senso, della violenza (soprattutto psicologica) la storia dell'infanzia, dell'adolescenza, e della giovinezza di Michele, che ebbero il loro luogo di elezione nell'avita casa di Nasca, nei pressi del lago Maggiore - dove pare che, nel cannocchiale narrativo, anche i convegni con i demoni abbiano luogo.
 A Nasca prese le mosse per la prima volta l'ambiguo, angoscioso, tortuoso svolgersi dell'attrazione per l'autore verso il sesso femminile, incarnato dalla camerierina di estrazione popolare di una trattoria del luogo, battezzata Loretta (Lori) dalla fantasia di Michele, e divenuta presto, con i suoi zoccoli, vero archetipo della tendenza feticistica all'abbassamento e alla sottomissione del protagonista-autore: quasi a volersi liberare dell'imperativo alla distinzione appreso in famiglia e dell'estremo rigore educativo del padre.
 Ma il simbolo più evidente dell'originarsi delle idiosincrasie e dei turbamenti di Michele per via parentale è l'incapacità del protagonista-autore di farsi scudo con i nomi (maschera verbale della persona) dalle oscure minacce portate alla propria identità (identità sociale, identità figliale, identità sessuale, ecc.): laddove il primo nome Michele finisce per richiamare i personaggini stilizzati disegnati per passatempo dalla madre Iela prima della sua nascita (i Michelini, in una lettera di Enzo); laddove il secondo nome Danilo sembra l'anagramma di una perentoria ingiunzione castratrice (Da Lì No). Laddove, ancora, dalle vaghezze della fantasia emerge uno strano, ambiguo soprannome - o terzo nome -, Gheri: forse il diminutivo di Margherita, nome autentico della supposta cameriera Loretta, assai più fine e "nobile" di quanto ipotizzato? O forse alter ego "culattina" dell'autore stesso, ipostasi della disapprovazione del padre per l'indole scarsamente volitiva di Michele?
 Come spesso accade nelle opere di Michele Mari, ogni cosa sembra richiamare il suo contrario, ogni cosa sembra fondersi col suo contrario, dando vita a un gorgo letterario di significati e di significanti di estrema densità.

Voto: 7,5       

venerdì 19 maggio 2017

Georges Simenon, "La casa dei Krull", Adelphi


 Spesso i romanzi di Simenon che esulano dalla serie dedicata al commissario Maigret, oltre a essere i più significativi dal punto di vista letterario, sono quelli che - pur imbevuti dell'intenso sentore della Francia di un tempo - conservano meglio un evidente tratto di modernità. Ne è un esempio perfetto Chez Krull (uscito una prima volta in Italia nel 1965 per i tipi di Mondadori con il titolo Casa Krull, e ora riproposto da Adelphi con il titolo La casa dei Krull), pubblicato dallo scrittore belga nel 1939, proprio alla vigilia della Seconda guerra mondiale.
 I Krull sono una famiglia di tedeschi naturalizzati francesi, e vivono da molti anni alla periferia della grande città nella quale si sono stabiliti, in quai Saint-Léonard, nei pressi di una chiusa sul canale che trasporta grandi chiatte cariche di legname e di altri materiali: il tram del servizio di trasporto pubblico urbano si spinge scampanellando proprio fino a lì, per poi tornare indietro.
 Al pian terreno della loro abitazione, i Krull gestiscono un emporio con annessa mescita per dare da bere ai marinai che si fermano alla chiusa; dietro al bancone, zia Maria si alterna con la figlia maggiore Anna - ormai trentenne -, mentre il padre Cornelius, silenzioso e solenne come una statua di San Giuseppe con la sua lunga barba, intreccia cesti di vimini con gesti lenti e precisi nel suo laboratorio da artigiano, in compagnia di un umile lavorante. L'altra figlia Elisabeth, di diciassette anni, passa lunghe ore a esercitarsi al pianoforte in soggiorno; invece Joseph, il figlio maschio, resta chiuso tutto il giorno nella sua stanza al piano superiore, impegnato nella stesura della tesi con la quale presto si laureerà in medicina.
 Così trova i suoi parenti il cugino Hans, quando giunge a casa loro proveniente dalla Germania, quasi senza conoscere il francese, portando con sé soltanto una lustra valigia in similpelle, e la sfacciataggine e la spregiudicatezza di un avventuriero. Hans non lo sa, ma il suo arrivo - per via di una serie di sfortunate coincidenze - contribuirà a spezzare per sempre la tranquillità e l'apparente serenità che regnano in quella casa e in quel piccolo negozio, scatenerà i fantasmi che albergano in seno alla famiglia e quelli annidati nelle pieghe di una società che guarda a chiunque sia straniero con sospetto preventivo, e sarà infine foriero di una terribile sventura per i Krull.

 Georges Simenon

 Hans, infatti, mente agli zii che lo ospitano riguardo alla sua condizione - dice di aver lasciato il Paese natale perché perseguitato per via delle sue idee politiche, mentre in realtà ha varcato la frontiera perché senza un soldo e senza prospettive -, e riguardo al suo stesso padre: il fratello di Cornelius, di cui il ragazzo porta con sé una falsa lettera di presentazione, è morto molti anni prima. Non si perita poi di sedurre la cugina Elisabeth, che ingenuamente si innamora di lui, rischiando di comprometterne irrimediabilmente il futuro. Soprattutto però, con la sua eccessiva disinvoltura e le sue "teutoniche bizzarrie", attira l'attenzione dei vicini sul resto della sua famiglia e sulle sue mai dimenticate origini straniere, scatenando i peggiori istinti xenofobi di chi è sempre alla ricerca di un comodo capro epiatorio su cui scaricare la responsabilità di qualsiasi disgrazia accada.
 Di conseguenza, quando nel canale viene ripescato il cadavere di Sidonie - la figlia adolescente di Pipì, un'ubriacona che vive lì vicino in un'imbarcazione mezza sfondata adagiata sul fondo fangoso del canale -, e dall'autopsia si scopre che la ragazza è stata violentata e poi strangolata, il malumore della gente del posto e dei marinai monta rapidamente in un cupo quanto immotivato risentimento nei confronti di coloro che più sentono estranei: i Krull. In particolare è su Joseph che si appuntano i sospetti di tutti, per via della sua indole introversa e del suo complicato rapporto con le donne.
 In una tremenda domenica, una folla si riunirà davanti alla casa dei Krull; e il tumulto si tradurrà in un assalto e in un vero e proprio tentativo di linciaggio nei confronti dei "tedeschi".
Il peggio verrà evitato solo grazie all'intervento della polizia, che fingerà di arrestare Joseph per placare gli animi dei più esagitati; ma l'apparentemente imperturbabile Cornelius non reggerà alla prostazione e alla vergogna e, senza dire nulla a nessuno, andrà a impiccarsi nel suo laboratorio.
 Il libro non è forse perfetto nello stile, così come nella definizione dei personaggi e dei quadri narrativi che si succedono, ma è costruito benissimo e a tratti è addirittura illuminante. La rabbia irrazionale della folla, per come viene descritta nel suo accumularsi e nel suo polarizzarsi, mostra plasticamente quanto sia facile e, nello stesso tempo, quanto sia imperdonabilmente stupido prendersela con il diverso solo in nome della sua diversità e della sua intrinseca fragilità: una lezione straordinariamente attuale nel 1939 (notevole, fra l'altro, il fatto che vi siano dei tedeschi dalla parte delle vittime), e invero assolutamente cogente ancora oggi.
 La morte del maturo capofamiglia, in questa fosca prospettiva, assume la drammaticità di un autentico sacrilegio: un sacrilegio contro la mitezza, l'innocenza e l'onestà. Tutte doti, queste, che Cornelius incarna icasticamente e che spiccano ancor di più per contrasto con la personalità di Hans - significativamente il vero protagonista del libro, e "l'occhio" attraverso il quale passa il punto di vista predominante nella narrazione -, che è una rappresentazione a tutto tondo della spregiudicatezza, dell'astuzia, dell'egoismo.

Voto: 7     

domenica 14 maggio 2017

Orna Donath, "Pentirsi di essere madri", Bollati Boringhieri


 Giuro che è del tutto casuale la coincidenza fra la decisione di recensire questo libro e la ricorrenza della Festa della mamma in questa domenica 14 maggio 2017.
 La sociologa Orna Donath che, come sottolinea lei stessa, è una "non madre" per scelta, propone uno studio molto ponderoso e articolato su donne che hanno vissuto (o stanno vivendo) l'esperienza della maternità con estrema sofferenza o addirittura con angoscia, come fosse un peso insostenibile, e sono - razionalmente e in piena consapevolezza - arrivate alla conclusione che, per loro, sarebbe stato meglio non avere figli. 
 Lo studio è condotto su donne di tutte le età e di tutte le classi sociali, con figli piccolissimi o già adulti (alcune già nonne), sole o con a fianco un compagno premuroso ed affettuoso, eterosessuali o (in pochi casi) omosessuali, dotate di diversi livelli di istruzione, residenti per lo più nello Stato di Israele, ma anche negli Stati Uniti o in Europa (per la precisione in Germania); tutte accomunate soltanto dalla decisione di estrinsecare un "posizionamento emotivo" (per usare le parole dell'autrice) che, a quasi tutte le latitudini, costituisce un tabù - tanto che proprio Sociologia di un tabù è il sottotitolo del libro.
 Secondo la Donath, infatti, tutte le società contemporanee, che siano tendenzialmente laiche o intrise di religiosità, sono caratterizzate da un atteggiamento acriticamente pronatalista: le donne vengono sempre e comunque, implicitamente o esplicitamente incoraggiate a fare figli, e la maternità è considerata la compiuta realizzazione dell'essere femminile (anche quando viene chiesto alle donne di conciliarla con il lavoro e la carriera); mentre le donne che non fanno figli sono viste, in un certo senso, come menomate nella loro femminilità. Il senso comune ritiene che il bilancio dell'essere madri - con tutte le difficoltà e con tutta la fatica che quest'avventura comporta - non possa che essere positivo, e le donne che esprimono valutazioni diverse o sentimenti che esulano dalla gioia, dalla soddisfazione e dall'orgoglio di essere diventate mamme finiscono per essere guardate con sospetto, o addirittura vengono giudicate delle madri "snaturate" o "degenerate". 
 L'autrice, in realtà, chiarisce molto bene come il pentimento delle numerose madri intervistate nulla ha a che fare con l'amore che si nutre per i figli: le donne prese in esame amano dichiaratamente i propri figli. Il desiderio di "tornare indietro", tuttavia, persiste nonostante questo amore, ed è sostenuto da una serie di considerazioni che rendono incontrovertibile il fatto che, con il senno di poi, esse non intraprenderebbero più il cammino percorso.
 Fra i fattori che contribuiscono a determinare il pentimento, molto più della fatica e del disagio materiale che spesso l'essere madri comporta, pare incidano il senso di spossessamento di sé, l'impressione di essere sovrastate da un compito che non avrà mai fine e di divenirne schiave, a volte la paura o la sensazione angosciosa di non riuscire a soddisfare in maniera adeguata le aspettative che "la società", "gli altri" riversano sulle donne che diventano mamme.

La sociologa Orna Donath

 Mi sono chiesto se sui risultati di questo studio abbia pesato il fatto di essere stato condotto quasi interamente in Israele, dove il tasso di natalità ammonta a quasi tre figli per donna, e dove - per varie ragioni di ordine politico, religioso, geografico e prettamente demografico - le donne sono generalmente incoraggiate a estrinsecare la propria fertilità molto più di quanto lo siano in Europa. Forse, in parte, è effettivamente così: in Europa - e nell'Europa cattolica in particolare - è contemplata l'idea che le donne possano realizzarsi pienamente anche senza diventare madri. E tuttavia anche da noi la mentalità dominante porta a censurare qualsiasi considerazione volta a esprimere un giudizio che non sia sostanzialmente positivo sull'esperienza della maternità.  
 Così, un libro come questo può forse risultare urtante per qualcuno. Al contrario, secondo me costituisce un contributo importante perché si possa parlare liberamente di una questione controversa e problematica, che come tutte le questioni controverse e problematiche merita di essere affrontata con una discussione seria, aperta e approfondita.
 A mio parere, indubbiamente, in una società che si dice civile, diventare madri non può essere per le donne un obbligo, nemmeno un obbligo morale; deve essere invece una scelta libera e il più possibile consapevole, che le donne dovrebbero essere messe nelle condizioni di compiere più serenamente possibile, eliminando ogni ostacolo materiale alla realizzazione di un progetto come quello di mettere al mondo e di crescere un figlio, che da molte può essere sentito come una vocazione - e che per molti versi costituisce uno splendido gesto di generosità -, ma contemporaneamente senza imporre uno stigma a coloro che per la maternità non si sentono portate.
 In fondo, non occorre essere dei fiancheggiatori del femminismo più incallito per arrivare a capire e ad accettare che ogni donna è una persona dotata di una sua proteiforme complessità e custode esclusiva della propria libertà, e non invece un semplice incubatore di nuovi cuccioli d'uomo.

Voto: 6 +

domenica 7 maggio 2017

Alberto Negri, "Il musulmano errante", Rosenberg & Sellier


 Quando si parla della guerra in Siria, spesso, si fa riferimento ad essa come una sorta di guerra mondiale in miniatura. La definizione è quantomai banale; dal secondo dopoguerra in avanti, infatti, quasi tutti i conflitti locali con implicazioni sovraregionali sono stati, in un certo senso, delle guerre mondiali in miniatura.
 Io preferisco paragonare quello che sta avvenendo negli ultimi anni in Medio Oriente a ciò che accadde in Europa nella prima metà del XVII secolo. La guerra siriana, per me, è il perfetto corrispettivo contemporaneo di quella che fu nel Seicento la terribile Guerra dei Trent'anni: uno scontro di violenza inaudita, causato da un complesso intreccio di ragioni di ordine religioso, economico, ideologico, etnico e geopolitico difficilmente distinguibili le une dalle altre, con una serie di contendenti animati da tensioni e da scopi diversi, capaci di volta in volta di stipulare fra loro alleanze, o di romperle subitamente senza motivazioni del tutto comprensibili; e con la popolazione civile a subire le peggiori conseguenze della situazione.
 Questo saggio non troppo ordinato ma assai informato di Alberto Negri (uno dei maggiori esperti di politica internazionale, e di Medio Oriente in particolare) risulta preziosissimo per acquisire le basi che servono per cercare di interpretare le dinamiche della guerra in atto, almeno nei suoi principali lineamenti, lasciando definitivamente da parte le sciocche equazioni giornalistiche che tendono a equiparare tutte le numerose versioni dell'Islam, vedendo in esse solo l'innesco potenziale del fondamentalismo religioso e quindi, sempre e comunque, del terrorismo (un modo di leggere la realtà equivalente a quello di coloro che, a parti rovesciate, vedono negli occidentali soltanto dei "crociati"...).
 Innanzitutto Negri mette a fuoco un particolare che a molti sfugge: in Siria, con la dinastia degli al-Asad, sono al potere da quasi cinquant'anni gli alauiti, una setta la cui stessa appartenenza all'Islam è assai controversa dal punto di vista teologico. Essi danno vita a una religione misterica, i cui principi erano originariamente noti solo a pochi eletti, e professano credenze del tutto estranee all'Islam "ortodosso", come quella della metempsicosi (la trasmigrazione delle anime da un essere vivente all'altro attraverso la reincarnazione), che secondo alcuni costituirebbero delle vere e proprie eresie.
 Gli alauiti discendono da quelli che un tempo venivano chiamati nusayriti (dal fondatore Muhammad Ibn Nusayr, vissuto nel IX secolo), e sono una delle ultime sette dei Ghulat, i miscredenti musulmani che attribuivano ad Alì, cugino e genero di  Maometto, una natura divina, superiore a quella del Profeta medesimo.

Alberto Negri

 Vissuti sempre ai margini dell'Islam e relegati ai gradini più bassi della scala sociale, gli alauiti devono la propria fortuna, da una parte, al ruolo da essi rocambolescamente assunto nell'esercito all'epoca della decolonizzazione del territorio siriano, dall'altra al riconoscimento della legittimità del loro credo da parte degli ayatollah sciiti iraniani (in particolare di Musa Al-Sadr), che all'inizio degli anni settanta del Novecento (prima ancora della rivoluzione che li portò al potere nel proprio Paese) ammisero l'alauitismo nel novero delle varianti praticabili dell'Islam sciita.
 Da qui discendono le storiche ragioni dell'alleanza della Siria guidata dagli al-Asad sia con la Repubblica Islamica dell'Iran sia con il gruppo degli sciiti libanesi di Hezbollah; e così, naturalmente, si spiega anche la tradizionale inimicizia siriana con gli altri Paesi arabi a netta maggioranza sunnita, dall'Arabia Saudita, alla Libia, dalla Turchia all'Egitto (i sunniti non hanno mai smesso di considerare gli alauiti, in un certo senso, degli eretici).
 Il saggio di Negri procede per incursioni e approfondimenti che portano il lettore a conoscere particolari e personaggi poco noti del mondo islamico, come quando gli alauiti vengono accostati per alcuni versi alla minoranza turca degli aleviti, che non frequentano le moschee, non velano le donne, hanno riti propri e incarnano una versione dell'Islam molto più tollerante di quelle più diffuse e conosciute; o come quando vengono ricostruite le storie di Husayn al-Khasibi - colui che nel X secolo codificò i precetti "segreti" degli alauiti, e che ancora oggi riposa in una tomba presente all'interno della fortezza di Aleppo -, e di Soleyman Effendi, il "rinnegato" grazie all'opera del quale molti dei "misteri" degli alauiti sono venuti a conoscenza - a partire dalla fine dell'Ottocento - degli studiosi occidentali di storia delle religioni.
 Il pregio maggiore di questo libro è quello di stimolare nel lettore la curiosità di precisare meglio una realtà culturale con la quale - volenti o nolenti - abbiamo a che fare, ma che spesso tendiamo a scostare, o a giudicare inopportunamente attraverso generalizzazioni o sommari luoghi comuni.

Voto: 7   

lunedì 1 maggio 2017

John Cheever, "Il nuotatore", Feltrinelli


 Un uomo, oziosamente sdraiato in costume da bagno con un drink in mano ai bordi di una bella piscina, nel giardino della villa di alcuni amici, concepisce un progetto bizzarro: tornare a casa attraversando a piedi le eleganti proprietà di tutti i suoi conoscenti, e a nuoto tutte le loro piscine.
 Neddy Merrill, con il suo disimpegnato cimento, vuole forse dimostrare a se stesso che nel suo mondo, il mondo wasp della comunità altoborghese e benestante di Bullett Park, non esistono smagliature.
 Ma qualcosa non funziona: nuotata dopo nuotata, piscina dopo piscina, mano a mano che scende la sera, scopriamo che in realtà uno strappo irreparabile si è creato tra Neddy e quel mondo, che la sua famiglia è finita in bancarotta, che egli non è più ospite gradito nelle belle ville con piscina, ma viene ormai considerato un intruso, e che la sua comunità lo ha escluso senza appello.

John Cheever

 L'unità narrativa si palesa così essere il frutto di un sorprendente corto circuito temporale: ciò che nella mente di Neddy si concentra nello spazio di un pomeriggio, nella realtà abbraccia avvenimenti che si svolgono nell'arco di mesi; una bravata immaginata in un giorno d'estate - e forse mai realizzata - prende paradossalmente corpo in autunno inoltrato, nella pretesa di riaffermare un'impossibile continuità materiale ed emotiva da parte di un uomo abbandonato alla deriva da una società che egli credeva fondata sull'amicizia, ma che è basata soltanto sul denaro.

Voto: 8