giovedì 29 giugno 2017

Roberto Bolano, "Il gaucho insopportabile", Adelphi


 Il gaucho insopportabile consta di cinque racconti e di due brevi saggi, ed è l'ultimo libro confezionato in vita da Roberto Bolano (anche se venne pubblicato solo dopo la sua morte). La malattia e l'ansia della fine, una costante sensazione di straniamento, il tentativo di esorcizzare la paura attraverso l'ironia sono le caratteristiche e i temi dominanti di questa raccolta.
 Il primo, breve racconto, Jim, ha come protagonista un "nordamericano triste", una poetica figura di bizzarro vagabondo che sembra sempre in attesa dell'epifania di una misteriosa verità.
 Il secondo racconto, Il gaucho insopportabile, che dà il titolo all'intera raccolta, parla di Héctor Pereda, un anziano avvocato di Buenos Aires che, arrivato all'età della pensione, dopo la morte della moglie e il fallimento dello Stato argentino, si trasferisce nella Pampa, in una malandata fattoria di sua proprietà, e comincia a vestire, a vivere e a comportarsi come un vecchio gaucho, muovendosi sempre a cavallo: si costruisce, in pratica, una sorta di nuova identità, tanto da arrivare a percepire come estraneo tutto quello che un tempo gli era così famigliare.
 Il poliziotto dei topi, invece, ha come protagonista José detto Pepe el Tira, singolare figura di topo-sbirro in una comunità di roditori dotati di coscienza antropomorfa, che vive nelle fogne di una grande città. Pepe è presentato come il nipote di Josephine la Cantante, il personaggio creato da Kafka in un suo famoso racconto scritto negli ultimissimi mesi di vita; se la Josephine kafkiana era simbolo dell'arte e della capacità dell'arte di dare valore e dignità alla vita del singolo individuo al di là delle circostanze collettivamente determinate in cui essa si svolge, e al di sopra dell'utilitarismo materialistico che spesso la domina, Pepe el Tira coglie, grazie alla sua professione, il lato oscuro dell'individualismo: abituato a imbattersi nei cadaveri di roditori caduti nelle grinfie di grossi predatori o vittime di tragici incidenti, Pepe scopre con sorpresa e orrore che esistono topi che uccidono altri topi senza che vi sia un motivo particolare, soltanto per una terribile ansia di autoaffermazione sui propri simili. La scoperta getta un'ombra oscura sui topi - e sugli uomini di cui sono il simbolo, naturalmente -, e mette in dubbio l'idea che essi possano in qualche modo elevarsi davvero dalla volgarità di base della loro condizione esistenziale.

 Roberto Bolano

  Il viaggio di Alvaro Rousselot è forse lo scritto in cui meglio si riconosce il tipico stile di Bolano, ed è centrato sul personaggio di uno scrittore argentino di discreto successo - Alvaro Rousselot - che si accorge con sommo disagio che esiste un regista cinematografico francese, tale Guy Morini, che nelle sue opere misteriosamente trasfigura i soggetti e i temi di Rousselot non solo senza dichiararlo, ma anche senza avere avuto apparentemente alcun contatto con i libri di quest'ultimo. Durante un suo viaggio in Francia, Rousselot si mette febbrilmente sulle tracce di Morini: la ricerca di quello che percepisce sempre di più come un vero e proprio alter ego lo condurrà a disfarsi di tutte le sue false convinzioni e persino a rinnegare l'artefatta personalità che, senza rendersene bene conto, negli anni, aveva costruito intorno al suo ego autentico; alla fine si innamorerà di una prostituta, trovando nel suo amore una pace disperata.
 Due racconti cattolici è uno scritto bipartito, costituito da due storie diverse accomunate dalla presenza di personaggi deliranti, che vivono la propria fede con rassegnata angoscia o con allucinato fatalismo.
 Infine, dei due saggi in chiusura, pensati per le ultime conferenze tenute dall'autore in vita, quello di maggiore spessore è sicuramente il primo, che tratta del rapporto tra Malattia e Letteratura e, passando per Baudelaire, Rimbaud, Lautreamont, Mallarmé e Kafka, argomenta su come il viaggio, il sesso e i libri, sebbene forse non abbiano alcun senso e non portino da nessuna parte, siano l'unica arma da opporre al fondamentale "male di vivere", e rappresentino l'unica via per provare a trovare qualcosa in cui possa magari conservarsi il valore - qualunque esso sia - della nostra transeunte esistenza.
 Il secondo, intitolato I miti di Cthulhu, è un ironico excursus sulla letteratura spagnola in cui, fra il tentativo di definire e ridefinire continuamente un pantheon di grandi autori di riferimento, e l'ambizione spasmodica degli scrittori emergenti, si è affermato un modus operandi dove alla ricerca della verità si è sostituita la ricerca della rispettabilità. 
 Nel complesso si può dire che, leggendo questo libro, ci si rende perfettamente conto di essere di fronte a un intellettuale di eccezionale levatura e a uno scrittore di prima grandezza, anche se forse non si trova qui la maggior parte delle sue pagine più incisive o più emozionanti. Fa impressione pensare che, mentre completava questa raccolta (dal sapore davvero "definitivo"), Bolano sapesse perfettamente di avere poche settimane di vita davanti a sé.

Voto: 7      

lunedì 19 giugno 2017

Mohsin Hamid, "Exit West", Einaudi


 Già autore di quel libro magistrale che è Il fondamentalista riluttante, Mohsin Hamid propone questa volta una sorta di fantaromanzo d'attualità che, con mossa paradossale, spoglia la vicenda raccontata (per il resto perfettamente incastonata nella concretezza della cronaca quotidiana) di molti dei più puntuali riferimenti storico-geografici, per proiettarla idealmente su uno sfondo universale ed extratemporale.
 Protagonisti della storia sono Saeed e Nadia, due giovani istruiti, di estrazione medio-borghese, che vivono e si incontrano in una città mediorientale (o forse orientale tout court) attraversata da pericolose tensioni sociali e interreligiose, che la spingono costantemente sull'orlo del baratro della guerra civile: potremmo essere allo stesso modo a Damasco, ad Aleppo, a Beirut, a Tripoli, a Kabul, o a Lahore.
 Lui è figlio di due insegnanti moderatamente progressisti, è appassionato di astronomia, lavora per un'agenzia pubblicitaria, porta una barba non troppo folta, prega regolarmente come gli hanno insegnato i genitori, ma è aperto alla modernità e ben disposto verso il mondo. Lei porta una lunga tunica nera che la copre dalla gola fino alla punta dai piedi, ma lo fa solo per nascondere la sua indole anticonformista e la sua fiera indipendenza, mimetizzandosi al meglio in un ambiente in cui molti non vedono di buon occhio una donna autonoma e ribelle; non ha l'abitudine di pregare e, appena ha potuto, ha abbandonato la sua famiglia d'origine, di tendenze tradizionaliste, per andare a vivere da sola in un monolocale, mantenendosi con il suo lavoro presso una compagnia assicurativa.
 Saeed e Nadia approfondiscono la loro conoscenza, si piacciono e cominciano a frequentarsi proprio mentre la loro città scivola inesorabilmente verso la tragedia: le milizie radicali da tempo attive nel loro Paese, infatti, procedendo quartiere dopo quartiere, conquistano sempre più terreno, arrivano a controllare interi settori dello spazio urbano imponendovi la propria mentalità e le proprie leggi, e spazzano via la libertà di vivere ciascuno a modo proprio.
 A poco a poco muoversi per le strade diventa più pericoloso, più difficile comunicare a distanza, e l'idea stessa della "normalità" viene erosa fino a essere trasformata in un inutile guscio vuoto. Lavorare non è più possibile, fra gli agguati, le sparatorie, le bombe: sia l'agenzia pubblicitaria di Saeed sia la compagnia assicurativa di Nadia, improvvisamente, chiudono. Chi si affaccia alle finestre dei palazzi, ora, lo fa a rischio della vita. E un giorno accade che la madre di Saeed venga uccisa da una pallottola vagante, mentre si trova sulla sua auto, china a cercare qualcosa che è rotolato sotto al sedile.
 Nadia si trasferisce allora a casa del fidanzato, a cercare di confortare la sua famiglia menomata; ma, quasi da subito, fuggire da lì diviene il pensiero dominante dei due ragazzi, perché tutto appare ormai impossibile, perché l'idea stessa del futuro è difficile da concepire: e allora l'imperativo diventa uscire da quella prigione in cui la loro patria si è trasformata. D'altra parte, di tanto in tanto, anche in una città come quella, vi sono delle porte segrete che in maniera inattesa si aprono a consentire un'uscita verso altri mondi, verso quei veri e propri universi paralleli che ai loro occhi appaiono i Paesi in cui non infuria la guerra, e dove persino il tempo sembra scorrere diversamente: delle Exit West, dei passaggi verso l'Occidente.

 Mohsin Hamid

 Una di queste porte viene imboccata da Nadia e Saeed, che nell'intraprendere il loro viaggio che non contempla un ritorno si lasciano dietro tutto quello che hanno avuto e che sono stati fino a quel momento: le loro case, le loro cose, i loro amici, il padre di Saeed. Così, come d'improvviso, come per effetto di un rude teletrasporto, si ritrovano sull'isola greca di Mykonos, fra altri migranti, fra genti di tutte le etnie che parlano tutte le lingue.
 Ma Mykonos è solo una stazione di transito; ben presto un'altra porta si apre, e i due ragazzi si ritrovano a Londra; una Londra per certi versi assai simile alla metropoli internazionale che ben conosciamo, per altri versi assimilabile a una babele postapocalittica, divisa in quartieri in cui si affrontano - gli uni contro gli altri armati - migranti di tutte le nazionalità e quei "nativisti" che hanno concepito verso di loro un odio viscerale e implacabile.
 A Londra Nadia e Saeed vivono in un caseggiato abitato per lo più da nigeriani, dove il giovane più della sua compagna non riesce mai a sentirsi realmente a proprio agio. Le circostanze mutate, fra l'altro, paiono scavare un solco sempre più profondo fra i due ragazzi, che faticano a ritrovare l'antico interesse l'uno per l'altra, e a rinfocolare la potente corrente erotica che un tempo li attraeva vicendevolmente; anche quando si trasferiscono in un quartiere periferico, si mettono a lavorare con altri migranti per un'impresa di costruzioni, e tornano a dare un senso compiuto allo scorrere delle giornate, la freddezza fra di loro persiste.
 L'ultima scossa a tutto quello che sono stati in quanto coppia la ricevono in seguito all'ultimo trasferimento, quando una nuova porta si apre in maniera inattesa e li trasporta oltreoceano, in California. Qui comincia davvero una nuova vita per Nadia e Saeed, che ben presto non è più la vita insieme che avevano immaginato al momento della fuga dalla loro patria: lei, infatti, si innamora di una donna, la cuoca della cooperativa alimentare presso cui si è messa a lavorare; lui invece intreccia una relazione con la figlia del predicatore della piccola comunità religiosa a cui si è accostato. E la nuova situazione in cui si trovano finisce per dividerli definitivamente.
 Nell'ultimo capitolo del romanzo, in un'immaginifica proiezione verso un futuro ipotetico, Saeed e Nadia si ritrovano: è passato mezzo secolo dalla loro fuga, e tutti e due sono tornati nella loro città, finalmente in pace. Lei è una donna anziana con una tunica nera, lui un uomo anziano con la barbetta; bevono insieme un caffè seduti al tavolino di un locale all'aperto, e ripercorrono il tragitto delle loro vite separate. Poi ricordano un loro vecchio sogno, quello di contemplare insieme le stelle nei deserti del Cile; ancora piacerebbe a entrambi poter dar corpo, una sera, a quel desiderio. Ma infine si separano abbracciandosi, "senza sapere se quella sera sarebbe mai venuta".
 Il libro di Hamid ha uno spessore realistico e uno spessore simbolico, e su tutte e due i versanti offre una vivida rappresentazione e una efficace chiave interpretativa di un mondo turbolento e tormentato, percorso da tempestose correnti che trascinano gli uomini come naufraghi, e li separano, e li mescolano, e li perdono, senza riguardo alcuno per i loro pensieri, le loro opinioni, le loro aspirazioni, e le legittime speranze che nutrono per il domani. Per questo, soprattutto in alcuni passaggi, il racconto riesce a far vibrare le corde profonde della sensibilità del lettore.
 Ma ad un'analisi più attenta, l'architettura diegetica appare meno equilibrata e il piglio narrativo meno graffiante di quelli delle opere migliori di questo autore: i protagonisti Saeed e Nadia non riescono mai a trasformarsi nei personaggi archetipici che si vorrebbe che fossero; i dodici, misurati capitoli che si susseguono con cadenza regolare (secondo quella lineare concezione della scansione narrativa che avevo tanto ammirato nel Fondamentalista riluttante) non risultano lapidari come pretenderebbero di diventare; e anche gli spunti più interessanti proposti dalla storia rimangono sospesi in una parziale indeterminatezza che non convince fino in fondo.
 A conti fatti, questa volta lo scrittore anglo-pakistano si ferma decisamente a qualche passo di troppo dall'eccellenza.

Voto: 6,5     

lunedì 12 giugno 2017

Rory Steele, "Il cuore e l'abisso. La vita di Felice Benuzzi", Alpine Studio


 Curiosamente siamo di fronte a un libro sulla vita di un diplomatico, scritto da un diplomatico, con la prefazione di un altro diplomatico. Si tratta della biografia di Felice Benuzzi, l'autore del celebre Fuga sul Kenya (nella versione inglese, di pugno dello stesso Benuzzi, il titolo è No picnic on Mount Kenya) - uno dei classici della letteratura di montagna -, che racconta la spettacolare evasione compiuta dal protagonista-narratore nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale, dal campo di prigionia inglese di Nanyuki, al solo scopo di scalare la seconda montagna più alta dell'Africa.
 Benuzzi scappò dal campo di concentramento insieme a due compagni, Enzo Barsotti e Giuan Balletto e, in diciassette giorni, dopo una pericolosa marcia di avvicinamento all'interno di una foresta popolata da belve feroci, con provviste scarsissime e attrezzature di fortuna, diede l'assalto al Monte Kenya. Respinti dal picco Batian - la cima principale della montagna - Felice e Giuan (alpinisti più esperti di Enzo, che li aspettava al campo base) decisero di puntare al picco Lenana, sul quale piantarono finalmente un tricolore italiano fatto di stracci cuciti insieme. Portato a termine il compito che si erano prefissi, i tre compagni tornarono al campo di prigionia, vi rientrarono di nascosto e, dopo un breve sonno ristoratore, si presentarono a rapporto nella baracca dell'esterrefatto comandante.
 L'impresa ebbe vastissima eco sia sulla stampa italiana sia su quella inglese: non si trattava banalmente di un "bel gesto", declinato in chiave nazionalista a beneficio del fascismo agonizzante, bensì della dimostrazione di una irriducibile voglia di libertà attraverso l'amore per la montagna vissuto con disinvolta sportività. Tanto che la valenza universale (e intrinsecamente antifascista) di quella scalata è stato ben compreso anche da due autori ideologicamente lontanissimi dalla retorica del ventennio, come Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, che pochi anni fa hanno dedicato a questa storia una loro documentatissima opera, Point Lenana.
 Il cuore e l'abisso, a differenza di quel testo, nonostante dedichi il giusto spazio alla fuga sul Kenya, ha l'ambizione di soffermarsi sulla vita di Benuzzi nel suo complesso: dall'origine da una famiglia di Dro, in Trentino (villaggio che, quando Felice nacque, nel 1910, faceva ancora parte dell'Impero Austro-Ungarico), che un piede in Austria lo tenne sempre, sebbene si sentisse profondamente italiana (la madre di Felice era di nascita austriaca, e lui era perfettamente bilingue, parlando il tedesco bene come l'italiano); al trasferimento a Trieste alla fine della Grande guerra; all'adolescenza triestina vissuta proprio negli anni in cui il fascismo conquistava le menti e i cuori degli italiani e, nella sua città, "si respirava con l'aria". Fu in quel periodo che Felice Benuzzi si innamorò della montagna, durante le escursioni compiute sulle Alpi Giulie; numi tutelari della sua passione furono Emilio Comici e, più ancora, Julius Kugy.

Felice Benuzzi intorno ai quarant'anni

 Quella per l'alpinismo non fu però da subito una passione totalizzante, dato che a Trieste ugualmente forte era il richiamo del mare: il giovane Felice sognava di entrare a far parte dell'Accademia Navale di Livorno e, un giorno, di imbarcarsi. Ma le cose andarono diversamente da quanto previsto: scartato dall'Accademia Navale a causa delle troppe otturazioni dentarie, e impedito anche a entrare negli Alpini per via della statura eccessiva, Benuzzi si vide portato dal servizio militare in Fanteria a Roma, dove fu promosso sottotenente.
 A Roma Felice frequentò l'Università, si distinse nello sport (in particolare nel nuoto) e, soprattutto, incontrò Stefania Marx, una giovane ebrea tedesca destinata a diventare sua moglie. Felice e Stefania si sposarono proprio alla vigilia dell'entrata in vigore delle Leggi Razziali e, forse per sfuggire all'atmosfera divenuta irrespirabile per gli ebrei in Italia, Benuzzi decise di entrare a far parte del Servizio Coloniale trasferendosi nell'Etiopia appena ricompresa nell'"Impero". Prima a Dire Daua e poi ad Addis Abbeba, il giovane ufficiale si distinse per la sua precisione e affidabilità.
 Fu proprio nella capitale etiope che lo colse lo scoppio della guerra. Il seguito di quella fase è noto: la prigionia, la separazione dalla moglie Stefania e dalla figlioletta Daniela nata da poco, il trasferimento in Kenya, la fuga, la scalata, l'impresa che fece circolare il suo nome non solo negli ambienti alpinistici.

Rory Steele, ex ambasciatore australiano a Roma

 Dopo la guerra, col rientro in Italia, Benuzzi, nonostante l'età non più verdissima, provò a intraprendere una nuova carriera, quella diplomatica. La perfetta conoscenza di diverse lingue, le note di servizio sempre impeccabili, la piccola notorietà regalatagli dalla sua fuga e dal libro che la raccontava, un'affabilità e uno stile da perfetto gentiluomo furono i fattori che lo aiutarono nella sua nuova avventura. Per Felice e per sua moglie cominciò allora una vita affascinante, sempre in giro per il mondo, a occuparsi di questioni interessanti e talvolta anche piuttosto delicate: prima in Australia, a Brisbane (come vice-console), in una terra meta dell'emigrazione di parecchi italiani, poi a Karachi, in Pakistan, poi di nuovo in Australia. In seguito venne il ritorno in patria, affinché si potesse fare carico (grazie soprattutto alla sua conoscenza della lingua tedesca e delle terre austriache) della rovente questione dell'Alto Adige, percorso allora da pericolosissime tensioni interetniche.
 Fu anche grazie al buon lavoro svolto in Alto Adige che Benuzzi fu promosso e, nel 1963, in piena Guerra Fredda, ricevette l'incarico di Console Generale a Berlino Ovest. Berlino era la città d'origine di Stefania; così, anche se in quegli anni, vi ci si stava quasi come in una prigione, i Benuzzi trovarono gli anni berlinesi abbastanza gradevoli; più anonima e scostante parve loro Parigi, dove Felice fu trasferito nel 1969.
 Alcuni anni più tardi, il passaggio in America Latina (a Montevideo, in Uruguay) segnerà il balzo decisivo nella carriera di Benuzzi, finalmente promosso ambasciatore. L'ultimo importante servizio svolto da lui per l'Italia riguardò le trattative che coinvolsero il nostro Paese nella ricognizione scientifico-mineraria delle terre antartiche.
 Ormai ritiratosi dal servizio attivo negli anni ottanta, Felice morì per un improvviso attacco di cuore nel 1988, nella sua storica casa di Roma. L'eredità che il suo ricordo lascia a chi meglio lo conobbe è costituita dall'invito a dar seguito all'inestinguibile anelito che ci spinge a elevarci oltre tutto ciò che quotidianamente prostra e avvilisce il nostro spirito; un anelito  perfettamente esemplificato dalla sua impresa sul Monte Kenya.
 Il libro di Rory Steele è interessante, documentato, ordinato e ben scritto. Se devo dire la verità, però, non riesce a infiammare il lettore che porta nella memoria la gratificante esperienza costituita in precedenza dalla lettura sia di Fuga sul Kenya sia di Point Lenana.

Voto: 6     

domenica 4 giugno 2017

Chimamanda Ngozi Adichie, "Metà di un sole giallo", Einaudi


 Poco tempo fa leggevo che la nazionalità più rappresentata fra i richiedenti asilo sbarcati in Italia nell'ultimo anno è di gran lunga quella nigeriana. Credo che la maggior parte degli italiani, sebbene abbia quasi certamente sentito parlare di quella particolare declinazione dell'estremismo islamico radicata nell'Africa Nera che è Boko Haram, poco sappia della realtà dalla quale scappano i profughi che vengono da noi. 
 Può aiutare forse a chiarirsi le idee sul contesto nel quale i conflitti di oggi sono calati questo grandioso romanzo di alcuni anni fa, che ricostruisce con abbagliante realismo, attraverso le vicende dei suoi personaggi, la storia di una delle guerre più gravi che l’Africa conobbe nella seconda metà del Novecento: la guerra civile nigeriana.
 In un paese ancora giovane e tremendamente instabile, giunto all’indipendenza dai colonialisti britannici da meno di un decennio, a partire dal 1967 si fronteggiarono ferocemente le truppe del generale golpista Gowon – a maggioranza hausa e prevalentemente di religione musulmana – e quelle dello stato secessionista del Biafra, costituitosi nel sudest della Nigeria sulla base dell’etnia degli igbo, di religione cristiana e caratterizzato da una bandiera rosso-nero-verde su cui compariva la metà di un sole giallo. Il sogno del Biafra durò poco, e nonostante la strenua resistenza dei secessionisti l’avanzata dell’esercito di Gowon fu inesorabile e devastante, e indicibili le sofferenze della popolazione biafrana.
 La guerra e gli eventi che la prepararono fanno da sfondo e da filo conduttore al corso della vita dei magnifici personaggi che Chimamanda Adichie riesce a creare: il matematico rivoluzionario Odenigbo, espressione di quella classe intellettuale che sostenne con forza il progetto dello stato del Biafra, il cui nobile ardore e la cui sicurezza saranno annientati dalle perdite e dalle umiliazioni che sarà costretto a subire; la bellissima Olanna, moglie di Odenigbo, trasformata e indurita dall’orrore e dal dolore; sua sorella Kainene, che conserverà fino alla fine il suo pragmatismo e la sua indole ironica, ma non sarà risparmiata dal conflitto; l’amante bianco di Kainene, Richard Churchill, innamorato perdutamente della sua donna, dell’Africa, della cultura igbo; il giovane domestico di Odenigbo e Olanna, Ugwu, forse il vero protagonista del libro, che cresce proprio negli anni della guerra trasformandosi da ingenuo ragazzino originario di un villaggio rurale in un uomo fatto, serio consapevole e triste. E poi i moltissimi personaggi minori, tutti deliziosamente disegnati con spiccati accenti di verità.

Chimamanda Ngozi Adichie

 Non è un caso infatti che questo sia un libro senza eroi, perché anche i personaggi più positivi, nella loro profonda umanità, a contatto con la cruda realtà della guerra palesano i propri limiti, i propri difetti, e si macchiano delle colpe più gravi. Del resto, delle atrocità della guerra, nulla viene risparmiato al lettore: dal terrore che seminano i bombardamenti alla crudeltà gratuita verso i bimbi, dalla gente che muore di fame alle donne violentate dalla soldataglia, dal linciaggio dei sospetti “sabotatori” agli assurdi ed esorbitanti privilegi di cui gode la casta degli ufficiali dell’esercito, dall’ottusità della propaganda bellica al triste fenomeno dei bambini-soldato.
 Di fronte a tante vite sconvolte e distrutte, e a un intero popolo ridotto alla fame, il respiro epico del romanzo assume prima i toni drammatici della tragedia, poi quelli sommessi dell’elegia. Tuttavia non c’è mai affettazione o esibizionismo letterario nello stile della Adichie; ella sceglie invece di prendere in considerazione umilmente il punto di vista di ciascun personaggio, che ha una visione limitata della realtà e può esprimere giudizi solo dalla particolare angolatura dello spicchio di mondo che conosce. Il dramma che viene messo in scena, così, è valutato con gli occhi del contadino superstizioso, che attribuisce agli spiriti maligni la colpa delle proprie sofferenze, e con quelli del professore universitario, che conosce i giochi sporchi della politica internazionale; con gli occhi consapevoli di Kainene, che sa quali motivazioni economiche stanno dietro lo scontro tra Nigeria e Biafra, e con quelli di Eberechi, che bada solo al suo immediato benessere e non esita a donarsi al primo ufficiale che la guarda con interesse. Il mosaico che infine si compone ritrae con straordinaria chiarezza l’abisso senza fine che la bestialità e la violenza sistematica della guerra sempre comportano.
 Per sottolineare queste cose l’autrice alterna con sapienza i piani temporali, permettendo il confronto tra l’entusiasmo che animava la Nigeria nei primi anni sessanta, subito dopo la conquista dell’indipendenza, e il clima cupo della fine del decennio, quando la tensione monta fino a provocare lo scoppio del conflitto. Da questo confronto scaturisce anche un’analisi implicita delle molte responsabilità che portarono i nigeriani a impugnare le armi gli uni contro gli altri: il colpevole opportunismo dei britannici e delle altre potenze europee, che tentarono di sfruttare a proprio vantaggio le ataviche divisioni etniche e tribali fra i cittadini della neonata Nigeria; l’immaturità politica e la corruzione dei notabili locali; l’inesperienza e l’inettitudine della nuova classe dirigente e dell’intellighenzia nigeriana; il razzismo dei nigeriani stessi, pronti a spartirsi il potere sulla base dell’omogeneità dei gruppi etnici.
 Tutto ciò fa di Metà di un sole giallo un'opera di grande spessore, degna di essere collocata tranquillamente accanto ai più grandi romanzi prodotti dalla letteratura africana e, più in generale, alle opere migliori della letteratura contemporanea in lingua inglese.

voto: 9