martedì 29 agosto 2017

Giana Marina Petronio Andreatta, "E' stata tutta luce", Bompiani


  Come spiega l'autrice nell'introduzione, questo è un libro di memorie; per la precisione, si dovrebbe collocare all'intersezione fra quelle che gli inglesi chiamano trash memories (ovvero memorie di fatti minuti e quotidiani, che scorrono accanto ai grandi eventi della Storia) e le rising memories, riguardanti il riemergere di ricordi di fatti temporaneamente dimenticati ma non del tutto tramontati, soltanto annidati da anni in qualche remota regione del nostro inconscio.
 In realtà, nel fluire della narrazione, diventa difficile sia distinguere un primo e un secondo piano nei livelli di coscienza dei ricordi, sia definire una gerarchia che decreti l'ordine di importanza degli eventi raccontati, perché, nella lunga vita in comune di Giana Marina e di Nino Andreatta, ragione e sentimento, sostanza e apparenza, pubblico e privato tendono a intrecciarsi e a convivere delineando la storia del loro matrimonio.
 Piuttosto, in questa storia, sono inevitabilmente ben chiari due tempi, un prima e un dopo, separati dalla terribile cesura rappresentata dall'ischemia del 15 dicembre 1999 che ridusse Andreatta al coma profondo per anni, fino alla sua morte biologica (avvenuta nel marzo del 2007). I due tempi non scandiscono due momenti successivi della narrazione - che anziché seguire un ordine cronologico privilegia "l'ordine interiore dei sentimenti" -, ma definiscono due periodi esistenziali, quelli che per l'autrice sono il tempo della gioia e il tempo della gratitudine, a cui alternativamente si ritorna per ricostruire, perfino dietro il velo opaco e avvilente del dolore, la fitta trama di un amore. Perché in quell'amore, così come nella vita di Andreatta, agli occhi di sua moglie, non c'è stato - per usare le parole di Ada Gobetti a proposito di Piero - "nulla di laido di imperfetto di malsicuro. E' stata tutta luce...".
 Giana Marina Petronio e Beniamino (detto Nino) Andreatta si conobbero all'Università Cattolica di Milano nel 1957. Lei era una studentessa diciannovenne di buona famiglia e di origine triestina, lui - di dieci anni più grande - un giovane, brillante assistente del professor Francesco Vito alla Facoltà di Economia: un bel ragazzo alto di origine trentina, figlio di un ricco banchiere, "dagli occhi giotteschi" e dal luminoso avvenire.
 Il corteggiamento fra i due fu lungo, discreto, timido, quasi reticente: una teoria di inviti a teatro, uscite a cena, viaggi di lavoro, sempre in compagnia di qualcun altro, sempre alloggiando in alberghi diversi, secondo i costumi e il senso del decoro dell'epoca.
 Il terreno di coltura del loro rapporto fu costituito da tutto ciò che definiva il background socio-culturale della borghesia milanese degli anni cinquanta e sessanta per lo più di matrice cattolica, moderata, pragmatica: buoni libri, buona musica, ottimi spettacoli, amicizie sceltissime e frequentazioni selezionate all'insegna del buon gusto; questo, sebbene lei venisse da una famiglia politicamente conservatrice e legata a una visione tradizionalista del cattolicesimo, lui da una famiglia tendenzialmente cattolico-progressista.
 La proposta di matrimonio - per via curiosamente indiretta - venne solo nel 1961, quando a Nino fu assegnato un incarico della durata di un intero anno accademico a New Delhi, per conto del Mit, in qualità di consulente economico presso la Planning Commission del Governo Nehru. Il contratto prevedeva la possibilità di essere accompagnati da un'altra persona, segretaria o moglie: proponendo a Giana Marina di affrontare con lui quell'avventura, Nino, praticamente, le chiese di sposarlo.

Giana Marina Petronio Andreatta

 Da quel momento cominciò una vita insieme scandita dagli incarichi sempre nuovi e dalle tappe successive della carriera accademica e poi politica di Nino, con l'insediamento definitivo della famiglia Andreatta a Bologna (dove Nino, finalmente professore ordinario in seguito alla vittoria del concorso per la cattedra di Economia Politica, ebbe come assistente Romano Prodi) e la nascita di ben quattro figli. In tutto questo, Giana Marina riuscì a ritagliarsi anche un proprio autonomo percorso professionale, abilitandosi (come era consentito, prima del 1968, anche ai laureati in branche del sapere diverse dalla Medicina) per svolgere l'attività di psicanalista.
 Nel quadro offerto dall'autrice, le vicende politiche che videro Andreatta protagonista non fanno semplicemente da cornice ai fatti della sua vita famigliare, che costituiscono il filo conduttore del racconto; ne sono invece parte integrante, come un ingrediente essenziale per meglio definire la personalità di Nino, e dunque come un elemento determinante per illustrare il suo modo di vivere e di vedere il mondo.
 Si parla così degli albori del suo impegno politico, dal famoso "discorso di San Pellegrino" del 1962 (sulla necessità di un intervento dello Stato per regolamentare la concorrenza, pur salvaguardando la libera iniziativa) alla sua attività come esperto di economia al fianco di Aldo Moro, dagli anni da Ministro del Bilancio e da Ministro del Tesoro sullo scorcio degli anni ottanta (in cui gli toccò affrontare le ripercussioni sulla Banca d'Italia dello scandalo della Loggia P2, decretare la liquidazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, denunciare le malefatte dello Ior, cosa che gli costò l'inimicizia di Andreotti e di fatto un lungo ostracismo dalle poltrone che contavano) fino all'ideazione dell'Ulivo all'inizio della Seconda repubblica e all'incarico come Ministro della Difesa nel primo Governo Prodi.
 Credo si possa dire che il pregio principale di questo libro sia la sincerità: è grazie alla sincerità e direi quasi all'immediatezza delle descrizioni di persone, luoghi e cose connesse con gli accadimenti che vengono rievocati - e anche dei sintetici giudizi collegati a queste descrizioni - che possono riemergere dal passato con inedita vivacità le scene quotidiane del ménage famigliare degli Andreatta.
 E' grazie alla sincerità della narrazione che ci si può fare un'idea piuttosto precisa dell'ambiente dal quale Nino Andreatta e sua moglie provenivano - quello privilegiato dell'alta borghesia italiana del secondo dopoguerra - e della mentalità che lo dominava: una mentalità per cui la rispettabilità era l'essenza sociale dell'individuo, la ricerca della distinzione era il suo più alto obiettivo, e ineludibile era il senso di appartenenza alla propria classe sociale; una mentalità per cui la ricchezza, la raffinatezza, l'eleganza, il decoro, il rispetto della gerarchia erano fra i più alti valori.
  E quanto c'è di antipatico in questo ambiente, e di respingente in questa mentalità finisce per far apprezzare ancora di più la lungimiranza, la razionalità e la consapevolezza del pensiero economico-sociale tramandatoci dagli scritti e dall'azione politica di una delle più intelligenti personalità che il centrosinistra italiano abbia prodotto.

Voto: 6+  

venerdì 25 agosto 2017

Donatella Di Pietrantonio, "L'Arminuta", Einaudi


 L'Arminuta, in dialetto abruzzese, significa "la ritornata". E' questo il soprannome che viene affibbiato dalla gente di un piccolo paese dell'entroterra alla tredicenne che, nel tardo pomeriggio di una giornata di agosto del 1975, viene riportata alla sua famiglia d'origine dall'uomo che ella ha fino a quel momento considerato suo padre, e che insieme alla moglie Adalgisa l'ha cresciuta lontano da lì, nella loro bella casa in una città affacciata sul mare.
 Adalgisa e suo marito, un ufficiale dei Carabinieri, l'avevano presa con sé alla nascita d'accordo con i genitori biologici, loro parenti alla lontana, troppo poveri per poter allevare anche quella bambina insieme agli altri tre figli maschi avuti prima di lei, e comunque troppo rozzi e privi dei mezzi necessari per poterle dare un'educazione degna di questo nome. Del resto Adalgisa, a cui i soldi non mancavano, ma che non riusciva ad avere figli, aveva sempre sognato una bimba sua...
 Ora, però, qualcosa è cambiato: forse Adalgisa si è ammalata - nelle ultime settimane ha passato quasi tutte le giornate sdraiata a letto -, e la coppia ha dovuto restituire la ragazzina alla madre naturale.
 Per l'Arminuta, l'ingresso nella sua nuova casa è traumatico: nessuno ha pensato a prepararle un posto dove possa dormire, ed è così costretta a dividere il letto con la sorella minore Adriana (che con Giuseppe, un bambino disabile di soli due anni, nel frattempo si è aggiunta alla truppa dei tre fratelli maggiori, a loro volta stanziati nell'unica camera disponibile per tutti i ragazzi); quella che le dicono essere la sua vera madre ha modi spicci, e si esprime quasi solo in dialetto, usando espressioni che a lei, che è sempre stata la prima della classe e parla un italiano da manuale, sono sostanzialmente estranee; il padre, uomo di fatica presso una fornace poco lontana, addirittura non apre mai bocca.
 Soprattutto, nessuno ha provveduto a spiegarle il perché di questo trasferimento, né a dirle quanto durerà questa situazione, e quando potrà tornare in quella che si ostina a considerare la sua famiglia autentica.
 Per fortuna con Adriana, che - per quanto sia un poco grossolana e abbia per giunta l'abitudine di bagnare il letto di notte - è una bambina schietta, sveglia e vivace, si consolida un bel rapporto; e poi c'è Vincenzo, il fratello maggiore, che la guarda in un modo che la turba e la confonde, come se fosse già una donna, tanto che lei fatica a credere che sia davvero suo fratello.
 Il processo di adattamento della protagonista alla nuova condizione, in realtà, sarà lungo e complicato, e ancora più lunga e dolorosa sarà l'elaborazione del trauma del singolare, doppio abbandono che ha dovuto subire; anche perché la verità sul suo ritorno alla famiglia di origine, quando ne verrà a conoscenza, la lascerà senza fiato.

 Donatella Di Pietrantonio

 L'Arminuta, infatti, è stata riaffidata ai suoi genitori naturali perché quella che considerava la sua famiglia di riferimento non c'è più: Adalgisa ha lasciato suo marito, responsabile dell'infertilità della coppia, e ha intrecciato una relazione con un altro uomo, conosciuto presso la Parrocchia che frequentava quotidianamente, di cui è subito rimasta incinta e da cui ha avuto un bel bambino, questa volta davvero tutto suo.
 Ma la ragazza, scoprendo dentro di sé una forza che non avrebbe mai sospettato di avere, saprà affrontare tutte le difficoltà che la vita le propone (alle quali si aggiunge la tragica, inattesa morte di Vincenzo): imparerà ad apprezzare quel poco che i suoi veri genitori possono darle, scoprirà un mondo di affetti e di valori diverso da quello a cui era abituata ma non per questo meno appagante, e riuscirà a inchiodare Adalgisa alle sue responsabilità, pretendendo che continui a finanziare non solo i suoi studi, ma anche quelli di sua sorella Adriana, la sola vera àncora di salvezza nel naufragio famigliare che è costretta a subire.
 La bellezza di questo romanzo sta tutta nell'abilità dell'autrice nella gestione del punto di vista: la voce narrante, infatti, è quella della protagonista cresciuta, che ha superato tutte le prove che ha incontrato sul suo cammino, è riuscita a completare il ciclo scolastico (come ha fatto pure sua sorella Adriana), ed ha acquisito la maturità intellettuale ed emotiva necessaria per ripercorrere la sua storia e per considerarla con equilibrio nei suoi diversi momenti; e tuttavia, il punto di vista prevalente nel corso della narrazione è quello dell'Arminuta appena tredicenne, che interiorizza tutto quello che le succede con gli strumenti razionali, emotivi e linguistici che ha a disposizione a quell'età.
 Così il lettore, pur sapendo che alla fine ci sarà qualche forma di salvezza, è chiamato ad attraversare mano nella mano con lei il suo personalissimo inferno, a vivere il suo smarrimento, le sue paure, le sue angosce, le sue rabbie, le sue speranze.
 Tutto questo è filtrato attraverso un linguaggio molto misurato, in cui il realismo vernacolare del dialogato convive con la lineare semplicità del dettato narrativo, evitando la tentazione narcisististica - propria di troppi scrittori italiani - di una commistione espressionistica di registri fine a se stessa, e non giustificata da motivi referenziali o poetici.
 Il risultato è un libro di grande coerenza letteraria e senza sbavature dal punto di vista stilistico.

Voto: 7   

lunedì 21 agosto 2017

Alberto Rollo, "Un'educazione milanese", Manni


 Questo libro non è banalmente un’autobiografia; l’approccio autobiografico viene invece utilizzato come sensibilissimo scandaglio per definire dimensioni spazio-temporali e profondità di un’avventura culturale che si presta a esemplificare la storia di un’intera generazione e a informare di sé l’evoluzione della concezione urbanistica espressa dall’unica vera metropoli italiana, quella imperniata sulla città di Milano.
 Di quest’avventura culturale l’individuo costituisce il punto di partenza e quello di arrivo, perché solo l’individuo può rappresentare l’unità di misura dell’importanza - e il principio di ipostatizzazione - di qualsiasi storia collettiva e di qualsiasi visione urbanistica: l’individuo che viene effettivamente accolto o respinto, arricchito o irrimediabilmente impoverito, dal punto di vista umano, dall’ambiente in cui si trova a vivere.
 In questo senso acquista una valenza allegorica un episodio che l’autore riferisce e che è relativo ai primi anni della sua infanzia, quando, accompagnato dal padre ad assistere a uno spettacolo tenuto da un gruppo di artisti di strada che cantava canzoni popolari in piazza Prealpi negli anni cinquanta, si smarrì nella piccola folla lì convenuta; allora il cantante, accortosi del bimbo in lacrime, lo sollevò per le ascelle gridando: “Di chi è questo bambino? Milano lo vuole?”. 
 Quel Milano lo vuole? diventa la domanda fondamentale per stabilire la capacità del contesto milanese di rispondere fino in fondo alle aspirazioni del singolo cittadino e al suo bisogno di sentirsi perfettamente integrato nel proprio ambiente. Una domanda che il protagonista-narratore decide di utilizzare come cartina di tornasole per valutare la propria esperienza.
 Alberto Rollo, classe 1951, storico direttore letterario di Feltrinelli (da poco passato a Baldini e Castoldi), nacque a Milano in una famiglia proletaria. Proletaria non significa povera: il padre, metalmeccanico, comunista, originario di Lecce ma perfettamente integrato nel contesto milanese, apparteneva a quella aristocrazia operaia orgogliosamente consapevole della propria specializzazione e dell'importanza del proprio lavoro; messosi in proprio dopo un'esperienza come capo-officina presso la ditta Anceschi di viale Certosa, forniva a una azienda tedesca attiva nel settore tessile dei pezzi per completare le sue macchine utensili di precisione. 
 La madre, già sarta in una delle principali botteghe della città (la casa di moda Bocca), aveva rinunciato al lavoro per la famiglia, ma era tuttavia portatrice di quel sapere tecnico da cui anni dopo sarebbe scaturita l'eccellenza di Milano nel campo della moda.

Alberto Rollo

 La famiglia Rollo visse modestamente ma dignitosamente prima in una della classiche case di ringhiera (in via Grigna, Milano nord), poi - dal 1957 - in uno stabile più moderno e "interclassista" in via MacMahon, all'imbocco del ponte della Ghisolfa. Nella Milano degli anni cinquanta essere proletari significava coltivare con fierezza e assoluta rettitudine la propria coscienza di classe, nutrire una fiducia senza ombre nel progresso sociale e tecnologico e sentirsi parte del cuore pulsante della città, padroni dei suoi spazi, protagonisti del suo ritmo essenziale. Tutto questo, per il piccolo Alberto, costituì un'insostituibile scuola di vita e il primo perno intorno a cui costruire la sua identità.
 Il secondo perno si paleserà nella sua specificità anni dopo, fra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, all'epoca degli studi liceali e poi universitari di Alberto, - che è poi l'epoca della contestazione - e sarà legato ancora una volta a Milano, ai suoi spazi pubblici e privati, alla sua gente. Esso sarà costituito dalla sensibilità, dallo spirito di iniziativa, dalla preparazione culturale, dalle possibilità materiali e dalla capacità di andare oltre se stessa della borghesia progressista milanese, che l'autore cominciò a frequentare grazie ad alcuni dei suoi compagni di scuola e amici, che condividevano le sue convinzioni politiche e la sua concezione del mondo.
 In quell'ambiente, ove non ripiegato su se stesso, Alberto Rollo scorse allora - anche grazie alle figure guida di alcuni compagni, primo fra tutti Marco, scomparso precocemente in un incidente stradale - tutte le potenzialità per abbracciare le virtù della Milano proletaria, trasformandole in forza propulsiva per cambiare in meglio e guidare al meglio la città (e forse l'Italia intera), liberando tutte le sue forze dinamiche.
 Invece dopo la contestazione vennero gli anni di piombo, venne il terrorismo, venne l'assassinio di Aldo Moro (vero spartiacque epocale), e infine gli anni del riflusso, della "Milano da bere", in cui dietro alla patina del benessere la città si smarrì e smarrì la propria anima, i propri equilibri sociali e contemporaneamente la capacità di rigenerarsi dal punto di vista urbanistico.
 Si arriva così - dopo lustri opachi - al giorno d'oggi, alla Milano che rinnova il proprio aspetto al'insegna dell'acquisita internazionalità, sulla scorta delle potenze trainanti della moda, della finanza e dell'editoria, ma per rifiorire veramente è chiamata a trovare una nuova identità che sia insieme sociale e urbanistica; ed è ancora presto per capire se centrerà concretamente questo obiettivo.
 Un simbolo della Milano di ieri che può essere di buon auspicio per la rinascita della Milano di oggi è per Rollo quel singolare episodio architettonico costituito dalla "montagnetta" di San Siro, il celebre Monte Stella, eretto con le macerie lasciate dalla Seconda guerra mondiale da Piero Bottoni, che volle dedicarlo alla donna che amava, la scultrice Stella Korczynska (da qui il nome), e intese porlo davanti alla città come una seconda cattedrale, una promessa di pace, un invito a tenere alto lo sguardo.
 Il libro, anche se non facilmente palatabile è molto bello e soprattutto molto significativo, e avrebbe forse meritato il Premio Strega (a cui era candidato) più del pur degno romanzo di Paolo Cognetti. 

Voto: 7,5

sabato 5 agosto 2017

Wanda Marasco, "La compagnia delle anime finte", Neri Pozza Editore


 Di fronte al corpo, appena ricomposto dalla badante rumena, della madre Vincenzina morta da poco, Rosa cerca - come in preda a una allucinazione - di rievocarne lo spirito, per farsi accompagnare da esso in un mondo a cui sente ancora di appartenere: il mondo della sua infanzia, di una Napoli in cui nulla scompare mai veramente ma tutto si stratifica, e il passato e il presente, i vivi e i morti trovano singolari, stranianti, malinconiche forme di convivenza.
 Vincenzina Umbriello era venuta a Napoli nel marzo del 1946, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, per fare la domestica, seguendo l'esempio delle due sorelle maggiori Maria e Italia, trasferitesi in città pochi mesi prima dalle campagne di Villaricca, un po' per il pane e un po' per sfuggire all'occhiuta, tirannica tutela della madre Adelina.
 Adelina era diventata l'anima della sua numerosissima famiglia dopo la morte del marito Biasino, ucciso dalla fucilata di un concorrente geloso mentre percorreva sul carretto una via fuori dal paese insieme alla sua bella amante. Adelina era talmente autoritaria da spingere alla follia la più graziosa delle sue figlie, Iolanda, pur di imporle la rottura del fidanzamento con l'uomo che amava per sposare uno scarparo scelto da lei. Iolanda, pazza di dolore, era finita in un manicomio, e ne era uscita sempre bella ma irrimediabilmente "stupetiata".
 Per Vincenzina, l'occasione di liberarsi della sua ingombrante genitrice era venuta grazie a Rafele Maiorana, figlio del dottor Ennio, un giovane ragioniere di famiglia borghese, abitante in un grande, polveroso appartamento in via Duomo. Sfortunatamente la madre di Rafele, la terribile Lisa Campanini, si era opposta al matrimonio, che si era così celebrato senza il consenso e il sostegno economico dei Maiorana, con Vincenzina già incinta.
 Per i neosposi, a quel punto, era cominciata una vita di ristrettezze dentro un appartamento in uno dei grandi casamenti della collina di Capodimonte, la "Posillipo dei poveri". Lì era cresciuta Rosa, sullo scorcio degli anni cinquanta e sessanta, a stretto contatto con la varia umanità dei "vasci" e la "guagliunera" costituita da tutti i ragazzini sparsi nei vichi del quartiere.
 Dopo la morte precoce di Rafele per via di un cancro, Vincenzina si era messa a fare l'usuraia, riscuotendo i debiti per conto di un vecchio malavitoso, con Rosa che la accompagnava nel corso del suo giro. Questo, paradossalmente, aveva avvicinato Vincenzina e i suoi figli alla gente del posto, anziché allontanarli da essa; come se tutti insieme facessero parte dello stesso girone infernale.

Wanda Marasco

 Rosa, in questo modo, era diventata la migliore amica di Annarella, una ragazza magra e dispettosa, una sorta di spiritello curioso, quasi il nume tutelare della sua scoperta del mondo, degli uomini e del sesso; aveva conosciuto Mariomaria, un "femminiello", una strana creatura dalla spiccata sensibilità e dalla complessa fisionomia emotiva; aveva cominciato a frequentare le due allegre lesbiche Tetella e Gloria, ed Emilia, una ragazza dalla bellissima voce che viveva con loro, e che aveva perso la sua verginità per via di uno stupro; aveva potuto ascoltare i racconti misteriosi e sconclusionati del vecchio Sepe, un anziano cacciatore trasformatosi in "paralitico per noia".
 Tutti costoro erano divenuti la vociante comunità di riferimento di Rosa bambina e poi adolescente, insieme ai fratelli Cerasuolo, alle "orche" che abitavano il suo stesso caseggiato, condividendo la professione di sua madre, al mitico maestro Nunziata, una donchisciottesca figura a metà tra il grande uomo di lettere e la maschera della Commedia dell'arte.
 Tutti costoro, per Rosa adulta, diventata moglie, madre e insegnante, grazie all'evocazione dello spirito di Vincenzina, continuano ad essere una vociante Spoon River, emergente dai recessi della città ipogea, le catacombe napoletane mostrate un giorno ai suoi allievi proprio dal maestro Nunziata, ancora intatte e accessibili sotto le fondamenta dei caseggiati, protette dalle antiche colate di fango e dalle macerie della guerra e dei terremoti.
 Questa Spoon River è così viva e presente nella memoria di Rosa - e così stretto è il rapporto con essa della protagonista narratrice - che, quasi per magia, con inopinato salto temporale, alla fine del libro la sua immersione in quel mondo diventa totale: Rosa finisce per identificarsi completamente in Vincenzina e per sostituirsi a lei; forse perché l'allucinazione diventa incantesimo, o forse perché la vita le riserva realmente un destino analogo a quello della madre.
 Rosa, infatti, muore a sua volta accompagnata dalla nenia di una vecchia canzone della badante rumena, e circondata dai visi dei figli e di quelli che le furono corona durante la sua giovinezza, con i quali va a ricongiungersi definitivamente.
 Wanda Marasco riesce a costruire un bel romanzo, che si giova di una prosa dall'oscillante armonia, piena di slanci, sfumature e accensioni, capace di operare una trasfigurazione onirica della realtà, elevando una febbrile tensione emotiva a norma del rapporto dell'individuo col mondo. Diventano così estremamente concreti personaggi che, pur nella loro modernità, paiono spesso modellati nella stessa creta dei miti classici, che sembrano circondati da una vibrante aura fatata, come se il loro aspetto esteriore e le loro parole riverberassero apertamente i sentimenti che dovrebbero essere custoditi nella loro interiorità.
 Il lettore che sottoscrive il patto narrativo è chiamato a condividere, più che un punto di vista, un modo di essere e quasi una fede. All'inizio questo può destabilizzare un po', e dare l'impressione di essere in balia di un vortice incontrollato di parole. Ma se si impara ad abbandonarsi e a lasciarsene trasportare, si finisce per farsi cullare da un'altalena narrativa che si muove tra patetismo ed esaltazione, con effetti che pochi scrittori riescono ad ottenere.

Voto: 7+