venerdì 24 novembre 2017

Paolo Rumiz, "Annibale. Un viaggio", Feltrinelli


 C’è un modo più affascinante ed efficace di qualunque altro di rivivere la Storia e afferrarne l’essenza: trasformare lo studio in investigazione, la passione in immedesimazione; riversare la ricostruzione documentaria e i dati archeologici nell’indagine psicologica degli eventi, e mettersi fisicamente in viaggio alla ricerca del passato.
 È quello che fa Paolo Rumiz in questo libro straordinario - risalente a qualche anno fa, ma destinato a trasformarsi in un classico, se già non lo è diventato - ponendosi sulle tracce di un personaggio come Annibale, capace di segnare la storia della nostra penisola e di tutto il Mediterraneo, e di restare segretamente annidato nella fantasia popolare, nei nomi dei luoghi, nei simboli di un passato certo lontanissimo, ma meno remoto di quanto comunemente si pensi: in fondo, nota l’autore, solo 36 nonni ci separano dall’epoca del comandante cartaginese.
 Scortato dai testi di Livio e di Polibio, e via via da storici, archeologi, semplici appassionati, e da una serie di donne e uomini per lo più inconsapevoli della loro capacità di evocare l’impronta dell’antico, Rumiz ripercorre tutta la vicenda di Annibale visitando i luoghi che fecero da cornice alle varie tappe della sua esistenza. Si sposta così dai resti di Cartagine, teatro dell’infanzia del futuro generale, a Cartagena, in Spagna, dove venne concepita sua leggendaria impresa; rifà l’epica marcia del suo esercito fino a oltre le Alpi e lungo tutta la dorsale appenninica, e si sofferma sui luoghi delle sue battaglie più memorabili dal Trasimeno a Canne; ricostruisce i tredici anni di permanenza di Annibale in Italia - con il panico che dilaga a Roma -, il suo rientro in patria, la sconfitta contro Scipione a Zama e la successiva fuga verso Oriente, braccato dai romani ma sempre imprendibile, fino all’Armenia, fino alla Bitinia e all’epilogo definitivo: la scelta obbligata del suicidio dopo il tradimento di Prusia che lo ospitava.

 Paolo Rumiz

 Durante questo pedinamento a distanza di due millenni di una figura che spesso sembra solo un’ombra, ma in alcuni momenti pare più concreta e vicina che mai, Rumiz mette in discussione alcuni dati storici acquisiti, e laddove la storia e l’archeologia hanno lasciato dei vuoti cerca di riempirli con la logica, e talvolta persino con intuizioni che fanno leva in maniera assai sagace sulla psicologia del generale come la si desume dalle decisioni da lui prese di cui è rimasta testimonianza, e sulla lettura degli indizi che i territori d’Italia, Europa e Asia minore e la loro gente parrebbero conservare del suo passaggio ancora oggi, dopo duemila e duecento anni.
 Ne viene fuori il ritratto commovente  di un personaggio gigantesco che ci appartiene – e appartiene alla storia di tutto il Mediterraneo – almeno quanto i romani, i quali cercarono invano di cancellarne il ricordo, ma che solo grazie a lui maturarono quella solidità e quella spregiudicatezza mentali, militari e politiche che furono capaci di renderli padroni di tutto il mondo antico.

Voto: 8

venerdì 17 novembre 2017

Marco Patucchi, "Maratoneti. Storie di corse e corridori", Baldini e Castoldi


 Libro pubblicato una prima volta da Dalai nel 2010, e riedito quattro anni dopo per i tipi di Baldini e Castoldi, Maratoneti è una celebrazione dell'intrinseca bellezza della corsa di Maratona, e di quella che potremmo chiamare la sua attitudine mitopoietica, cioè la sua naturale disposizione a trasformarsi in un terreno fertile sul quale possono nascere storie, in affascinante contiguità con i territori dell'epica, della lirica, della filosofia.
 Perché la Maratona è più di una gara, o di una semplice pratica sportiva: la Maratona è sempre un'avventura, per la sua lunghezza e per l'imprevedibilità del suo svolgimento; la Maratona è un cimento, perché non si può affrontare senza un'adeguata preparazione, e perché implica il ricorso a tutte le energie psicofisiche a cui l'individuo che la percorre può far appello; la Maratona è una specie di ordalia perché, anche se si è preparati nel modo migliore, non si può mai essere sicuri di ottenere il risultato sperato; la Maratona è una singolare forma esperienza di sé, perché, durante lo sforzo prolungato che comporta, induce a un'intima immersione nelle profondità della propria coscienza e, contemporaneamente, evoca un singolare stato di astrazione dall'ambiente circostante e dalla fatica che il proprio corpo sta compiendo.
 Del resto lo stesso mito fondativo di questa disciplina consiste in una surreale trasfigurazione in chiave eroica dell'incruenta impresa di un guerriero, o meglio, di un emerodromo - uno di quei messaggeri aggregati all'esercito greco che si facevano latori dei dispacci dei loro comandanti percorrendo a piedi grandi distanze.
 Da un'analisi attenta delle fonti, pare che l'uomo passato alla storia col nome di Filippide, nel 490 a.C., fosse stato incaricato da Milziade di percorrere gli oltre 200 chilometri che separano la baia di Maratona da Sparta per chiedere agli spartani di prestare il proprio aiuto all'esercito ateniese contro i persiani di Dario che minacciavano l'Attica, in nome del destino comune di tutta la Grecia. Il grande sforzo di Filippide risultò alla fine superfluo; Milziade attaccò battaglia e sbaragliò i persiani senza attendere il soccorso degli spartani. E tuttavia la leggenda trasformò l'infaticabile messaggero nell'uomo che, dopo la vittoria, avrebbe coperto di corsa la distanza tra la piana di Maratona e Atene al solo scopo di annunciare ai propri concittadini attanagliati dall'angoscia il trionfo e lo scampato pericolo, per poi spirare nelle braccia di chi lo aveva accolto subito dopo aver portato a termine il proprio compito.
 Filippide, da ingranaggio della macchina logistica della guerra, divenne così il messaggero di pace per eccellenza, e i 42 km e 195 m che separano Maratona da Atene fissarono il paradigma dell'aurea misura della corsa che ne perpetua il ricordo.
 Da allora, su quella distanza hanno continuato a nascere miti e ad essere consacrati eroi. Miti attraversati da tutte le emozioni e da tutte le distorsioni alle quali l'animo umano è disposto - dal pathos, alla comicità, dall'esaltazione al rimpianto, dall'orgoglio alla disperazione -; eroi definiti come tali non necessariamente o non tanto dalla loro attitudine vincente, quanto dalla loro capacità di interpretare l'esperienza della Maratona in modo esemplare, o singolare, o bizzarro: come un distillato d'umanità.
 Basta pensare alla svizzera Gabriela Andersen-Scheiss, che alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 ci mise oltre cinque minuti a percorrere, piegata in due, gli ultimi 500 metri della gara, e nonostante avesse accumulato un ritardo di oltre mezz'ora sulla vincitrice, ricevette dallo stadio il giusto tributo per la sua impressionante dimostrazione di forza di volontà.
 O al bosniaco Islam Dzugum capace di preparare la Maratona olimpica di Atlanta 1996 nelle strade della città di Sarajevo assediata dalle truppe serbe, sotto il tiro dei cecchini.

 Marco Patucchi impegnato nella Maratona

 O ancora, all'incredibile caso del giapponese Shizo Kanakuri che, durante la Maratona di Stoccolma delle Olimpiadi del 1912 (a cui si era presentato come uno dei favoriti), stremato, entrò nel giardino di un'abitazione della periferia cittadina in cui si stava svolgendo un pic-nic per chiedere qualcosa con cui rifocillarsi; sedutosi su una poltrona, in quel giardino Shizo si addormentò, e al suo risveglio, resosi conto che la gara era ormai terminata, decise di sottrarsi alla vergogna del ritiro evitando di riunirsi alla spedizione dei suoi connazionali, e rientrando in Giappone dalla Svezia da solo, in nave. Dato per disperso dagli organizzatori, fu rintracciato soltanto 50 anni dopo da un giornalista svedese; nel 1967 fu invitato a Stoccolma per completare la corsa interrotta nel 1912, che finalmente concluse, a più di 80 anni d'età, con il tempo finale di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi. Un record e una vita.
 Ed è significativo che anche i campioni veri, in questa specialità, vengano consacrati al mito per qualcosa che va oltre le loro vittorie: come Abebe Bikila, l'etiope vincitore della Maratona olimpica di Roma del 1960 - scalzo, con le fiaccole a illuminare le antiche rovine dell'Appia e dei Fori Imperiali - e di quella di Tokyo del 1964, che fu il vero ispiratore del grande movimento podistico che divenne il simbolo del riscatto sportivo dell'Africa nera; come Emil Zatopek, forse il più grande mezzofondista di sempre, uno degli emblemi della Primavera di Praga soffocata dalla prepotenza dei carri armati sovietici; o come Sohn Kee-Chung, il coreano vincitore delle Olimpiadi di Berlino del 1936, costretto a rappresentare sul podio l'odiato invasore giapponese, risarcito molti anni dopo, durante la Cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Seul del 1988, dal privilegio di correre - ormai ottuagenario - verso il braciere con la fiaccola di Olimpia in pugno nel nome della sua vera patria.
 Così, la stessa aura dei campioni olimpici, di Gelindo Bordin, di Stefano Baldini, di Haile Gebreselassie, o di un atleta di livello assoluto come l'americano Alberto Salazar, può circonfondere in questo libro personaggi come Luca Coscioni, professore universitario e maratoneta, emblema della lotta contro la Sla, o come la podista epilettica Diane Van Deren, o come il maggiore della Royal Military Police Phil Packer, che completò con l'aiuto delle stampelle la Maratona di Londra del 2009, un anno dopo aver perso l'uso delle gambe per una lesione alla spina dorsale subita in Iraq.
 Fra i protagonisti delle storie raccontate da Marco Patucchi - tristi o gioiose, concentrate nello spazio di una corsa o dilatate lungo tutta una vita imbevuta dalla passione per la corsa -, però, il mio preferito è senz'altro Alan Turing, il progenitore del computer e il principale teorico dell'intelligenza artificiale, che correva - come diceva - per liberare la mente (e correva forte: il suo record sulla Maratona era solo 11 minuti superiore a quello del vincitore delle Olimpiadi di Londra del 1948!): lui che contribuì in modo forse decisivo alla vittoria alleata nella Seconda guerra mondiale decriptando i messaggi cifrati di Enigma, la macchina per le comunicazioni interne usata dai nazisti, e che immaginò per primo il mondo digitale in cui oggi siamo immersi, fu indotto al suicidio nel 1954 (a soli 42 anni) da una condanna alla libertà vigilata e alla castrazione chimica comminatagli per la sua omosessualità in un'Inghilterra considerata allora all'avanguardia della civiltà, ma in cui essere gay era ancora un vergognoso reato.
 La lettura di questo testo è peraltro in ogni parte piacevolissima e a tratti persino commovente.
 L'unico appunto che occorre fare alla riedizione del libro è il mancato intervento sulla storia di Samuel Wanjiru, vincitore della Maratona alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, forse l'atleta più talentuoso della sua generazione, indicato qui come il probabile futuro recordman mondiale della distanza. In realtà Wanjiru ha perso tragicamente la vita nel 2011 in un bislacco incidente domestico, precipitando dal balcone della sua abitazione mentre era inseguito dalla moglie che lo aveva scoperto in compagnia dell'amante.
 Un'altra storia originale da aggiungere alle tante fiorite intorno alla Maratona e al suo mondo.

Voto: 6,5

sabato 11 novembre 2017

Herman Koch, "Il fosso", Neri Pozza


 Libro capace di riscuotere un notevole successo di pubblico e di critica in Olanda, Il fosso è un romanzo che in verità a me pare tanto ambizioso nella sua concezione quanto malriuscito nella sua realizzazione. 
 Protagonista, narratore e detentore unico del punto di vista del racconto è Robert Walter, Sindaco di Amsterdam - città per molti versi simbolo del rispetto delle libertà democratiche, del progressismo ambientalista e della predisposizione all'apertura culturale -, che un giorno cade preda di una serie di ossessioni che gli fanno perdere la capacità di mantenere uno sguardo lucido sulla realtà. 
 La causa scatenante del suo deragliamento dall'esercizio della costanza della ragione è il sospetto che la moglie Sylvia, una bellezza esotica proveniente da un Paese più povero e meno "progredito" dell'Olanda (di cui però non si rivela la precisa dislocazione geografica), lo tradisca con uno dei suoi assessori, Maarten van Hoogstraten, personaggio piuttosto insulso, quasi ottuso nella sua incrollabile convinzione che il futuro della produzione energetica risieda nello sviluppo delle centrali eoliche.
 L'osservazione occhiuta e l'analisi minuziosa fino alla paranoia degli atteggiamenti e delle parole della consorte conducono gradualmente Robert Walter a smarrire la facoltà di attribuire il giusto peso a tutto quanto gli accade intorno; persa una articolata capacità di discernimento su eventi e persone, nelle opinioni del protagonista finiscono per riaffiorare i pregiudizi, i luoghi comuni, le bizzarre fantasie e le false credenze che albergano nella coscienza di ciascuno di noi.
 Così, Sylvia, agli occhi del marito, diviene una femmina astuta in grado di esercitare quella capacità di dissimulazione che, per molti olandesi di media cultura, è caratteristica precipua della sua gente; e il brutto incidente in cui una sera incorre Van Hoogstraten tornando a casa in bicicletta, per il Sindaco, nasconde con ogni probabilità un pestaggio che l'assessore ha subito per vendetta da uno dei fratelli di Sylvia dopo uno screzio con la sua amante.
 Ma il delirio del protagonista non riguarda solo Sylvia: accecato dalla gelosia, infatti, Robert Walter viene disancorato dalla realtà effettuale tanto da non rendersi conto della serietà e della gravità delle intenzioni dei suoi anziani genitori quando esprimono il desiderio di porre volontariamente fine alla propria vita mentre sono ancora in forze, per scansare le conseguenze più spiacevoli - per sé e per gli altri - del processo di invecchiamento. 

 Herman Koch

 Anzi, Robert arriva quasi a condividere e ad approvare il proposito del padre e della madre; salvo poi trovarsi completamente spiazzato dal maldestro tentativo di suicidio da essi messo in atto. Paradossalmente, a morire sarà la madre, la meno convinta dei due della strada intrapresa; il padre novantacinquenne, invece, miracolosamente sopravvissuto all'ingestione di una dose abnorme di barbiturici, ritroverà la voglia di vivere e persino di guardare le donne.
 Fluttuando sulla propria inedita incapacità di comprendere il mondo, Robert si farà stregare dalle fantasiose teorie di un amico fisico che, scoprendo di essere prossimo alla fine per via di un male incurabile, gli confida di credere all'esistenza di una sorta di mondo parallelo da cui i defunti, superando lo schermo della morte, possono lanciare dei messaggi ai vivi; penserà così di riconoscere sua madre in uno dei tordi che ella tanto amava disegnare in vita.
 Privo ormai di qualsiasi bussola gnoseologica, Robert Walser abbandonerà la carriera politica e il suo stesso Paese natale per trasferirsi con Sylvia nella patria della moglie; qui, seduto su una collina insieme al cognato, presso un fosso fuori dal villaggio, un tempo teatro di innominabili violenze, avrà finalmente il privilegio di entrare sensibilmente in contatto con il sostrato irrazionale e istintivo sotteso a tutte le nostre convinzioni. Solo dopo essere divenuto consapevole della sua insopprimibile esistenza, imparerà a dominarlo dentro di sé, per trovare con Sylvia una serenità nuova. 
 Il testo è articolato in maniera piuttosto discutibile: l'intreccio dei diversi filoni narrativi, interrotti e ripresi continuamente, suscita una certa perplessità; l'insistenza su taluni argomenti (la tendenza del padre a correre dietro alla donne a più di novant'anni, l'avversione del Sindaco per le pale eoliche, ecc.), sebbene voglia forse tematizzare le ossessioni del protagonista, rischia a tratti di rendere la lettura assai noiosa; la scrittura, pervasa di una forma di umorismo con sfumature surreali (quel "transrealismo" - come ho avuto occasione di definirlo altrove - tipico della letteratura scandinava e nordeuropea), non è sempre sapientissima, e può apparire persino stucchevole, tanto più che spesso difetta di ritmo; i personaggi mancano totalmente di credibilità, senza per questo acquisire la forza metaforica delle figure paradossali.
 Insomma, il tentativo di interpretare in chiave narrativa la scoperta della fragilità delle basi su cui è costruito il mondo occidentale, razionale, laico, democratico, relativista, tendenzialmente progressista (un tema non estraneo al libro di Calasso che ho recensito la scorsa settimana), in questo romanzo, naufraga miseramente.

Voto: 5

sabato 4 novembre 2017

Roberto Calasso, "L'innominabile attuale", Adelphi


 Roberto Calasso costruisce questo libro secondo i modi dello stile che più gli è congeniale, e che potremmo definire saggismo rapsodico: osservazioni, riflessioni e citazioni vengono via via accostate e combinate come preziose tessere musive di colori e materiali diversi, secondo uno schema del tutto originale, fino a comporre un disegno non sempre perfettamente intellegibile - e talvolta persino stravagante -, ma straordinariamente suggestivo, denso di significati reconditi e ricco di echi e di rimandi colti; una sorta di fantasmagorica proiezione letteraria dell'elusività del reale di fronte alle strette di un approccio analitico.
 Quando il tema trattato appare per così dire non necessario, uno stile siffatto rischia di assomigliare a un gioco fine a se stesso, e può dare l'impressione di esprimere la quintessenza dello snobismo; ma quando - come in questo caso - l'analisi dà vita, anziché ai volteggi di una danza rituale, a un corpo a corpo con la realtà in cui talvolta arriva a lasciare i segni delle proprie zampate sulla carne viva del mondo (che pure resta in larga parte inafferrabile), i bagliori di questa prosa lampeggiante possono svelare squarci di pura conoscenza.
 Il libro è diviso in due parti, con l'aggiunta di una coda conclusiva: la prima parte, intitolata Turisti e terroristi, esplora i sentieri impervi e sdrucciolevoli di un presente attraversato da sconcertanti contraddizioni, in cui il terrorismo (inevitabilmente soprattutto di matrice islamica), da una parte, si oppone a quel precipitato della società fondata sul laicismo che è l'homo secularis; dall'altra ne accompagna il percorso che conduce a gradi sempre maggiori di fragilità antropologica, sancita dalla diffusione di mentalità, abitudini e principi segnati dalla labilità, dall'inconsistenza e a volte persino dall'insignificanza.
 L'opposizione si fonda sull'affermazione dell'assoluta pregnanza del senso del divino che pervade il terrorista, che si sacrifica per uccidere gli infedeli, al cospetto di coloro che hanno di fatto espulso il divino dal proprio mondo, basando la propria "religione" sulla scienza; al contrario, la contiguità fra quelle due sensibilità tanto distanti è espressa da modalità operative che conducono il terrorista ad affidarsi al caso nella scelta delle proprie vittime, portando alle estreme conseguenze gli insegnamenti contenuti nel Catechismo del nichilista Nacaev.
 Del resto - nota Calasso - l'esplosione del terrorismo estremistico come oggi lo conosciamo, curiosamente, coincide in larga parte dal punto di vista cronologico con la diffusione della pornografia via web; quasi che il primo costituisse la naturale reazione alla reificazione dei contenuti di una diffusa sensibilità tradizionale che la seconda comporta.
 Anche la risorgente avversione per la democrazia e i suoi riti si può interpretare come reazione alla scomparsa del senso del sacro determinata dalla diffusione del laicismo e del modello dell'homo secularis: il sacro, infatti, è tradizionalmente percepito come "contenuto in sé", mentre la democrazia trova la sua sola possibile legittimazione nel rispetto di una serie di procedure formali che, in un certo senso, sostituiscono il contenuto, perché diventano esse stesse "contenuto".

 Roberto Calasso

 Questi differenti spunti suggeriscono tutti insieme come l'approccio alla conoscenza basato sulla discontinua definizione di quantità discrete - su cui la scienza moderna si impernia e a cui l'imponente digitalizzazione dei dati tuttora in corso si appoggia - sia contrapposto alla continuità "analogica" del sapere umanistico tradizionale, lo spirito del quale è stato ormai quasi completamente estirpato.
 E il fatto che, nel sapere contemporaneo, il datismo (la disponibilità, cioè, di un numero enorme di informazioni classificate ma fra loro irrelate consentita da Big Data, che non contempla spiritualità alcuna) abbia sostituito il dadaismo (che predicava l'assoluta libertà dello spirito) non può che dare un tremendo senso di vertigine; al pari del fatto che l'unico strumento disponibile capace di orientare le nostre scelte e di influenzare i nostri sentimenti pare essere diventato la pubblicità, nelle sue varie forme.
 La seconda parte del libro è invece intitolata La Società Viennese del Gas, ed è posta di fronte alla prima come una sorta di specchio rovesciato. Essa riporta voci, punti di vista, sensazioni di vari personaggi immersi nel flusso degli avvenimenti che si susseguirono in Europa fra il 1933 e il 1945: gli anni in cui "il mondo ha compiuto un tentativo di autoannientamento, parzialmente riuscito".
 Calasso nota come quello che venne dopo la chiusura di quella fase storica "era informe, grezzo e strapotente"; mentre ciò che ci si presenta nel nuovo Millennio è a sua volta "informe, grezzo e sempre più potente".
 Il rapporto che si intende stabilire fra il presente e il periodo che si aprì con l'ascesa al potere di Adolf Hitler e si chiuse con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, dunque, pare essere duplice: da una parte la contemporaneità riproduce le inquietudini e le tensioni che caratterizzarono gli anni da incubo dell'Anteguerra e della Guerra; dall'altra, quello che accade oggi è interpretabile come l'estrema conseguenza di quel processo catastrofico.
 Mentre con la prima parte del libro il lettore ha la sensazione di cadere preda di un vortice senza fine di stimoli dal quale rischia di essere travolto, la seconda parte ha un effetto quasi ipnotico, e si è portati a seguire ciò che viene raccontato dai numerosi testimoni citati con un raggelante senso di ineluttabilità.
 Infine la terza parte, la "coda" del libro (intitolata Avvistamento delle torri), è il racconto di un sogno di Baudelaire, annotato su un foglietto oggi conservato alla Biblioteca Jacques Doucet, in cui, con terribile, macabro realismo, si descrivono gli effetti che avrebbe il crollo imminente di una immensa torre: la torre, in realtà, non è ancora crollata, ma già si prefigurano le agghiaccianti conseguenze del suo collasso.
 La nota sembra profetizzare con spaventosa precisione il crollo delle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001; nello stesso tempo, però, si ha la sensazione che parli di qualcosa che ancora deve accadere, senza che questo venga esplicitato in alcun modo.
 La lettura de L'innominabile attuale è terribilmente affascinante perché, più che presentare una tesi articolata e definita in tutte le sue parti, l'autore allude, accenna, immagina e spinge a immaginare; invita insomma a non accontentarsi di rappresentazioni preconfezionate della nostra realtà, e sembra raccomandare di stare sempre all'erta e di non sottovalutare i segnali di pericolo che ci provengono da molti aspetti della contemporaneità: le catastrofi del passato possono sempre ripetersi.
 Naturalmente non tutte le osservazioni formulate paiono straordinariamente acute o assolutamente pertinenti, e alcune affermazioni che si vorrebbero apodittiche destano più di una perplessità; eppure capita raramente di confrontarsi con una penna capace di proporre in maniera altrettanto efficace non tanto una visione del mondo quanto un'esplorazione a tutto tondo dell'universo in cui viviamo.

Voto: 7