sabato 30 dicembre 2017

Cesare Salvi, "Teologie della proprietà privata", Rubbettino Editore


 Libro importante, che tratta con notevole perizia giuridica e profondità filosofica una questione fondamentale per il Diritto e, più in generale, per la vita delle persone: quella della giustificazione e dei limiti della proprietà privata.
 Una riflessione sul concetto stesso di proprietà, infatti, si impone con urgenza in un'epoca in cui la globalizzazione - compiuta sull'onda di un processo storico incardinato ai principi dell'ideologia neoliberista -, avviandosi alla stagione della sua maturità, mostra (soprattutto in Occidente) i propri difetti e le proprie ricadute negative in termini di sperequazione della ricchezza, destrutturazione dei meccanismi regolatori dei diritti dei lavoratori, e incapacità di riconoscere l'interesse collettivo.
 Salvi prende le mosse dalla definizione della proprietà che viene accolta nei Codici agli albori del diritto moderno, fondato sull'individualismo giuridico, tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, in ambito francese (con Portalis e l'estensione del Code civil napoleonico) e in ambito anglosassone (con William Blackstone e i suoi Commentaries of the Law of England).
 Per Portalis la proprietà è "il diritto di godere e di disporre dei propri beni nella maniera più assoluta"; per Blackstone è "l'unico e dispotico dominio che una persona afferma ed esercita sulle cose esterne del mondo, in totale esclusione del diritto di ogni altro individuo nell'universo".
 Entrambi i giuristi, muovendosi in un'ottica prettamente borghese, riconoscono la sacralità e la centralità del diritto di proprietà, ma sottolineano altresì come la proprietà non si dia in natura, e sia invece una creazione del diritto positivo, che trova giustificazione nella necessità di garantire pace e sicurezza agli uomini.
 Portalis e Blackstone, insomma, attuano una consapevole secolarizzazione del diritto proprietario; eppure, come prima di loro si sentiva il bisogno di spiegare (o di contestare) l'appropriazione e l'uso dei beni ricorrendo ad argomenti che implicavano il confronto con la dimensione ultramondana, con il "volere di Dio", dopo di loro si continuerà a cercare una legittimazione della proprietà in principi astratti ipostatizzati in un valore assoluto, e quindi trasformati di fatto in una entità metafisica.
 Così, negli antichi miti delle origini (compreso quello della tradizione ebraico-cristiana, compendiato nella Genesi), Dio in principio avrebbe donato la Terra agli uomini come bene comune; l'appropriazione privata dei beni sarebbe conseguenza di una caduta (il peccato originale) capace di determinare la fine della primigenia età dell'oro, intrinsecamente "collettivista".
 In seguito, nel corso dell'antichità classica, si delineano due posizioni più circostanziate: quella che riassume in sé le ragioni del comunismo, ben rappresentata da Platone, e quella che riassume in sé le ragioni dell'individualismo proprietario, ben rappresentata da Aristotele. Il pensiero di Platone, in realtà, subisce un'evoluzione interna; se nella Repubblica afferma di fatto che virtù e proprietà sono incompatibili, e immagina alla testa dello Stato una casta di Guardiani che vivono in regime di assoluta comunanza dei beni, delle donne e dei figli, nelle Leggi egli arriva a teorizzare uno Stato caratterizzato da una ripartizione egualitaria della proprietà.
 Dal canto suo, Aristotele condivide l'opinione che la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza possa condurre al conflitto sociale, e vada quindi limitata; e tuttavia, in ragione della "cattiveria della natura umana", il comunismo è da rifiutare, perché produrrebbe sia una gestione inefficiente della proprietà (ciascuno si prende cura meno di ciò che è di tutti rispetto a ciò che è solo suo) sia conflitti aspri tra i comproprietari. Nella visione di Aristotele, l'egoismo proprietario dovrebbe essere temperato dalla generosità, che pure è antropologicamente parte della natura umana. Ma la soluzione da lui prospettata per contrastare le disuguaglianze - una sorta di filantropia caritatevole dei proprietari nei confronti dei non proprietari - appare quanto mai strutturalmente debole.
 In ambito romano il discorso sulla proprietà si fa assai più concreto; quel processo attraverso cui viene "inventato il diritto" (si distinguono cioè fas e ius, e ogni tema viene sottoposto a una forma di disciplinamento ben distinta dalla religione, dall'etica e dalla politica) consente di definire, all'interno delle diverse forme di possesso, il dominium ex iure Quiritium quale possesso assoluto, perpetuo ed esclusivo della terra e degli schiavi. E' qui che si circoscrive il concetto di proprietà nel senso moderno del termine; ed è contro questo concetto, formulato ad uso e consumo dei ceti dirigenti, che lottarono senza successo e a costo della vita Tiberio e Caio Gracco con i loro progetti di riforma agraria (Cicerone, sulla scorta di Crisippo di Soli, tentò di giustificare goffamente dal punto di vista filosofico la legittimità dell'appropriazione delle terre - originariamente di tutti - da parte degli aristocratici con la metafora del teatro: è lecito considerare proprio ciò di cui si è preso possesso per primi esattamente come si fa a teatro quando si chiama proprio un posto che si è occupato per primi. E, riprendendo un altro pensatore stoico, Panezio di Rodi, lo stesso Cicerone arrivò ad affermare, nel De officiis, che lo Stato esiste proprio per difendere la proprietà!).
 Con l'avvento dell'era cristiana tornano a contrapporsi due visioni differenti: quella secondo cui "è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno dei Cieli", che ha il suo campione in Ambrogio, per il quale la ricchezza è una forma di usurpatio (e non di occupatio occasionale di ciò che originariamente era di tutti, come sostenuto da altri, memori di Cicerone); e quella propria di Agostino, per il quale - nonostante la dimensione della proprietà prenda forma solo in conseguenza del peccato originale - la ricchezza è un dono di Dio e, se usata senza superbia, può aprire la via del Paradiso.
 Queste due correnti di pensiero percorreranno tutta la storia del Cristianesimo fino alle soglie del Novecento: san Francesco, col suo messaggio pauperistico, si farà erede ed interprete del rifiuto della ricchezza caratteristico dei primi cristiani; ma sarà in realtà l'altra tendenza a risultare vincente, con la distinzione di iure divino (per il quale i beni sono di tutti) e di iure humano (che contempla la proprietà privata), e la condanna come eretica dell'affermazione secondo la quale Cristo e gli Apostoli "nihil proprium habuisse".  

 Cesare Salvi

  Una parziale composizione del contrasto tra le due posizioni, e una duratura sistemazione teorica della trattazione della proprietà privata da parte della Chiesa si avrà con Tommaso d'Aquino, per il quale il possesso dei beni non è naturale per l'uomo, dato che ogni cosa appartiene a Dio, e tuttavia gli uomini possono fare uso di ciò che è messo loro a disposizione dal Creatore. La proprietà privata deriverebbe non dal peccato originale, bensì dalla ragione umana: possedere beni propri può essere non solo legittimo, ma anche utile e razionale, purché se ne faccia un uso da cui possa trarre vantaggio l'interesse generale. Sostanzialmente, da Tommaso fino agli ultimi giusnaturalisti, il pensiero europeo affermerà la destinazione universale dei beni e, insieme, il riconoscimento condizionato della proprietà privata.
 Occorre arrivare a John Locke per riscontrare una sostanziale evoluzione nell'elaborazione filosofica della questione. Per Locke la proprietà privata è il frutto del proprio lavoro, e dunque la manifestazione della libertà personale; in questo modo il filosofo inglese prende le distanze tanto dalle tendenze egualitarie (compendiate ad esempio da Thomas More, che nell'isola di Utopia non prevede la proprietà privata), quanto dall'assolutismo di matrice hobbesiana, e conferisce un fondamento laico alla logica del capitalismo nascente (ben diverso dalle giustificazioni accampate dall'etica protestante di Lutero o di Calvino, per i quali la ricchezza è la manifestazione patente della Grazia divina: i poveri, i "non eletti", esclusi dalla Grazia divina, vanno governati e repressi).
 Si pongono qui anche le premesse oggettive del moderno individualismo proprietario, esaltato dalle teorie liberiste di Adam Smith e recepito, come si è detto, dal Diritto francese e da quello inglese (e, di fatto, anche da quello americano; anche se, nella Dichiarazione d'Indipendenza, Thomas Jefferson, fra i diritti fondamentali, sostituisce al diritto alla proprietà quello alla "ricerca della felicità", aprendo un fertile dibattito tra gli studiosi, e ponendo una questione che è tornata d'attualità ai nostri giorni).
 La "nuova teologia" che assimila proprietà e libertà verrà - come è noto - contrastata nel corso dell'Ottocento da un'altra teologia secolare nascente di senso contrario, quella marxista. Già Pierre-Joseph Proudhon, nel 1840, definisce apoditticamente la proprietà "un furto"; più complessa è la posizione assunta nel Capitale da Marx, per il quale la proprietà privata dei mezzi di produzione è la negazione stessa della giustizia e della libertà.
 Del resto, l'urgenza sempre maggiore con cui si pone nel concreto della realtà sociale di quegli anni la "questione operaia" porterà anche la Chiesa cattolica ad aggiornare le proprie posizioni: la Rerum Novarum di Leone XIII, nel 1891, segna la nascita della cosiddetta "dottrina sociale della Chiesa", che costituirà una delle basi per una revisione delle formulazioni del liberismo classico.
 Dal punto di vista politico, la critica dell'equivalenza tra proprietà e libertà avrà esiti differenti e spesso drammatici: da una parte, l'abolizione marxista della proprietà privata come premessa di una società libera condurrà paradossalmente, in Unione Sovietica e negli altri Paesi che ne seguiranno il modello, a un sistema giuridico illiberale; dall'altra, laddove - come nell'Italia fascista - la critica coinvolgerà insieme il liberismo proprietario e le altre libertà, l'esito sarà un "Capitalismo di Stato" di matrice autoritaria.
 Si affermerà però anche un terzo modello, alla costruzione del quale contribuirono sia l'influenza della dottrina sociale della Chiesa, sia i nuovi apporti apporti di diversi studiosi riconducibili all'area del socialismo democratico e a quella del liberalismo. Il modello è quello che prende piede negli Stati Uniti del New Deal e - successivamente - nelle Costituzioni degli Stati dell'Europa Occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, dove i diritti di libertà sono affermati, ma la proprietà non ne fa più parte.
 Concettualmente, questo approccio mette a fuoco il fatto che i caratteri propri dei diritti fondamentali (che sono universali, indisponibili, e hanno la loro base direttamente nella Legge) non si ritrovano nei diritti proprietari (che sono singolari - la loro titolarità da parte di un individuo esclude tutti gli altri - disponibili, e hanno la loro base non direttamente nella Legge, ma nei titoli previsti dalla Legge, come ad esempio i modi di acquisto della proprietà). Così, i diritti fondamentali implicano eguaglianza giuridica; i diritti patrimoniali, invece, "disuguaglianza in diritto". Ai diritti di proprietà si può dunque legittimamente applicare una "clausola sociale": l'interesse generale costituisce un limite riconosciuto alla loro inviolabilità.
 Secondo Cesare Salvi, l'approdo a questo assetto giuridico inaugura una sorta di "età dell'oro" dell'Occidente, che durerà per circa un trentennio dopo la fine della Seconda guerra mondiale. A decretarne la fine è l'affermazione dell'ideologia neoliberista sulla scorta della quale viene portato a compimento il processo di globalizzazione dei mercati e di "finanziarizzazione" dell'economia: la ricchezza risulta allora sganciata dai meccanismi produttivi e dal lavoro, trionfa una nuova forma di individualismo proprietario, e il Mercato diventa un nuovo Dio, le cui logiche sono ritenute incontestabilmente giuste e, dunque, cogenti (non è un caso che nell'odierna Costituzione europea non ci sia traccia dell'opzione sociale prevista da molte delle Costituzioni nazionali dei singoli Stati che compongono l'Unione).
 Il pensiero neoliberista si basa su tre paradigmi: il primo è quello che vede nella proprietà un diritto naturale, come la libertà; il maggior teorico di questa idea è Nozick, che riprende Locke depurandolo però da ogni scrupolo sociale.
 Il secondo afferma che la libertà del potere economico dalle ingerenze del potere politico è necessaria per garantire la libertà politica tout court; i capofila di questo orientamento sono Von Hayek e Milton Friedman, che sostiene come la storia dimostri la stretta connessione tra libertà politica e libero mercato. Curiosamente proprio gli allievi di Friedman appartenenti alla scuola di Chicago furono chiamati con il beneplacito del maestro a privatizzare l'economia cilena sotto Pinochet; e nel mondo abbondano gli esempi in cui dittatura e libero mercato vanno a braccetto. Del resto, più recentemente, un altro teorico del neoliberismo, Pipes, ha abbandonato ogni finzione liberale, affermando che "la proprietà privata è più importante del diritto di voto".
 Il terzo paradigma afferma che la proprietà privata assicura efficienza economica e massimizza la ricchezza collettiva. Ma la storia recente ci dimostra come, se pure l'economia di mercato è mediamente più efficiente di un'economia pianificata e totalmente statalizzata, il capitalismo finanziario, basato sull'assenza assoluta di limiti nella proprietà della ricchezza, non solo è socialmente ingiusto (per cui la massimizzazione della ricchezza collettiva non conta nulla per la collettività, se quella ricchezza non viene più equamente distribuita), ma è anche economicamente inefficiente (concentrazioni di ricchezza sempre maggiori nelle mani di pochi individui finiscono per inceppare il sistema economico).
 Di fronte alle palesi carenze del Neoliberismo trionfante, in una fase in cui la sinistra postmarxista pare ridotta quasi all'afasia, le critiche più profonde al sistema dominante - quelle da cui forse può partire la sua destrutturazione - provengono soprattutto dai più recenti sviluppi della dottrina sociale della Chiesa cattolica, e dagli esiti delle ricerche di alcuni studiosi di estrazione ancora una volta liberale e socialdemocratica.
 Sul versante cattolico, è il caso di citare le acute critiche mosse al sistema capitalista da Giovanni Paolo II (ritenuto da molti, a torto, un pontefice reazionario) e l'enciclica Laudato si' di papa Francesco, in cui si afferma che l'uomo è chiamato a scegliere tra l'amore civile e politico e l'amor habendi, espressione dell'egoismo che alberga in ciascuno di noi.
 Il teorico della liberaldemocrazia John Rawls, dal canto suo, ha ripreso la distinzione (già presente in Marx) tra beni personali e beni produttivi. Le libertà fondamentali che devono essere garantite a tutti comprendono la proprietà dei beni personali ma non quella dei beni produttivi e delle risorse naturali. Il filosofo tedesco Ernst Wolfgang Bockenforde, invece, ritiene che occorra rovesciare il primato dell'individualismo proprietario - vale a dire l'idea che intorno a una forma storicamente determinata di proprietà, individualistica ed esclusivistica, si realizzi la fine della storia - per valorizzare l'antica idea secondo la quale i beni della terra sono destinati a tutti gli esseri umani; da qui sarebbe necessario partire per definire i nuovi limiti del diritto proprietario.
 A conti fatti, secondo Cesare Salvi, le premesse teoriche e antropologiche per porre fine all'egemonia del neoliberismo (e alle sue conseguenze: la frammentazione, l'individualismo, la crisi dei valori) esistono; perché questo risultato venga concretamente perseguito, tuttavia, occorre una "rivoluzione culturale" che consenta a tradizioni differenti di convergere politicamente verso un unico obiettivo.
 Il saggio dell'ex senatore e ministro ulivista ha il grande pregio della sintesi e la capacità di porre in modo non banale e con una scrittura sufficientemente chiara problemi veri, che chiunque si occupi non superficialmente di politica con la pretesa di lavorare per bene comune dovrebbe approfondire. Da leggere.

Voto: 8 

venerdì 22 dicembre 2017

Peter Rushforth, "Kindergarten", Elliot edizioni


 Nonostante il lieto fine che sovente ne corona la conclusione, le fiabe hanno la capacità di raccontare con straordinaria dolcezza e indicibile malinconia verità terribili, orrori che non risparmiano nessuno e che sono lo specchio di un mondo ai cui mali nemmeno l’infanzia – spesso convenzionalmente ritenuta una sorta di giardino felice – può sfuggire.
 Lo sa bene Corrie, un ragazzo inglese di sedici anni che da pochi mesi ha perso tragicamente la madre, caduta vittima di un attentato terroristico a Roma. Corrie attraversa un’età che lo pone giusto sul crinale che separa il mondo dei bambini da quello degli adulti, è in grado di osservare entrambe le condizioni, e può constatare come quasi mai ai bambini sia garantita quella serenità di cui avrebbero bisogno.
 Nella rarefatta atmosfera del Natale, mentre apre i regali assieme ai fratelli più piccoli, egli prova a sprofondare nell’illusione di essere ancora coccolato e protetto contro ogni avversità come si ritiene lo debbano essere i bambini, quando si rifugia nel seno della sua famiglia. E tuttavia si rende presto conto che l’illusione non può durare al cospetto della drammatica realtà che ha costantemente sotto gli occhi.
 La televisione, infatti, manda continuamente da Berlino le immagini del sequestro degli alunni di una scuola elementare da parte di un gruppo di terroristi appartenenti alla “Fenice Rossa” che minaccia di farne strage; e davanti a quei filmati Corrie soffre due volte, perché si identifica con i piccoli ostaggi e, contemporaneamente, non può che pensare al recente assassinio di sua madre. Inoltre, consultando l’archivio della sua biblioteca scolastica, negli ultimi tempi il ragazzo vi ha trovato una quantità di lettere risalenti agli anni trenta del Novecento e provenienti dalla Germania: lettere di genitori ebrei che supplicavano il direttore dell’istituto di accettare l’iscrizione dei propri figli minacciati dalla mannaia delle leggi razziali promulgate dal regime hitleriano. Quanti di quei ragazzi,  quanti di quei genitori sono riusciti a salvarsi dall’Olocausto? 

 Peter Rushforth

 La domanda si è fatta più urgente da quando Corrie ha scoperto di avere anche sangue ebreo nelle vene: ebrea è infatti sua nonna Lilli, che emigrò dalla Germania nazista in Inghilterra quando la situazione si fece insostenibile.
 Ma c’è di più: a Berlino Lilli era una giovane e brillante illustratrice di libri per l’infanzia che i nazisti non tardarono a dare alle fiamme; e da allora non ha più toccato un pennello. Solo di fronte alla tragedia dei nipoti rimasti orfani di madre e alla prospettiva della morte prossima l’anziana signora decide di tornare alla sua attività.
 Il dono a Corrie di una sua splendida tavola raffigurante Hansel e Gretel consentirà al ragazzo di chiudere dentro un cerchio magico, proprio come nelle fiabe, tutte le sue sofferenze.
 A quasi quarant'anni dalla sua uscita, il capolavoro di Peter Rushforth - scrittore inglese scomparso nel 2005 - conserva intatta tutta la sua bellezza e originalità. Il mondo delle fiabe, con la sua levità e la sua disarmante semplicità, fa esplicitamente da controcanto al mondo reale, rivelando quanto esso sia spietatamente crudele, forse addirittura senza prospettiva alcuna di riscatto, e non dia a nessuno la possibilità di essere veramente innocente.

Voto: 7

sabato 16 dicembre 2017

Alessandro Leogrande, "La frontiera", Feltrinelli


 La recensione di questo testo vuole essere anche un piccolo omaggio alla memoria di Alessandro Leogrande, lo scrittore di origine tarantina prematuramente scomparso pochi giorni fa, che è stato fra i maggiori studiosi nel nostro Paese dei fenomeni migratori.
 La frontiera di cui si parla nel titolo è quella - indefinita, per certi versi labile, mobile, ma nello stesso tempo drammaticamente concreta - che attraversa le acque del Mediterraneo e separa l'Europa dal continente africano: quella frontiera che negli ultimi anni centinaia di migliaia di persone hanno attraversato, e molte di più hanno anelato ad attraversare senza riuscirci, venendo risucchiate indietro nei gorghi dei conflitti e delle difficoltà da cui scappavano o - peggio - in quelli degli abissi marini, divenuti per troppi una fredda tomba blu.
 Per raccontare la storia di tutti questi uomini, Leogrande utilizza un duplice approccio: da una parte mette a fuoco l'esperienza viva di alcuni di loro, che ha conosciuto personalmente e che gli hanno affidato le proprie confidenze, dall'altra si sofferma su alcuni momenti chiave dell'epopea migratoria che si prestano ad assumere un valore emblematico (come il naufragio del 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa, presso l'Isola dei Conigli, in cui morirono 366 persone; o il pogrom scatenato il 22 maggio 2012 a Patrasso dai militanti della formazione neonazista Alba Dorata contro gli immigrati rifugiatisi in una fabbrica dismessa nella zona del porto; o l'uccisione di Muhammad Shahzad Khan a Tor Pignattara da parte di un ragazzino del quartiere aizzato dal padre, il 18 settembre 2014).
 Ma l'autore non si ferma mai alle pure suggestioni narrative: ciò che si racconta viene verificato attraverso i documenti disponibili - oppure interpellando testimoni diretti -, e poi analizzato con attenzione per cercare di cogliere le cause profonde dei fenomeni presi in considerazione, per provare a spiegarli con assoluta onestà, senza tirate ideologiche, senza ipocrisie, senza nascondere la complessità dei problemi che le migrazioni pongono.
 Così si svelano i percorsi che i migranti seguono a seconda della loro provenienza, i meccanismi e le logiche che regolano il traffico di esseri umani attraverso i confini tra gli Stati, le complicità esistenti tra i trafficanti di uomini e le autorità di diversi Paesi africani, le trappole in cui i migranti possono cadere, rimanendo incagliati per anni in una delle tappe del loro viaggio, o precipitando in buchi neri di violenza che li perdono definitivamente, senza che si possa sapere più nulla di loro.
 E, naturalmente, si scandaglia anche la spregevole sottocultura del razzismo, che non di rado devono affrontare coloro che ce la fanno, i migranti che riescono con grande fatica a costruirsi una nuova esistenza in Europa: quell'ostilità preconcetta nei confronti del "diverso", diffusa anche alle nostre latitudini, che ha origine nel falso mito della "corruzione" della sanità del nostro stile di vita e delle nostre tradizioni causato dall'arrivo degli stranieri, e che viene alimentata dall'indifferenza di fronte al dolore degli altri, dall'incapacità di mettersi nei loro panni, dall'automatismo per cui si è portati a scaricare su chi è più debole la colpa di problemi dalla genesi complessa, a cui magari non è estranea la nostra personale responsabilità; un'ostilità che, a ben vedere, ha a che fare solo indirettamente con i disagi e i problemi concreti che un massiccio afflusso di migranti può creare.
 Leogrande parla degli eritrei (come Gabriel Tzeggai o Syoum), in fuga da questa ex colonia italiana in cui il Fronte popolare di liberazione eritreo di Isaias Afewerki si è trasformato da movimento indipendentista e libertario in regime repressivo (in molti casi perpetuando i metodi autoritari degli antichi dominatori italiani) che, con la scusa del conflitto permanente con la vicina Etiopia, ha militarizzato totalmente la società, creando istituti odiosi come il servizio di leva permanente.
 Parla del Sinai, dove bande di predoni tengono prigionieri nel deserto i migranti che intercettano lungo le rotte dei loro spostamenti, e li rilasciano solo dopo aver ottenuto dalle famiglie di origine il pagamento di cifre altissime per il loro riscatto, sotto la minaccia di infliggere ad essi terribili torture.
 Parla delle prigioni libiche in cui, dopo l'inizio della guerra civile, i migranti sono spesso trattenuti in condizioni disumane, seviziati o prelevati solo per essere utilizzati come supporto a pericolosissime azioni belliche da parte di una delle fazioni in lotta: consegna di rifornimenti e munizioni ai soldati in prima linea sotto le bombe, operazioni di sminamento a mani nude (sovente fatte eseguire anche da minori) di porzioni del fronte strappate al nemico.
     
 Alessandro Leogrande

 Parla delle carrette del mare stipate all'inverosimile di passeggeri, e dirette verso le coste italiane sotto la guida di scafisti che spesso non sono altro che poveri pescatori, bassa manovalanza impiegata per i compiti più rischiosi da organizzazioni criminali totalmente prive di scrupoli, i cui capi mai si esporrebbero ai pericoli della traversata.
 Parla dei siriani - spesso famiglie borghesi, e non di poveri contadini come avviene per i migranti di altre etnie, abituate a un tenore di vita "occidentale" -, o dei curdi irakeni (come Shorsh), in fuga dalla guerra totale che ha inghiottito il loro Paese utilizzando le rotte che solcano la parte est del Mediterraneo.
 Parla degli afgani, che arrivano in Grecia attraverso l'Iran e la Turchia, per poi puntare verso il nord Europa via terra percorrendo la "rotta dei Balcani" fino all'Ungheria (come Aamir), oppure attraversando il mar Adriatico pericolosamente appesi sotto i camion che vengono imbarcati sui traghetti che partono da Patrasso e arrivano ad Ancona.
 La frontiera ci costringe a interrogarci sull'efficacia, sulla congruità e sulla moralità delle risposte istituzionali di fronte ai fenomeni migratori e del nostro atteggiamento al cospetto dei migranti: mette in luce le virtù e i limiti di Mare Nostrum, di Triton, di Frontex, le operazioni che, a livello italiano ed europeo, si sono succedute con lo scopo di scongiurare i naufragi nel Mediterraneo dei natanti utilizzati dai migranti, o, più modestamente e più egoisticamente, di contenere il numero di sbarchi sulle nostre coste.
 Una delle questioni più scottanti che questo libro porta a considerare - anche se paradossalmente riguarda decisioni prese in gran parte dopo la sua pubblicazione - è quella delle implicazioni che il cosiddetto "Protocollo Minniti", con l'impiego della Guardia costiera e delle milizie libiche per trattenere i migranti al di là del Mediterraneo, comporta a diversi livelli per la strategia di gestione dell'immigrazione.
 Sapendo cosa significa per i migranti, nella maggior parte dei casi, la permanenza nelle prigioni e nei campi di detenzione libici, è tollerabile sfruttare queste strutture per bloccare i profughi che tentano di imbarcarsi verso l'Italia? Posto che l'immigrazione va necessariamente regolata, non sarebbe forse meno ipocrita - e magari anche meno costoso - creare campi di raccolta direttamente sul nostro territorio, sotto la sorveglianza delle nostre forze dell'ordine e il monitoraggio delle organizzazioni umanitarie? Forse che i campi di raccolta risultano tollerabili alla sensibilità dell'opinione pubblica solo se sorgono lontani dai nostri occhi, anche se sono voluti e finanziati direttamente da noi? La presenza di simili strutture sul suolo europeo non porrebbe con maggiore forza il problema della  necessità della distribuzione dei migranti fra i diversi Paesi dell'Unione?
 I dubbi sollevati sono molto seri; anche perché, in fondo, la lezione principale che viene dal libro di Alessandro Leogrande è che la questione epocale delle migrazioni non si può eliminare pretendendo di mettere a punto una soluzione ideale capace di annullare in un colpo solo tutte le difficoltà che il fenomeno comporta (anche se affrontare il problema alla radice, cioè intervenire direttamente sugli Stati da quali il flusso di migranti ha origine aiuterebbe; ma è un approccio che i Paesi europei sono restii ad adottare, in primo luogo perché sarebbe molto complicato e darebbe risultati apprezzabili solo nel medio termine, in secondo luogo perché i nostri Governi hanno in quelle aree precisi interessi geopolitico-strategici che temono di compromettere...).
 Piuttosto si deve procedere via via con soluzioni di compromesso, scegliendo, di volta in volta, ove non è possibile ottenere il risultato migliore in assoluto, quello che costituisce il male minore. Nel far questo, però, è essenziale lasciarsi sempre guidare dai principi più alti che la nostra cultura ha saputo generare: la solidarietà, l'uguaglianza, il rispetto dell'integrità e dei diritti della persona umana.

Voto: 7

sabato 9 dicembre 2017

Kjell Westö, "Miraggio 1938", Iperborea


 Kjell Westö, scrittore finlandese di lingua svedese, firma un grande romanzo, forse il libro migliore che mi sia capitato di leggere quest'anno. 
 I fatti narrati in Miraggio 1938 abbracciano otto mesi (dal 16 marzo al 16 novembre), e si svolgono a Helsinki nell'anno chiave in cui l'Europa fu costretta ad assistere sgomenta e impotente a quella drammatica accelerazione del programma politico hitleriano che vide prima la realizzazione dell'Anschluss (l'annessione dell'Austria alla Germania nazista), poi l'occupazione tedesca della Cecoslovacchia - con la scusa della cosiddetta "questione dei Sudeti" -, infine l'esplodere della violenza antisemita nella raccapricciante Notte dei Cristalli, il pogrom in cui in tutta la Germania si scatenò una spietata caccia all'ebreo quasi casa per casa (a centinaia gli ebrei furono uccisi, i loro negozi e le loro abitazioni furono devastati, le Sinagoghe date alle fiamme).
 Questi angosciosi avvenimenti trovarono allora larga parte del ceto medio e dell'alta borghesia finlandese niente affatto ostile al regime nazionalsocialista e ai suoi presupposti: nonostante le perplessità suscitate in alcuni dalle intemperanze e dagli eccessi dei nazisti, Hitler era perlopiù guardato con simpatia - in quanto baluardo contro il bolscevismo - in un Paese che aveva conquistato l'Indipendenza dall'Impero Russo solo vent'anni prima, durante il Primo conflitto mondiale, passando attraverso una guerra civile breve ma atroce; una guerra in cui si contrapposero i Rossi, filocomunisti, che incarnavano il sogno di riscatto delle classi popolari ma erano sostenuti dai rivoluzionari russi - guardati con sospetto da tutti coloro che temevano il perpetuarsi del dominio straniero sulla loro terra -, e i Bianchi, alfieri delle ragioni dei nazionalisti e della borghesia conservatrice, spalleggiati da contingenti dell'esercito tedesco.
 I Bianchi riuscirono infine a prevalere, la Finlandia si staccò dalla neonata Unione Sovietica diventando una nazione indipendente, e per questo contrasse con la Germania - pure di lì a poco sconfitta nella Grande Guerra - un permanente debito di gratitudine.
 Contro i Rossi di scatenarono le vendette e non di rado il sadismo dei vincitori: umiliati pubblicamente, molti furono passati per le armi in seguito a processi a dir poco sommari, e ancora più numerosi furono quelli che morirono d'inedia e di stenti dopo essere stati rinchiusi nei cosiddetti "Campi di affamamento", in qualche modo tristi antesignani dei Lager della Seconda guerra mondiale.
 La guerra civile, naturalmente, ebbe strascichi che fecero sentire la loro influenza sulla società finlandese nei decenni seguenti; e la Finlandia del 1938 descritta da Westö appare un Paese che, in un mondo in tumultuosa trasformazione, è pesantemente zavorrato dalle scorie del suo recente passato, e per questo non riesce a esprimere un'opinione pubblica in grado di comprendere con lucidità il presente dell'Europa di allora.
 Protagonisti del libro sono l'avvocato Claes Thune e la sua segretaria, Milja Matilda Wiik.
 Thune ha poco più di quarant'anni, ed è un perfetto esponente di quella minoranza linguistica svedese che per secoli ha costituito la spina dorsale della classe dirigente della Finlandia (che, prima di passare sotto il dominio russo, era per l'appunto una propaggine della Svezia).
 Pur avendo parteggiato per i Bianchi durante la guerra civile - per via della sua appartenenza di classe -, Thune è decisamente un liberale per temperamento e convinzioni. Prima di darsi alla libera professione, ha fatto parte del corpo diplomatico finlandese a Stoccolma e a Mosca; rientrato a Helsinki, ha dovuto affrontare la dolorosa separazione dalla moglie tedesca Gabi, di cui è ancora malinconicamente innamorato, ma che lo ha lasciato per il suo migliore amico, il dottor Robi Lindemark.
 Il tradimento di Gabi e di Robi Lindemark ha profondamente prostrato Thune, in primo luogo perché l'avvocato considerava il fatto di avere sposato la moglie (bella, colta, di buona famiglia) la dimostrazione che sua madre - una aristocratica signora dalla mentalità reazionaria - ha torto nel considerarlo un fallito; in secondo luogo perché non si aspettava quel colpo basso da Robi, con cui aveva condiviso tutto fin dagli anni del liceo, compresa la fondazione del Circolo del Mercoledì, l'istituzione che riunisce i loro amici, tutti di lingua svedese e tutti appartenenti all'alta borghesia della Capitale, che una volta al mese si ritrovano a discutere di politica, cultura e società in un clima rilassato e conviviale.
 Il turbamento di Thune è vieppiù accresciuto dal disagio che gli provoca l'entusiasmo con cui molti dei suoi parenti e dei suoi stessi sodali guardano alla Germania nazista; eppure si sente tanto integrato nell'ambiente da cui proviene da non riuscire neppure a immaginare di staccarsene.
 Matilda Wiik, invece, ha quasi trentasette anni, è una donna riservata ed elegante e - dopo essere stata abbandonata dal marito - vive sola in un piccolo, decoroso appartamento in Michelingatan. In realtà non pare soffrire in maniera particolare di solitudine: quando può, fuori dal lavoro, ama prendersi cura di sé magari concedendosi una manicure in un salone di bellezza, o passare del tempo con le amiche; le piace leggere, ascoltare musica, ma soprattutto andare al cinema. Matilda non si perde un film fra quelli proiettati nelle sale di Helsinki - finlandese o straniero che sia -, conosce tutti gli attori originari del suo Paese e prova un'ammirazione sconfinata per i divi hollywoodiani.
 Sul lavoro, invece, è seria, silenziosa, svelta, irreprensibile. Thune non può che essere soddisfatto di lei, anche se non può dire di conoscere davvero la sua impiegata; sa soltanto che proviene da una famiglia modesta e laboriosa.

Kjell Westö

 La chiave dell'intreccio romanzesco sta nel continuo passaggio dal punto di vista di Thune a quello di Matilda; solo che, mentre di Thune riusciamo a seguire in maniera chiara lo sviluppo del pensiero e possiamo cogliere dubbi, dolori, debolezze, quando la prospettiva è quella di Matilda tutto diventa più nebuloso e problematico: un passato misterioso e terribile, che fatica a emergere e che appare tanto stridente con il presente della signora Wiik da sembrare irreale, tiene prigioniero tutto il suo essere fino a paralizzarne sentimenti e ragionamenti.
 A poco a poco qualcosa capiamo: Matilda, a soli sedici anni, dopo la morte dei genitori, per cercare di mantenere il fratello, si è aggregata all'esercito delle Guardie Rosse, alle cui ragioni la sua famiglia di estrazione proletaria era vicina; persa la guerra, è stata rinchiusa in un Campo di affamamento, dove ha assistito a orrori indicibili, ed è poi stata trasferita in un altro campo di prigionia nei pressi di Helsinki insieme ad alcune compagne. Qui, quasi ogni notte, ha dovuto sottostare alle violenze di un giovane ufficiale bianco (che Matilda ricorda semplicemente come il Capitano), che veniva a trovarla nella sua cuccetta prendendola con la forza.
 Il fatto è che Matilda ritrova il suo aguzzino quando meno se lo aspetta e dove meno se lo aspetta: è uno degli amici del suo datore di lavoro, uno di coloro che vengono spesso a trovarlo in ufficio e che ogni mese partecipano alle riunioni del Circolo del Mercoledì.
 I fantasmi del passato, così, tornano a perseguitare la signora Wiik, tanto più che il suo molestatore - che non l'ha riconosciuta - comincia a farle la corte. Matilda, da un canto, vorrebbe fuggire lontano da lui, dall'altro è spinta da quella parte di sé che non è mai uscita dal campo di concentramento (e che viene quotidianamente a tormentarla come uno spettro nell'incubo di un folle) a frequentarlo per cercare l'occasione di consumare finalmente la sua vendetta.
 Al lettore non viene rivelato fino alla fine il nome dell'amico di Thune dietro il quale si nasconde l'antico violentatore di Matilda; si è così portati a fare delle congetture sull'identità del Capitano (si tratta forse del ricco Polle Grönroos, uomo d'affari anticomunista e cliente dello studio di Thune, di Guido Röman, il giornalista sportivo dal membro virile di dimensioni spropositate, capace di suscitare l'ammirazione e la meraviglia di chiunque lo veda nudo, oppure di Lorens "Zorro" Arelius, medico di destra, ex atleta, nazionalista convinto, che condivide molte delle teorie dei nazionalsocialisti, il loro culto della "sanità" della mente e del corpo e il loro aggressivo atteggiamento verso la vita? Tutti costoro hanno prestato servizio nei Bianchi al tempo della Guerra civile...) che, però, si riveleranno inevitabilmente fallaci.
 Il progressivo crescere dell'inquietudine di Thune riguardo al futuro procede di pari passo con il montare in Matilda dell'orrore riguardo al suo passato.
 Thune precisa sempre di più il suo antinazismo, e arriva a dichiararlo a chiare lettere in un editoriale pubblicato sul principale quotidiano di Helsinki, che gli attira gli strali degli ambienti della destra reazionaria e porta addirittura a un'aggressione ai suoi danni da parte di due sconosciuti che lo aspettano una sera sotto il suo ufficio e lo percuotono fino a fargli perdere i sensi. E tuttavia egli sente come il proprio ragionevole argomentare sia del tutto inutile al cospetto del fanatismo e delle formule preconfezionate che gli contrappongono persone che pure hanno una formazione simile alla sua e appartengono alla sua stessa classe sociale, come Polle Grönroos o Zorro Arelius.
 La degenerazione del clima politico e sociale finlandese è drammaticamente rappresentato, agli occhi di Thune, dal precipitare nella follia di Jogi Jary, un brillante attore teatrale, un altro dei suoi amici d'infanzia e membro del Circolo del Mercoledì: Jogi è ebreo, e la sua ipersensibilità e la sua fragilità vengono esasperate dalle notizie delle violenze sistematiche sugli ebrei perpetrate in Germania e in Austria. Il colpo di grazia alla sua salute mentale viene inferto quando, durante una manifestazione internazionale di atletica leggera, il nipote Salomon Jary - che è uno sprinter di talento e che è in predicato di rappresentare la Finlandia ai prossimi Giochi Olimpici programmati per il 1940 - è scandalosamente retrocesso dal primo al quarto posto dai giudici di gara, disposti a coprirsi di ridicolo pur di compiacere gli ospiti della Federazione tedesca presenti allo stadio, che sarebbero infastiditi dalla premiazione di un ebreo (un episodio analogo è realmente attestato nelle cronache del tempo: il 21 giugno 1938, allo stadio di Helsinki, nella gara dei 100 metri piani, il velocista Abraham Tokazier, primo al traguardo, venne fatto figurare quarto nella classifica ufficiale, suscitando le proteste di una parte del pubblico che gremiva le tribune).
 A un certo punto pare che l'angoscia di Thune e quella di Matilda siano destinate a incontrarsi affinché i due possano sostenersi vicendevolmente. Ma capita invece che l'avvocato e la sua graziosa impiegata si sfiorino soltanto, precipitando poi ciascuno nel proprio buco nero: Matilda verso il tragico e autodistruttivo compimento del definitivo castigo del proprio carnefice (la cui identità viene svelata solo nelle ultime pagine del libro); Claes Thune verso la dissoluzione di ogni residua illusione di capire la realtà che si erge minacciosa contro di lui e di incidere su di essa per renderla migliore. La sua resa finale sta nella disperata constatazione che tutto ciò che pensava di vedere intorno a sé si è in verità rivelato un puro e semplice miraggio.
 Il libro è un autentico capolavoro: l'efficacia e la credibilità della sostanza narrativa si sposano con la meticolosa precisione nella resa del periodo storico e del clima emotivo che lo caratterizza; la scorrevolezza della scrittura esalta l'appassionante dinamismo della trama; la complessità della vita interiore dei protagonisti e la finezza del profilo umano di tutti gli altri personaggi sublima la rappresentazione di  meccanismi storico sociali la cui analisi filosofica risulterebbe sempre troppo schematica, banalizzante o comunque insoddisfacente.
 In parecchi hanno ultimamente paragonato la fase storica che stiamo vivendo al periodo che precedette la Seconda guerra mondiale (pensiamo ad esempio all'ultimo libro di Roberto Calasso). Alla luce di un simile accostamento, un romanzo come questo diventa uno strumento preziosissimo per meglio comprendere il presente.
 Assolutamente da leggere.

Voto: 9

venerdì 1 dicembre 2017

Cristina Grande, "Natura infedele", Marcos y Marcos


 Libro della scrittrice spagnola Cristina Grande uscito 2009, dallo stile accattivante e dalla splendida copertina.
 La vita di Renata e Maria, gemelle eterozigoti nate nel 1964 nella Spagna franchista, cresciute in un villaggio presso Saragozza e poi trasferitesi con la madre in città, nonostante un’infanzia trascorsa in seno a una famiglia nutrita di sicurezze borghesi, è priva di punti di riferimento realmente solidi. Tanto che Renata, che racconta in prima persona la loro storia, fatica persino a dare coerenza temporale alla propria narrazione, e si muove continuamente tra passato remoto e passato prossimo, tra il tempo dell’infanzia e quello dell’età adulta, componendo a poco a poco un lacunoso mosaico di ricordi che sono per lo più lo specchio del disorientamento esistenziale suo e della sorella.
 Le due ragazze crescono così chiedendosi se il proprio disagio sia frutto di difetti ad esse intrinseci o sia invece dovuto al fatto che gli esseri umani sono costretti a fare i conti con una natura irrimediabilmente “traditrice”.

 Cristina Grande

 Questo profondo disorientamento conduce Maria a scivolare nella dipendenza dalle droghe, e Renata a sviluppare una sorta di bulimia erotica che la porta a finire a letto con un incalcolabile numero di uomini, compromettendo la possibilità stessa di coltivare qualsiasi relazione stabile (il titolo allude ambiguamente proprio a questa instabilità sentimentale di Renata). Esiste una possibile via d’uscita dal dolore contenuto e costante che tutto questo comporta o si tratta di una condizione destinata a protrarsi indefinitamente?
 Con una scrittura sobriamente analitica, linda ed efficace, Cristina Grande costruisce questo piccolo, delizioso romanzo in cui la sofferenza, attutita dal filtro della nostalgia del passato che rende più piacevoli i ricordi, diviene leit-motiv esistenziale, elemento essenziale dell’esperienza individuale e fulcro di una visione del mondo che pare sempre suggestivamente emergere dietro un vetro appannato.

Voto: 7