venerdì 28 dicembre 2018

Sébastien Japrisot, "La cattiva strada", Adelphi


 Le Mal Partis fu pubblicato in Francia nel 1950, quando il suo autore non aveva ancora compiuto diciannove anni; significativamente il libro piacque alla critica, ma il pubblico si mostrò piuttosto tiepido nei confronti di un'opera che trattava un argomento realmente scabroso.
 In Italia il romanzo fu introdotto solo nel 1979, con il titolo Storia d'amore di una suora, una tiratura limitata e la scelta di indicare quale autore Jean-Baptiste Rossi, senza utilizzare lo pseudonimo sempre usato da questo scrittore: Sébastien Japrisot. 
 L'odierna pubblicazione da parte di Adelphi rappresenta dunque qualcosa di nuovo, e offre l'occasione per far conoscere anche nel nostro Paese un testo notevole sotto diversi aspetti.
 La storia raccontata è quella di una inconfessabile relazione tra una suora ventiseienne e uno studente di soli quattordici anni. Il romanzo, però, è privo di autocompiacimento e, paradossalmente, anche di qualsiasi traccia di morbosità: Japrisot, infatti, riesce a tenersi contemporaneamente lontano dall'attitudine solo superficialmente trasgressiva propria, ad esempio, del giornalismo scandalistico - o di certa letteratura di consumo -, e dai luoghi comuni della letteratura erotica; al contrario, presenta e sviluppa la vicenda narrata con precisione analitica, senza orpelli retorici e senza indugiare su particolari inutili o su scene non essenziali nell'economia narrativa, ma allestite a bella posta per sgomentare il lettore.
 In questo modo riesce a problematizzare il racconto, a suscitare dubbi profondi sulla presunta innaturalità e sulla pretesa illiceità di un amore apparentemente inconcepibile, e in definitiva a creare un'opera capace di dare realmente scandalo, come solo i capolavori sanno fare.
 Denis Leterrand frequenta la quarta classe del collège presso un istituto religioso gestito dai padri Gesuiti in una città nel sud della Francia occupata dalle truppe naziste. Siamo nel 1943, ma la guerra gli scorre accanto senza toccarlo: le sue giornate, all'ombra della ristrettezza di vedute dei genitori prigionieri degli schemi di una mentalità tipicamente piccolo-borghese, e della grettezza dei sacerdoti che svolgono le mansioni di insegnanti e sorveglianti a scuola, si snodano fra le pastoie di precetti convenzionali improntati a un'insopportabile ipocrisia. Per questo il ragazzo è sempre più inquieto e indisciplinato, e vive nell'attesa che un grande cambiamento venga a liberarlo dalla collosa monotonia a cui si riduce la sua vita quotidiana.
 Con tutto ciò, Denis è ancora pieno di candore: la sua fede in Dio è autentica, e un'assoluta onestà caratterizza il suo modo di guardare se stesso e il mondo. Così, quando incontra per caso suor Clotilde presso l'ospedale dove gli studenti dell'istituto si recano ogni giovedì per portare conforto ai vecchi malati, non c'è malizia nel trasporto con cui egli nota quanto la giovane monaca sia più graziosa delle sue consorelle, né nell'insistenza con cui in seguito tenta di rivederla e di conoscerla meglio.

 Sébastien Japrisot

 Del resto, anche suor Clotilde - che pure ha dodici anni più di lui - è pervasa di candore: ha preso i voti quasi senza pensarci, e praticamente senza conoscere né il mondo né se stessa, perché i suoi genitori hanno deciso per lei quale sarebbe stata la sua strada.
 Il fervore di Denis suscita in lei un sentimento mai provato prima: un sentimento che dapprima la ragazza scambia per una manifestazione del proprio sopito istinto materno, ma che a poco poco si palesa per qualcosa di diverso, qualcosa che è capace di scuotere tutto il suo essere, fino a confondere la sua visione del mondo, fino a piegare la sua volontà.
 In fondo, come nota a un certo punto la stessa suor Clotilde, è come se i due ragazzi fossero coetanei: l'assoluta mancanza di esperienza della giovane suora annulla la differenza d'età, e fa sì che lei e Denis scoprano insieme la prepotenza dell'attrazione reciproca.
 E quando il demone dell'amore si impadronisce definitivamente di loro, non c'è davvero nulla che riesca a opporsi alla loro nascente passione: non la paura della legge degli uomini, non il timore nei confronti della legge di Dio che hanno interiorizzato fin da bambini, non il senso della convenienza, non il rimorso nei confronti dei genitori di Denis, o della superiora responsabile del convitto in cui suor Clotilde presta servizio come insegnante; Denis e Claudie - questo il vero nome della suora - sono disposti a tutto pur di stare insieme.
 Con estrema audacia, suor Clotilde ottiene di poter utilizzare come pied-à-terre l'appartamento lasciato vuoto da una sua amica e compagna di studi destinata a sposarsi e a trasferirsi col marito fuori città: è lì che lei e Denis si amano per la prima volta.
 Più avanti, anche le circostanze li aiutano: la città in cui si trovano viene bombardata dagli Alleati, frattanto sbarcati in Normandia; i genitori di Denis vorrebbero mandare il ragazzo in campagna, e suor Clotilde - che nel frattempo ha cominciato a dargli ripetizioni di latino per avere il pretesto di vederlo più spesso - si offre di portare con sé il suo giovanissimo amante segreto a Villarguier, per ospitarlo, lontano dai rischi della guerra, in una casa appartenente alla propria famiglia.  
 E tuttavia, gli abitanti del piccolo villaggio non tardano ad accorgersi dell'eccessiva intimità esistente tra quel ragazzino e la suora, che sempre più spesso sveste la tonaca per indossare abiti civili. Quando il postino li sorprende mentre giocano a inseguirsi in un prato, e poi il figlio della fornaia del paese li scorge mentre si scambiano un bacio ai margini del bosco, lo scandalo è enorme. 
 Claudie, nonostante il tentativo della superiora (avvisata della situazione che si è venuta a creare dal parroco della pieve locale) di farla tornare sui propri passi, abbandona il velo; Denis, richiamato in città dai suoi genitori atterriti dalla prospettiva del clamore che l'avventura del ragazzo potrebbe suscitare, viene spedito come residente in un collegio di Grenoble, in cui è destinato a restare rinchiuso come in un carcere fino al Baccalauréat.
 In una straziante scena finale, Denis viene trascinato sul treno che lo porta verso la sua prigionia da due preti che lo scortano come fossero secondini, mentre Claudie, in lacrime, gli giura eterno amore e gli promette che lo aspetterà negli anni a venire. 
 La lettura del testo, con il suo stile minuzioso e incisivo, dà un capogiro che non c'entra nulla con il gusto del proibito: si finisce per chiedersi seriamente se norme etico-filosofiche che di solito riteniamo facciano parte della struttura portante della morale naturale non siano, in fondo, relative, e se la loro validità non dipenda dalle circostanze particolari in cui ci si richiama ad esse, e dagli individui a cui si pretende di applicarle.

Voro: 8 

domenica 16 dicembre 2018

Patrick Modiano, "Ricordi dormienti", Einaudi


 In un'epoca in cui quasi tutti gli scrittori, indipendentemente dalla loro caratura letteraria e dalla loro impostazione stilistica, si adeguano ai moduli di una narratività linearmente distesa, Patrick Modiano si dimostra capace di fare suo un modo di raccontare diverso: un procedimento che, sovvertendo l'ordine logico e cronologico degli avvenimenti presentati, si può ben ricondurre all'ambito dello sperimentalismo antinarrativo così lontano dalle mode attuali.
 Lo si vede bene in  questo Ricordi dormienti (Souvenirs dormants), dove lo scrittore che ha fatto della persistenza fisica della memoria la cifra caratteristica della sua poetica prova ad andare oltre se stesso per esplorare i territori incogniti delle potenzialità non realizzate, gli ingannevoli fantasmi del ricordo di ciò che avremmo voluto o potuto effettivamente fare ma che, alla fine, non abbiamo fatto.
 Il fenomeno messo a fuoco è quello per cui gli atti solo immaginati, attraverso il filtro della memoria, riescono talvolta ad assumere uno statuto di realtà addirittura pari o superiore a quello del ricordo di situazioni concretamente vissute.
 In questo modo, verità e fantasia, attestazioni documentarie e vaghe supposizioni tendono a confondersi facendo apparire la struttura mnemonica intorno alla quale è costruita la nostra personalità qualcosa di quantomai impalpabile e precario: qualcosa che è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
 La frase chiave che spiega come sono concepite le avventure che costituiscono i pezzi del frammentato racconto di questo libro appare verso la fine del romanzo, mentre il protagonista narratore, dopo aver ritrovato un foglio dall'inchiostro stinto che riporta misteriose indicazioni stradali - forse vergate da uno sconosciuto - per raggiungere una località da lui mai visitata fuori Parigi, accarezza l'idea di recarsi veramente in quel luogo. Riflettendo sui propri atti mancati, il protagonista dice allora : "Migliaia e migliaia di sosia di te stesso si avventurano sulle migliaia di strade che non hai imboccato ai crocevia della tua vita, e tu che credevi che ci fosse una strada soltanto".

Patrick Modiano

 E' da qui che bisogna partire per capire come lo stralunato Jean, dopo essere caduto preda di una estemporanea vertigine sul lungosenna, di fronte a un libro il cui titolo evoca per lui un tempo lontano, richiama alla memoria - in un disordinato resoconto - le donne da lui incrociate negli anni sessanta del Novecento, intorno ai suoi vent'anni, o poco prima, o poco dopo, e che poi ha perso di vista, o che ha piantato in asso senza sapere bene perché: dalla "figlia di Stioppa" (un misterioso amico russo di suo padre) a Mireille Uruzov, l'attrice che lo ospita nel suo appartamento parigino in occasione della sua fuga da un collegio in Alta Savoia; da Geneviève Dalame - appassionata di scienze occulte - alla sua esperta amica Madeleine Péraud; dalla signora Hubersen all'anonima ragazza soccorsa da Jean nel 1965 - forse solo con la fantasia - dopo essere rimasta coinvolta nell'omicidio di un comune conoscente.
 D'altra parte non è affatto certo che sia davvero Jean il protagonista di quelle avventure: persino lo statuto identitario del soggetto perde insensibilmente, progressivamente determinatezza.
 Nel vortice nebuloso di avvenimenti parzialmente decontestualizzati - o riferiti in maniera sommaria e imprecisa - che si succedono e si confondono nella narrazione senza che sia individuabile altro filo logico da quello costituito dalla dichiarata aleatorietà degli incontri che segnano una vita, ogni cosa assume una consistenza quasi onirica, che affascina e intriga con la lusinga delle domande senza risposta che fa nascere.
 La lettura risulta così piacevole, interessante e anche paradossalmente scorrevole.

Voto: 6,5    

domenica 9 dicembre 2018

Sandra Petrignani, "La scrittrice abita qui", Neri Pozza


 Mi sono imbattuto di recente in questo libro e, anche se è stato pubblicato per la prima volta ormai una quindicina di anni fa, ho deciso di parlarne qui oggi: in fondo i buoni libri non hanno una data di scadenza, e poi, in questo caso, il testo è ancora tranquillamente reperibile sul mercato.
 L'idea da cui parte Sandra Petrignani è semplice e originale: l'autrice visita le abitazioni di sei scrittrici fra le più grandi del Novecento, sulla base della convinzione che una casa conservi sempre in qualche modo l'impronta di chi l'ha abitata e ci racconti qualcosa di molto intimo e di estremamente autentico sul suo modo di essere; e da qui parte per esplorare quelli che ritiene gli aspetti più significativi delle biografie di questi personaggi, lasciandoci intuire, così facendo, anche qualcosa di se stessa.
 Le sei scrittrici prese in considerazione sono, nell'ordine: Grazia Deledda, di cui viene visitata la casa natale di Nuoro, ma della quale vengono ricordate anche le abitazioni romane, e la casa per le vacanze che acquistò a Cervia; Marguerite Yourcenar, per la quale si parte dalla bianca magione di Petite Plaisance, la casa a Monts-Desérts - nel Maine, quasi al confine col Canada - che l'autrice di Memorie di Adriano divise prima con Grace Frick, la compagna di una vita, poi con Jerry Wilson, l'amore dell'estrema vecchiaia; Colette, della quale si visita il paese natale in Borgogna, Saint-Sauveur-en-Puisaye, dove è stata ricostruita la famosa camera da letto completamente rossa, tanto somigliante alla stanza di un bordello, in cui la scrittrice passò, a Palais-Royal, gli ultimi anni di vita, immobilizzata dall'artrite; Alexandra David-Néel, la cui casa-museo a Digne les Baines è quanto mai rappresentativa della capacità di questa donna, definita da alcuni "la più grande esploratrice del Novecento", morta a 101 anni e lucidissima fino alla fine, di fondere lo spirito dell'Oriente e quello dell'Occidente, riproducendo in Francia uno stile di vita tibetano; Karen Blixen, che imparò ad amare la sua grande tenuta a Rungsted, non lontano da Copenaghen, solo nella fase finale della propria esistenza, senza peraltro smettere mai di rimpiangere la mitica fattoria descritta ne La mia Africa, che ella possedette fra gli anni dieci e gli anni venti del Novecento in Kenya, ai piedi delle colline Ngong; infine Virginia Woolf della quale si esplorano la dimora di Charleston, nel Sussex, sede del celebre Bloomsbury Group, e la poco lontana Monk's House, nella quale Virginia passò con il marito Leonard l'ultima parte della sua vita. 
 Fra l'altro, significativamente, il capitolo dedicato a Virginia Woolf viene lasciato per ultimo, nonostante la Petrignani confessi di avere avuto l'intuizione che sta alla base di questo libro proprio a Charleston, nell'edificio che conserva l'impronta non solo di Virginia, ma anche e forse soprattutto della sorella Vanessa Bell - che ne fece una sorta di tempio volto alla celebrazione del suo amore impossibile per l'omosessuale Duncan Grant -, mentre a Monk's House le tracce di Virginia convivono con quelle della sua storica, aristocratica amante, l'affascinante Vita Sackville-West.
 Il modo di procedere di Sandra Petrignani è turistico nell'accezione più nobile del termine: un colto vagabondaggio nella vita delle scrittrici rievocate che, quasi casualmente, senza seguire un piano sistematico di analisi e di restituzione documentaria, consente di toccare tutto ciò che di importante si può dire su queste donne: il loro percorso di formazione, il loro rapporto con l'amore e il sesso, con gli uomini e con le donne, i sogni che coltivarono, lo stile di vita che fecero proprio, la nascita e lo sviluppo della vocazione per l'arte che le rese famose, l'atteggiamento con cui affrontarono la vecchiaia e la morte.
 A volte sembra quasi che Petrignani si comporti con le biografie delle sei scrittrice come una bambina che insistentemente accarezza una coperta di velluto per spiarne con la massima attenzione i disegni che si formano sulla sua superficie, per goderne e per trarne divinazioni e per costruire su di essi vaghe fantasie. Nascono così i passi più belli di questo libro, come quando si ricordano i biglietti d'auguri dolci e infantili scritti per san Valentino da Marguerite Yourcenar a Grace Frick, così in contrasto con l'immagine di monumentale grandezza e di olimpico controllo delle proprie emozioni che la scrittrice amava dare di sé, tanto da permettere di aprire una riflessione sull'inafferabilità del suo temperamento. O come quando si racconta l'insistenza della giovane Colette sulla propria predilezione per la lettura e sull'assenza in lei del bisogno di scrivere, inclinazioni tanto esibite da far sospettare un "desiderio gigante" di diventare scrittrice; un desiderio che affondava le radici nell'orrore in lei suscitato dalla scoperta dell'impotenza nei confronti della scrittura del padre, un capitano dell'esercito con una gamba sola che, per tutta la vita, progettò la pubblicazione delle proprie memorie in una serie di colossali volumi (per i quali scelse la carta, che rilegò e confezionò, mettendo un titolo a ciascuno di essi), senza essere in grado in realtà di scriverne una sola pagina. O ancora, come quando si rievoca l'accostamento operato da Karen Blixen fra la bellezza di una giovane leoncina ricevuta in regalo dai suoi servitori in Kenya e la freschezza e l'innocenza di Marilyn Monroe, conosciuta nel 1959 durante un trionfale giro di conferenze tenuto dalla scrittrice danese negli Stati Uniti.

Sandra Petrignani in una foto di alcuni anni fa

 Nonostante la grande quantità di informazioni riportate, questo approccio parzialmente rabdomantico e aneddotico rende la lettura di questo testo sempre piacevole e particolarmente lieve, e in più consente al lettore di farsi un'idea piuttosto precisa, sintetizzabile in pochi tratti emblematici del carattere essenziale delle sei scrittrici. 
 Così, di Grazia Deledda si ricorda la grande tenacia, che le consentì di abbandonare la Barbagia - il "cuore di tenebra della Sardegna" - di trasferirsi sul continente e di diventare scrittrice, arrampicandosi fino al premio Nobel nonostante non avesse avuto la possibilità di studiare oltre la quarta elementare; senza peraltro che per questo possa essere confinata entro la riduttiva categoria del verismo naif, etichetta che alcuni critici poco accorti cercarono di affibbiarle (per me la Deledda non è ascrivibile al verismo o al decadentismo, come la maggior parte dei critici italiani vorrebbero, e neppure al romanticismo gotico come ritiene dovrebbe essere la scrittrice sarda Michela Murgia; piuttosto è un esempio unico di declinazione italiana del simbolismo, privo di tutte le banalità di un Gabriele d'Annunzio).
 Di Marguerite Yourcenar viene sottolineata la vitale voracità (che si esprimeva nel suo desiderio di sedurre uomini e donne) associata all'assoluto autocontrollo che seppe esercitare su di sé nella letteratura come nella vita (dopo gli anni giovanili, eroticamente disordinati, convisse per decenni con Grace Frick praticamente more uxorio).
 Colette viene identificata con l'istinto trasgressivo associato al legame profondo con certi elementi della cultura francese (memorabile il giudizio che di lei diede proprio Marguerite Yourcenar, che vi vedeva l'emblema "della ricca e grassa Borgogna", della "parte portinaia e cartomante" così caratteristica di una certa Francia fra il 1900 e il 1946, dotata di un suo specifico codice di comportamento, in cui ciò che era conveniente e ciò che era sconveniente veniva stabilito sulla base di logiche non meno complicate di quelle che regolavano i rapporti tra le persone nella vecchia Cina).
 Alexandra David-Néel resta memorabile per la sua capacità di dare vita a una versione tipicamente occidentale del buddismo tibetano (considerava il sesso una perdita di tempo, ma rimase sposata tutta la vita con il marito, che non ne condivideva né la visione del mondo né la frugalità dello stile di vita, ma che ne rispettò sempre le scelte; persino quella di vivere lontana da lui, e di amarlo soltanto attraverso una assidua, tenera corrispondenza epistolare), per la sua inesauribile operosità, per il mite rigore con cui restò fedele a se stessa per tutto l'arco della sua lunghissima esistenza. 
 Di Karen Blixen non si può dimenticare il desiderio di riprodurre uno stile di vita aristocratico-feudale, che riuscì a incarnare nel corso della sua esperienza africana e che poi rimpianse per tutta la vita; l'attrazione che sempre nutrì per gli uomini di bell'aspetto capaci di dare vita al modello del maschio distinto e virile; l'amore viscerale per gli animali; la capacità di raggiungere vette stilistiche mirabili, nonostante avesse esordito nella scrittura solo a 49 anni di età, e quella di rappresentare in modo scintillante, al pari di Samuel Beckett, l'icona dello scrittore da vecchio.
 Infine, il contributo di questo libro a una miglior conoscenza della pur studiatissima Virginia Woolf consiste nella capacità di definirne i tratti caratteriali comparativamente, accostandola alla sorella Vanessa Bell - più estroversa ed eroticamente molto più sicura di lei - e dell'amica Vita Sackville-West, la cui fisicità e il cui fascino cozzavano con l'astratto intellettualismo della Woolf, che visse sempre di voli letterari, e forse fu indotta al suicidio proprio dal fatto che la vecchiaia e la guerra la costrinsero tirannicamente a fare i conti con i limiti della propria mai accettata corporeità.
 Concludo scegliendo, fra tutte le personalità letterarie presentate - anche per come sono presentate -, la mia preferita. Non ho dubbi in proposito: si tratta di Marguerite Yourcenar. 

 Voto: 7,5    

domenica 2 dicembre 2018

Antonella Anedda, "Historiae", Einaudi


 Il sentimento dominante di questa raccolta di Antonella Anedda è una composta afflizione che deriva dal convergere della prospettiva della morte, della propria sofferenza individuale e dell'osservazione del dolore degli altri, e si risolve in un ostinato, attento bordeggiare tra i gorghi dell'angoscia e quelli della più profonda desolazione.
 Sei sono le sezioni in cui il libro è diviso: Osservatorio, l'eponima Historiae, Occidente, Animalia, Anatomie e Futuro anteriore.
 In Osservatorio fa inizialmente capolino la lingua sarda, utilizzata in maniera piuttosto originale: non viene infatti presentata come uno strumento per restituire la realtà in maniera più schietta, immediata, autentica, come talvolta pretende di fare chi scrive in dialetto; piuttosto funge da controcanto emotivo al piglio analitico del testo italiano, che traduce o da cui è tradotta (nello stesso componimento, lo stesso contenuto è presentato talvolta prima in sardo e poi in italiano, talaltra prima in italiano poi in sardo). 
 La vanità della presunzione umana, l'indifferenza delle leggi della natura alla presenza dell'uomo, la nostra impermanenza individuale rispetto agli elementi che compongono l'universo è qui messa a fuoco con precisione in versi di una certa efficacia (si veda Sciami, fotoni: "All'improvviso invece in un angolo del letto / è apparso il sole, scavava silenzioso una sua strada / verso un luogo dove s'irradia luce / e non esistono i pronomi."; o anche Nuvole, io: "Alla fine torno all'io che finge di esistere, / ma è una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdura o pesce surgelato."; o ancora Macchina: Ogni sette anni si rinnovano le cellule: / adesso siamo chi non eravamo. / Anche vivendo - lo dimentichiamo - / restiamo in carica per poco.").
 In Historiae l'attenzione viene rivolta a coloro che, più di tutti, nella nostra epoca, sono l'emblema della fatica del vivere, della sofferenza, della lotta talvolta vana per conquistare il diritto a sperare: i migranti. Nella più politica delle sezioni della raccolta, rifacendosi a Tacito, che in Annales è esplicitamente citato nel testo del componimento, e di cui in Esilii viene riportato in esergo un passo famoso ("… plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli"), il fenomeno delle migrazioni, con le immani catastrofi di cui è costellato, viene descritto con un approccio che dall'epica trascolora presto nella tragedia, con un'attenzione spasmodica ai particolari macabri della morte violenta ("Oggi penso a due dei tanti morti affogati / a pochi metri da queste coste soleggiate / trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati. / Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo / e cosa ne sarà del sangue dentro il sale"; "Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma / prima rosso poi livido infine si fa polvere / e può - sì - sciogliersi nel sale").

Antonella Anedda

 Ma le Historiae raccontate non sono solo quelle degli altri: irrompe qui anche il tema assai ingombrante del rapporto con la malattia e poi la morte della madre, e quello della complessità del sentimento amoroso, trattati in versi che sono fra i più belli che si possono leggere qui ("Quando mia madre nuotò per l'ultima volta / il mare stormiva come un pioppo"; "Era lei, nel vapore salito dai cespugli? / La chiamai pur sapendo anche io come tanti / che la risposta sarebbe stata il silenzio, / eppure emisi un suono / percependo nella mite pazzia di quel richiamo / il lembo di una stoffa, l'orlo di un gomito, la pelle"; "Somiglia a un pigiama e ha un odore di lama / e ci sono altre cose: l'asciugamano che si può scambiare / le poltrone vicine davanti al televisore / l'insofferenza per le reciproche mancanze / che però si svuota come si fa con le buste della spesa. / Molte leggende, il sesso sopravvalutato / ma non la solitudine che segue").
 Occidente, la più breve delle sezioni, getta un ponte fatto di suggestioni tra le periferie delle nostre città e i paesaggi di un mondo che non appartiene alla sfera culturale dell'Occidente, che ci domina e ci determina con le sue regole e i suoi luoghi comuni.
 Animalia trasforma l'osservazione di specie diverse dalla nostra, e la constatazione che la nostra stessa sofferenza riguarda anche gli animali, in una forma di espressione lirica che, sostanziandosi in una pietà profonda per il comune destino di tutti gli esseri viventi, risulta lievemente consolatoria ("L'ape dormiva la sua morte di ape senza miele. / Stavolta ho spalancato i vetri, ho soffiato con forza / e si è posata un'ultima volta sulla terra bagnata"; "Vieni mio solo amore del momento / teniamoci vicini, riposa sul mio letto / - un tocco di tepore prima che la notte cada / e ci separi -, mio gatto bianco e grigio"; "Oggi mi cura guardare un grumo di formiche: / il pulsare del nero, l'affannarsi a ridosso di una tana / il filo di necrofori con un moscerino, / lo stuolo di operaie in marcia / verso il loro villaggio da preistoria").
 In Anatomie torna ad affacciarsi la lingua sarda, che questa volta, nella sua essenzialità, serve ad addomesticare il dominante pensiero della morte, a renderlo meno ossessivo, meno cupo, più famigliare ("Non tenes baule 'e istrisinare in supr'e nie / ma unu cane a tremula in s'iscuriu" - Non hai bara da trascinare sulla neve / ma un cane che trema nel buio).
 Infine, Futuro anteriore celebra l'accettazione della nostra precarietà individuale, della serenità che è capace di donarci la prospettiva secondo la quale il mondo continuerà a esistere anche dopo la nostra scomparsa ("per qualcuno non diventerà mai sera, / qualcuno porterà fuori l'immondizia / e ascolterà lo scroscio della pioggia improvvisa").
 La più bella delle poesie qui raccolte, a mio parere è Perlustrazione 1, sulla morte della madre:

Entro con mia madre nella morte. Lei ha paura.
Cerco nella mia filosofia qualcosa che ci aiuti,
parlo della cicuta e degli stoici,
dico la solita frase che quando noi ci siamo, lei, 
la morte, scompare, ma non funziona
anzi cresce dentro di me il terrore.
Aspetta, le dico mentre dorme ora vado a guardare.
Perlustro la zona (sarà quella?)
solo per constatare che non c'è difesa,
che il suo spazio, quello che la fisica dice
sia presente fin da quando nasciamo,
è sguarnito di ogni compassione
e il tempo è davvero il buco che divora.
Allora mi stendo contro di lei dentro il suo letto.
Aspetto come smette il suo odore mentre muore.

Voto: 6,5

venerdì 23 novembre 2018

Anthony Hecht, "Le ore dure", Donzelli


 Raramente un poeta è in grado di suscitare in me un turbamento come quello provocato dai versi di seta di Anthony Hecht.
 Sotto le ampie volute classiche del pentametro giambico sono in agguato sentimenti archetipici, che contemplano una tale varietà e vastità di stati d'animo da tollerare anche la contraddizione: dall'angoscia alla pietà, dalla paura alla malinconia, dall'ammirazione al disprezzo, dalla gioia alla disperazione, dalla volontà di riscatto al morboso compiacimento sadico.
 Il perfetto controllo della sintassi, il lessico ricercato e persino prezioso, la cesellata precisione delle immagini non fanno altro che esasperare le emozioni violente che deflagrano come un'esplosione nucleare al termine della reazione a catena innescata dall'inesorabile congegno di questi calibratissimi metri.
 Tali emozioni sono perlopiù di segno negativo, perché il sostrato filosofico della poesia di Hecht è senza dubbio intriso di pessimismo: la cultura, le convenzioni sociali, l'etica stessa appaiono come semplici maschere atte a nascondere una barbarie cieca, crudele, quasi inarginabile, che è sempre pronta a prendere il sopravvento su qualsiasi pretesa di civiltà e che, forse, costituisce la vera natura dell'essere umano.
 Una visione di questo tipo è frutto non solo dell'esperienza biografica di Anthony Hecht - che, come è noto, durante la Seconda guerra mondiale, soldato americano in Europa, ebbe modo di interrogare i reduci dai campi di sterminio, e assorbì tutto l'irriducibile orrore dei loro racconti -, ma anche della rivisitazione dell'intera storia dell'uomo e della rilettura dei rapporti tra le forze che normalmente regolano l'agire umano alla luce del buco nero delle atrocità del XX secolo.
 L'antologia pubblicata da Donzelli prende il titolo dalla più famosa e forse più bella raccolta di poesie di Hecht, The Hard Hours, che gli valse il premio Pulitzer nel 1968, ma comprende anche molti dei componimenti più significativi delle raccolte successive: Millions of Strange Shadows, The Venetian Vespers, The Transparent Man, Flight Among the Tombs e The Darkness and the Light.
 Temi ricorrenti lungo i diversi decenni che abbracciano queste raccolte sono la straordinaria capacità di fascinazione dello spettacolo del mondo ("Alberi e massi capovolti fremono lungo la sponda / in tenebra levigata. Bagliori d'argento si frangono / tra il fogliame liquido, e subito svaniscono // tutto è coperto e indiamantato di bagnato" da Still Life) e della proteiforme ambiguità dei comportamenti umani ("Credo che su quell'altezza io fossi davvero felice. / Anche se con il passare del tempo ne so sempre meno / di cosa sia la felicità, a meno che non sia / ciò che la saggezza popolare celebra come ignoranza. / Dante afferma che il peggiore dei tormenti / è ricordare la felicità una volta che è passata. / Sono troppo inebetito per sapere se ha ragione" da See Naples and Die), e l'angoscia che pervade il destino dell'uomo, ineluttabilmente votato alla violenza ("Quante volte hai pensato a quel campo, / come se in modo arcano ti spingessero a quel posto, / e ai bambini, a come furono costretti al cammino, / Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno / oltre i conque anni, cui si impose di lasciare il pasto / e trascinarsi tra guardie armate a quella lunga casa" da The Book of Yolek).
 Negli ultimi anni, pur conservando questa impostazione di fondo, le poesie di Hecht si fanno però più raffinatamente metaforiche, meno narrativamente complesse, composte piuttosto in quadri segnati da immagini icasticamente perfette, anche se meno esplicite di un tempo. Penso ad esempio ai versi di Death the Whore, "Morte Puttana", in Volo tra le tombe ("E adesso quando ti torno in mente, la voce / che senti non è la voce di ciò che ero, / giovane e sexy e forse innamorata, / ma la voce stanca modellata nella tua mente / attempata / da un minuscolo sedimento di fatto e diceria, / una voce senza volto, una voce priva di corpo. // E quanto alla scena invernale che più su / riassumo - / il fumo, mio caro, il fumo. Io sono il fumo").  

Anthony Hecht

  Tra tutte le poesie di Hecht, la più bella, a mio parere, è Behold the Lilies of The Field (Guardate i gigli del campo), in cui un paziente, durante una seduta di psicoterapia, passa dal racconto della totale perdita di fiducia in sua madre, che durante una telefonata a un'amica ha rivelato di saper essere insincera, alla narrazione di un'altra traumatica esperienza che non è riuscito a superare: solo che questa seconda, terribile esperienza è la visione dello scuoiamento dell'imperatore romano Valeriano da parte del re barbaro che lo aveva fatto prigioniero. Il paziente si rivela così essere - con straordinario cortocircuito temporale - un legionario romano, condannato ad assistere al dissolversi dell'onore di Roma, il pilastro che sosteneva l'intera impalcatura della sua visione del mondo. Riporto qui sotto i versi più significativi di questa lunga poesia, l'originale inglese e la traduzione italiana:

Oh yes. I remember now what it was.
It was what I saw them to do the emperor.
They captured him, you know. Eagles and all.
They stripped him, and made an iron collar for his neck,
And they made a cage out of our captured spears,
And they put him inside, naked and collared,
And exposed to the view of the whole enemy camp.
and I was tied to a post and made to watch
When he was taken out and flogged by one of their generals
And then forced to offer his ripped back
As a mounting block for the barbarian king
To get on his horse;
And one time to get down on all fours to be the royal throne
When the king received our ambassadors
To discuss the question of ransom.
Of course, he didn't want ransom.
and I was tied to a post and made to watch.
[...]
And then suddenly
There were no more floggings or humiliations,
The king's personal doctor saw to his back,
He was given decent clothing, and the collar was taken off,
And they treated us all with a special courtesy.
[...]
Then later that month, it was a warm afternoon in May,
The rest of us were marched out to the central square.
The crowds were there already, and the posts were set up,
To which we were tied in the old watching positions.
And he was brought out in the old way, and stripped,
And then tied flat on a big rectangular table
So that only his head could move.
Then the king made a short speech to the crowds,
To which they responded with gasps of wild excitement,
and which was then translated for the rest of us.
It was the sentence. He was to be flayed alive,
As slowly as possible, to drag out the pain.
And we were made to watch. The king's personal doctor,
The one who had tended his back
Came forward with a tray of surgical knives.
They began at the feet.
And we were not allowed to close our eyes
Or to look away. When they were done, hours later,
The skin was turned over to one of their saddle-makers
To be tanned and stuffed and sewn. And for what?
A hideous life-sized doll, filled out with straw,
In the skin of Roman Emperor, Valerian,
With blanks of mother-of-pearl under the eyelids,
And painted shells that had been prepared beforehand
For the fingernails and toenails,
Roughly cross-stitched on the inseam of the legs
And up the back to the center of the head,
Swung in the wind on a rope from the palace flag-pole;
And young girls were brought there by their mothers
To be told about the male anatomy.
His death had taken hours.
They were very patient.
And with him passed away the honor of Rome.

In the end, I was ransomed. Mother paid for me.

(Oh, sì, adesso ricordo. / Era quello che vidi fare all'imperatore. / Lo catturarono, sa, aquile e tutto il resto. / Lo denudarono, e gli misero un collare di ferro, / e fecero una gabbia con le lance che ci avevano preso, / e ce lo rinchiusero, nudo e con il collare, / esposto al ludibrio di tutto il campo nemico. / E io fui legato a un palo e obbligato a guardare / quando venne tirato fuori e flagellato da uno dei loro generali / e poi costretto a offrire la schiena squarciata / come sgabello al re barbaro / per montare a cavallo; / e una volta anche a mettersi carponi e fare da trono regale / quando il re ricevette i nostri ambasciatori / per discutere il riscatto. / Ovviamente non voleva alcun riscatto. / E io fui legato a un palo e obbligato a guardare. / [...] E poi d'un tratto / non ci furono più flagellazioni né umiliazioni, / il medico personale del re gli curò la schiena, / gli vennero dati abiti dignitosi, il collare venne tolto, / e ci trattarono con particolare cortesia. / [...] Poi, più tardi quel mese, era un caldo pomeriggio di maggio, / ci fecero marciare fino alla piazza principale. / La folla già vi si assiepava, e i pali erano eretti, / ai quali venimmo legati nella solita posa d'osservazione. / E lui venne portato nel solito modo, e denudato, / e poi legato piatto su una grande tavola rettangolare / in modo che solo la testa si potesse muovere. / Poi il re rivolse un breve discorso alla folla, / che suscitò rantoli di eccitazione bestiale, / e che poi venne tradotto per noialtri. / Era la sentenza. Doveva essere scoiato vivo, / il più lentamente possibile, per protrarre il dolore. / E noi fummo obbligati a guardare. Il medico personale del re, / quello che gli aveva curato la schiena, / si fece avanti con un vassoio di ferri chirurgici. / Cominciarono dai piedi. / E non ci fu concesso di chiudere gli occhi / né di distogliere lo sguardo. Quando ebbero finito, ore dopo, / la pelle venne affidata a uno dei loro sellai / che la doveva conciare, imbottire e cucire. A che scopo? / Un'abominevole bambola a grandezza naturale stipata di paglia, / nella pelle dell'imperatore romano, Valeriano, / con occhi sbarrati di madreperla sotto le palpebre, / e conchiglie dipinde preparate da tempo / per le unghie delle mani e dei piedi, / cucita rozzamente all'interno delle gambe / e lungo la schiena fino al centro della testa, / oscillava al vento da una corda appesa al pennone del palazzo; / e le faciulle venivano lì condotte dalle madri / per essere erudite sull'anatomia del maschio. / La sua morte era durata ore. / Erano stati molto pazienti. / E con lui si era spento l'onore di Roma. // Alla fine venni riscattato. Mia madre pagò per me.)

Voto: 8

domenica 28 ottobre 2018

Franco Arminio, "Resteranno i canti", Bompiani


 Composita raccolta del poeta irpino Franco Arminio, in cui ricorrono e si mescolano i temi esistenziali della ricerca della pienezza del vivere, dell'amore, dell'inquietudine umana di fronte alla prospettiva della morte, e quelli civili dell'emigrazione, dello spopolamento del meridione, della "paesologia", della naturalezza comunicativa della poesia e della sua valenza sociale e terapeutica.
 Il libro si divide in sette parti precedute da un componimento iniziale ("Mai vista una primavera così bella") che funge da incipit dell'intera raccolta. A Non era niente seguono Intimità provvisorieL'inquietudine è la mia fosforescenzaTerre dell'ossoEmigrantiCasamadre e Appunti sullo scrivere in versi. Di tanto in tanto, brani in prosa di tenore esplicativo, ma non puramente didascalico, vengono intercalati fra i componimenti in versi per meglio contestualizzarli.
 A tutta prima può sembrare che questi componimenti - per quanto spesso assai interessanti dal punto di vista tematico - non posseggano né l'originalità, né la raffinatezza, né le profonde risonanze emotive della grande poesia. E tuttavia sarebbe un errore scambiare per banalità la semplicità del poetare di Arminio; essa è piuttosto espressione della volontà programmatica dell'autore di rendere i suoi versi fruibili e apprezzabili indipendentemente dalla capacità del lettore di cogliere i riferimenti culturali sciolti fra le parole, e i procedimenti tecnici e stilistici secondo i quali è organizzato il loro ordinamento.
 A volte, così, il giro di una frase si presenta con la grazia e l'eleganza essenziale di un haiku ("Quando nevica / la bellezza è tornare a casa / con la neve sulle ciglia"); altre volte il superamento della regolarità metrica e prosodica - messa in atto per adottare il verso libero in funzione della ricerca di una maggiore efficacia delle immagini proposte o di una maggiore perspicuità del discorso poetico - non impedisce di suggellare la musicalità del componimento con una icastica rima finale ("La civiltà occidentale vista dagli uccelli: / siete il tramonto / perché avete accettato facilmente / il fatto che siete tutti senza luce, / specialmente chi vi conduce").

Franco Arminio

  La specificità della poesia di Arminio, tuttavia, risiede in caratteristiche non prettamente formali:  ad esempio, il tono dell'io lirico, pur partendo da un nucleo pulsante di considerazioni di carattere intimistico o da un'attitudine descrittiva, è quasi sempre sentenzioso e precettistico; in un certo senso, aforistico. Si vedano, a questo proposito, i passi di diversi componimenti tratti dalle varie sezioni in cui la raccolta si articola: "Non pensarla la gioia, sentila, / è una fioritura della carne, / è il maggio delle ossa, / l'aprile degli occhi."; "Il dolore che ti arriva / guardalo, lavalo, / tienilo con te."; "Datti alla vita intensa, / cercala, / non fare altri errori"; "Considera che le storie importanti / fanno male e se non fanno male / non sono importanti."; "L'amore è leggere il sacro / seppellito nei corpi"; "Le persone si incontrano / per rinascere. / Nascere / non basta mai a nessuno."; "Noi ogni tanto / dobbiamo vivere / come se fossero passati / sette anni / dalla nostra morte."; "C'è sempre da scrivere un'altra cosa"; "I paesi si salvano con gli occhi. / Prima bisogna guardarli / come un uomo giovane / guarda una donna bellissima."; "Il fallimento di un uomo / è sempre un'impresa corale"; "Ricordatevi questi nomi, / sono alcuni dei paesi più feriti / dall'emigrazione"; "Nessuno ha mai finito la poesia. / Ne resta sempre tanta / per gli altri, per chi viene".
 In realtà, i risultati migliori, a mio parere, Arminio li ottiene quando lascia da parte la sua vene sentenziosa per abbandonarsi alla tenerezza o alla malinconia dei ricordi e dei pensieri, senza la pretesa di individuare principi assoluti e universalmente validi. Si consideri questa poesia, che fa parte di Intimità provvisorie: "Non ho mai capito / perché una storia / deve essere grande. / Il nostro è un sentimento / piccolo e vago, buono / per passare nella cruna / di un ago".
 O, ancora nella stessa sezione, questo componimento: "Forse ogni amore / ha un solo giorno / una sola occasione. / Forse i grandi sentimenti / sono occasioni. / Difficile che tu possa ritrovare / la farfalla che hai visto / il giorno prima".
 O, in L'inquietudine è la mia fosforescenza, i versi seguenti: "Si tratta di scegliere / il dolore. / Della mia paura di morire / ho fatto una storia senza fine. / La mia unica storia d'amore / alla fine".
 O, in Terre dell'osso: "Le vecchie del paese / si svegliano presto / per tenere pulita la casa / in cui stanno sole con i morti. / La sera sopra il tavolino / un pezzo di scamorza, / una mela, mezzo bicchiere / di vino".
 O, in Casamadre: "Ricordo con tristezza mia nonna / ricoverata all'ospedale civile di Avellino. / Una visita breve / insieme a mio padre, / ricordo le lacrime di mia nonna / quando stavamo per uscire: / lei restava nel suo letto, / noi andavamo a vedere la partita / Avellino-Fiorentina".
 La poesia più bella dell'intera raccolta, per me, è questa:

Che sia un amore
dolce e lieve,
un amore che può stare
su una ragnatela
senza paura di cadere.

Voto: 6,5

lunedì 22 ottobre 2018

Patrizia Valduga, "Poesie erotiche", Einaudi

 
 Il libro raccoglie la parte più significativa delle poesie erotiche di Patrizia Valduga: componimenti diversissimi fra loro per tono, stile e misura, scritti nell'arco di diversi decenni.
 Si va dalla Lezione  di tenebre e dalle Cento quartine, dove il metro adottato è sempre rigorosamente quello dell'endecasillabo (e l'autrice si esprime attraverso originali - e spesso trasgressive - quartine a rima alternata), alla reinterpretazione dell'Erodiade di Mallarmé e della Fedra di Racine, fino alle terzine di La tentazione e ai componimenti dedicati a Sade di Lezione d'amore.
 Completa il libro la Confessione di una ladra di versi, un saggio suddiviso in cinque brevi capitoletti in cui Valduga analizza tecnicamente e teoreticamente la propria poesia, prova ad autodefinirsi come autrice, e dichiara i propri debiti nei confronti di altri poeti (arrivando a riconoscere in se stessa quello che lei chiama un'ectoparassita, vale a dire una personalità letteraria capace di appropriarsi e di servirsi del prodotto del genio di altri autori, rendendo però patente il proprio "furto" attraverso citazioni piuttosto scoperte e insistite).
 Ci troviamo di fronte indubbiamente a una poetessa assai colta e consapevole dei propri mezzi; questo è percepibile non solo nella perizia formale dei versi, nell'efficacissima scelta delle immagini, nella sottile tessitura lessicale del discorso, ma anche e soprattutto nella capacità di tramutare la forma in sostanza (si veda per esempio il sapiente utilizzo dell'enjambement, il gioco delle rime e la scansione ritmica di questo passo del monologo di Erodiade: "Io amo / l'orrore d'esser vergine, il tormento / quando nella carne inutile sento, / dai miei stessi capelli spaventata, / serrata nel letto, serpe inviolata, / il freddo scintillio dei tuoi chiarori, / tu che ardi di castità, tu che muori").
 Talvolta il poetare, appoggiandosi alla tradizione e traendo forza da essa, acquisisce, nella sua compostezza, una potenza degna dei classici, come nella confessione finale da parte di Fedra, che ammette la sua colpa senza che questo possa placare minimamente l'impeto della sua passione nei confronti di Ippolito: "Fui io a guardare con occhio incestuoso / Ippolito pudico e rispettoso. / Il cielo mi dannò al fuoco funesto, / l'esecrabile Enone ha fatto il resto / per proteggere il mio infame segreto. / E ora la raggiungo al morto greto.../ Ho versato un veleno nelle vene, / lo stesso che Medea portò ad Atene."
 Tutto ciò non impedisce la rappresentazione assai vivida della sfrenatezza dell'erotismo e del carattere talvolta osceno e violento del sesso (come in La tentazione: "Bada a non farmi far troppa fatica, / piccola morta, non lo sai? Dovrai / aprirmi come un fiore la tua fica!"; "Come si sta altera e disdegnosa! / Scosciatela così che me la prenda / e disbrami la voglia che mai posa"). 

 Patrizia Valduga

 Una declinazione del tema che raggiunge caratteri estremi nel sadismo della Lezione d'amore ("Togli la cinta... apri... annusa. Annusa! / Ma no che non ti strangolo, bambina... / Tiralo fuori e annusa... / anche le palle... sì... brava bambina... / Adesso lecca... bagna... / brava, brava, così... come una cagna"; o ancora: "Stringo il culo a ogni colpo... e apro la fica / intorno alle sue dita... / Ma sento male... meglio che lo dica... / Dica che? scimunita!, / che mi ha rimescolata in tale modo / che non so dire più se soffro o godo?").
 Non senza, del resto, che si faccia notare come, in amore, la distanza tra triviale e sublime possa essere di un solo passo (Congiunta a lui, e sempre più divisa, / senza un bacio da lui, senza un sorriso, / sempre più indivisibile e indivisa, / ascesa al puro cielo del suo viso, / che in me qualcosa ha ucciso... / è il paradiso... sono in paradiso...").
 Al cospetto del persistere di queste dinamiche, maggiore freschezza, originalità e felicità si può a mio parere riscontare nei brevi componimenti di Lezione di tenebre e di Cento quartine; sia che si celebri il carattere totalizzante dell'unione amorosa ("Per me dentro di me oltre la mente / il suo corpo su di me come una coltre / ma oltre il corpo in me furiosamente / in me fuori di me oltre per oltre..."), sia che si lamenti la difficoltà di trovare in amore la sintonia perfetta ("Ma l'estasi, ma l'io senza più io? / Da quanti anni ormai io chiedo ai cieli / un cuore perpendicolare al mio / e mi arrivano tutti paralleli!"), sia che si cerchi di analizzare l'involuta complessità dei nostri equilibrismi sentimentali  nell'ambito della relazione con l'altro ("Avrei finto di non avere voglia / perché a forza mi facesse volere. / Io voglio che tu voglia che io non voglia: / questa è la verità del mio piacere."), sia che si provi a rappresentare il carattere insieme intellettuale e fisico del desiderio erotico ("E sempre quella mano sulla fronte... / E l'altra lì, così, due dita sole... / E quando fica e testa sono pronte / riempile di cazzo e di parole").
 In Cento quartine, in particolare, il discorso amoroso prende tutti i colori della dolcezza, del desiderio, dell'entusiasmo, del dubbio o dell'estasi (si veda la n.10: "Tu, misterioso spirito gentile, / fammi la guardia come un carceriere: / che non nasconda più, vanesia e vile, / verità vergognose e voglie vere"; la n. 17: "Fa' presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al tuo letto, / consolami, accarezzami la faccia; / scopami quando meno me l'aspetto"; la n. 51: "Oscura chiarità, festoso inferno, / lucida frenesia, gioia impaurita, / riso nel pianto, brevità d'eterno, / trofeo e indice della mia vita..."; la n.88: "Càlati giù, o notte dell'amore, / fammi dimenticare la mia vita, / accoglimi nel seno del tuo cuore, / liberami dal mondo e dalla vita!", la n.98: "Per tutti i giorni, amore, dell'amore: / l'uno nell'altra, fusi, per amore, / trasfusi l'uno nell'altra, per amore, / trasumanati, amore, nell'amore").
 La più interessante e originale fra tutte le poesie antologizzate, per me, è questa:

E anche con lui era come masturbarmi,
mai matura, scentrata e senza centro.
Di grazia, gli chiedevo, vuoi insegnarmi
a venire assieme a te con te dentro?


Voto: 7

domenica 14 ottobre 2018

Maurizio Maggiani, "L'amore", Feltrinelli


 Scegliere di trattare un tema capitale, e frequentatissimo dalla letteratura - a tutti i livelli -, come l'amore può esporre al rischio concreto di proporre solo banalità, o di ripetere per l'ennesima volta cose già dette da altri. 
 Per questo, prudentemente, molti narratori contemporanei, quando parlano d'amore, tendono a citare - scopertamente e talvolta dichiaratamente - altri autori che li hanno preceduti, e ad adottare un tono lievemente ironico nei confronti dei luoghi comuni del sentire condiviso, ed autoironico nei confronti dei propri sentimenti; quegli stessi sentimenti che, d'altra parte, essi vorrebbero raccontare e magari celebrare: quasi che se ne vergognassero. E' l'approccio tipico del postmodernismo, sui paradigmi del quale tanta parte della letteratura colta continua ancor oggi ad indugiare.
 Diversa è la prospettiva in cui si pone Maurizio Maggiani, che per parlare d'amore sceglie semplicemente di parlare d'altro. 
 Intendiamoci: al centro del suo romanzo c'è proprio l'amore coniugale, il rapporto tra "lo sposo" e "la sposa", e la consapevolezza di cosa voglia dire amare, che lo sposo - protagonista del libro e alter ego del narratore (tanto che il suo punto di vista impronta di sé l'intera narrazione, sebbene questa sia condotta in terza persona) - ha acquisito nel tempo grazie al cinema, grazie alla politica, grazie al lavoro, grazie alle esperienze avute con tutte le ragazze e le donne che, in varie fasi della sua vita, gli sono state accanto.
 Il fatto è che tutte queste esperienze, anche quelle più squisitamente "amorose", non vengono rivisitate in funzione dell'elaborazione di una teoria sull'amore, della tessitura di un discorso amoroso da cui ricavare una visione tassonomica e magari manualistica di questo sentimento. Al contrario, si cerca di raccontare come l'esistenza possa insegnare qualcosa sull'amore nei modi e nelle occasioni più inattese, soffermandosi sempre sul dato concreto, senza la pretesa di assolutizzarlo a tutti i costi, senza l'ansia di astrarsi dalla pura fenomenologia per approdare alla formulazione e all'enunciazione di principi generali e universalmente validi; mettendo piuttosto a fuoco il dato di realtà in sé e per sé, soprattutto quando questo pare quanto di più lontano si possa immaginare dall'erotismo classicamente inteso.
 Dal punto di vista strutturale, il romanzo consiste nella narrazione di una intera giornata - e della notte seguente - passata dallo sposo alternativamente alla luce della presenza, dell'assenza o del pensiero della sua sposa, che incrociano continuamente le sue attività quotidiane, le sue riflessioni e, soprattutto, i suoi ricordi. 
 In tutto questo, il dato più importante è l'attenzione e l'impegno che lo sposo tenta di mettere in ogni cosa che fa (che si tratti di contemplare l'orto fuori dalla finestra, preparare il caffè, pulire lo stoccafisso in vista della cena, pedalare in bicicletta, aiutare un gruppo di operai che ha rilevato l'azienda in cui lavorava ad acquistare una partita di zinco...) in funzione e in vista dell'amorevole cura con cui egli ritiene necessario trattare la sua sposa. E i pensieri e i ricordi che gli sovvengono nel corso di tutte queste azioni sono occasioni per trovare conferme e giustificazioni della sua condotta, e spiegazioni di come vi sia arrivato e vi si sia adattato.

Maurizio Maggiani

 Rientrano in questo meccanismo la rievocazione della Mari, antica fidanzata con cui lo sposo ascoltava canzoni d'amore alla moda, e oggi irriconoscibile pescivendola malamente invecchiata; quella dell'impresa con cui lo sposo scassinò il portone d'ingresso dell'Università per dare il via all'occupazione durante il '68, gesto che gli guadagnò presso i compagni di militanza il soprannome de "il Fabbro"; il ricordo della casta ammirazione con cui il protagonista, da ragazzo, guardava "la Padoan", una giovane scout "con le tette come Anna Magnani", che determinò per lui la definizione di una sorta di paradigma erotico che si sarebbe trascinato dietro negli anni a venire.
 E ancora: i film che gli insegnarono a dire "ti amo", cosa che prima era del tutto incapace di fare; le escursioni in bicicletta con Tiberio Nicola, "congegnatore meccanico" e insostituibile maestro di Comunismo; la conoscenza del sesso e la "prima volta" dello sposo, presso una spiaggia naturista, insieme alla Patri, una rossa prosperosa e occhialuta, piena di lentiggini, allora fidanzata con Giovanni, un gigantesco e temibile operaio dalle granitiche convinzioni politiche; il ritorno al periodo dell'appassionata relazione con Chiaretta, femminista e compagna di ballo del giovane protagonista; il ricordo dell'epoca in cui lo sposo, terminata l'esperienza del comunitarismo rivoluzionario e di Lotta Continua, si fece imprenditore di se stesso; la caduta in moto, la convalescenza e la conoscenza di Ida, "la bislunga", destinata, ai tempi della prima Guerra del Golfo, a diventare la sua fidanzata nonché la prima donna a insegnargli a dire addio, prima di partire per la Gran Bretagna e di sposare un maraja. Quella stessa Ida richiamata tristemente alla memoria da un messaggio ricevuto in giornata dagli Stati Uniti,che ne annuncia la morte prematura. 
 Così, se a un livello puramente epidermico i ricordi costituiscono un gigantesco serbatoio di "fatterelli" che lo sposo è solito raccontare alla sposa prima che questa si addormenti, e a un livello un po' più profondo sostanziano la maturità sentimentale raggiunta dallo sposo e pienamente espressa nel suo amore coniugale per la sposa, su un piano superiore, concettuale e letterario, essi danno l'idea che l'amore sia qualcosa di più e di diverso da un legame sessuale fra due persone o da uno stato d'animo condiviso; piuttosto, è la sublimazione di un rapporto di coppia nella capacità per entrambi le persone coinvolte di "tenere nobilmente tutto insieme": il passato e il presente, le gioie e i dolori, le virtù e i difetti propri e dell'altro, le paure e le aspirazioni, affinché il mondo intorno ai coniugi acquisisca davvero un senso compiuto. 
 E' per questa via che, obliquamente, dalla costruzione di un solido piano di realtà si arriva a distillare una "teoria dell'amore": senza enunciazioni altisonanti e senza smancerie, attraverso una narrazione semplice condotta con una scrittura semplice, lineare e lieve, quella che si usa per nominare le cose della quotidianità.

Voto: 6,5

domenica 7 ottobre 2018

Martin Amis, "La casa degli incontri", Einaudi


 Il protagonista-narratore di questo romanzo, pubblicato ormai qualche anno fa, è un uomo cinico, inquieto, colto, scorbutico e disperatamente sincero, che ha avuto una vita difficile e avventurosa: da giovane, durante la Seconda guerra mondiale, è stato un soldato dell’Armata rossa, e non si vergogna di dichiarare di “essersi fatto largo a suon di stupri” nei territori tedeschi; tornato in Russia, nel dopoguerra, è stato rinchiuso in un gulag come dissidente; lasciatosi alle spalle la prigionia, è riuscito ad arricchirsi vendendo televisori ai notabili del regime, e all’inizio degli anni ottanta si è trasferito negli Stati Uniti. Ha avuto molte donne, e un solo grande amore.
 Infine, a ottantasei anni, alla vigilia della morte, scrive le sue memorie indirizzandole alla figliastra Venus, perché questa le possa pubblicare dopo la sua scomparsa. Lo scritto viene redatto proprio mentre il protagonista compie una sorta di viaggio nel passato, risalendo a bordo di un’imbarcazione il fiume Enisej per giungere fino a Norlag, presso la gelida città di Predposylov, in Siberia, dove sorgeva il gulag in cui egli fu internato per dieci anni insieme al fratello Lev.
 Nell’inferno disumano del campo di lavoro la violenza regnava sovrana, ogni certezza dei prigionieri veniva meno, e la loro stessa personalità rischiava di essere destrutturata. Una cosa però manteneva vivo lo spirito dei due fratelli: il ricordo di Zoya, la donna che Lev aveva sposato e della quale anche il protagonista era perdutamente innamorato. Durante la prigionia, una volta, Lev aveva addirittura ottenuto il privilegio di appartarsi con Zoya nella cosiddetta “casa degli incontri”, l’edificio nel quale ai prigionieri “meritevoli” era permesso passare qualche ora con le proprie donne. Ma dopo quell’appuntamento qualcosa era cambiato in Lev; e sebbene avesse proseguito la sua vita con Zoya dopo essere stato liberato, non aveva più ritrovato la sua serenità.

Martin Amis

 Ora il protagonista tiene in tasca una lettera proprio di Lev, scritta anni prima e mai aperta. Sarà forse quella lettera a rivelargli ciò che accadde nella “casa degli incontri”? E la rivelazione saprà fornirgli la chiave per capire finalmente la personalità di Zoya? Tutto questo lo aiuterà a comprendere meglio la sconvolgente crudeltà della Russia e dei russi, la crudeltà dei governanti russi contro il popolo russo, si chiamino essi Stalin o Putin? Nulla infatti, nella Russia contemporanea, sembra essere cambiato rispetto alla Russia sovietica: e l’orrenda strage di bambini che si sta compiendo nella scuola numero uno di Beslan, in Ossetia settentrionale, proprio mentre il protagonista scrive, ne è la conferma.
 Martin Amis offre qui un romanzo crudo e potente, spigoloso come il suo protagonista, che a dieci anni dalla sua prima uscita conserva intatta tutta la sua forza espressiva e la sua efficacia. Lo scrittore sviluppa la narrazione in maniera assolutamente non lineare, giustapponendo informazioni, recuperando progressivamente ciò che non era stato detto in un primo momento, quasi che plasmare i materiali di cui si compone il racconto sia un processo difficile, pieno di tranelli, mai concluso definitivamente. 
 Ma il quadro che infine ne scaturisce, e la verità che ne emerge hanno una loro rabbiosa coerenza.

Voto: 7

sabato 29 settembre 2018

Su Tong, "Vite di donne", Einaudi


 Su Tong, scrittore appartenente a quell’avanguardia che alcuni anni fa, in Cina, contestò e sovvertì i rigidi canoni della letteratura improntata al realismo socialista, mette in scena con stile raffinato e notevole capacità di sintesi una serie di drammi al femminile.
 Il libro è composto da due lunghi racconti: l’eponimo Vita di donne narra i sogni e l’infelicità di Xian, Zhi e Xiao, rispettivamente madre figlia e nipote, le cui vicende private attraversano tutte le fasi della storia della Cina moderna, dal 1938 alla fine degli anni ottanta del Novecento. Le tre donne, frustrate in tutte le loro aspirazioni, perdono la capacità di donare affetto persino alle persone più care.
 Altre vite di donne, invece, parla di due sorelle che, prigioniere fin dall’infanzia di un rapporto di reciproca dipendenza che non ammette la presenza di intrusi, vivono da recluse nella propria casa. L’irruzione nella loro quotidianità di una delle chiassose commesse del negozio di soia che si trova sotto il loro appartamento romperà l’isolamento che si sono inflitte, decreterà la fine del delicato equilibrio su cui si reggeva il loro sodalizio e porterà con sé tragiche conseguenze.

Su Tong

 Entrambi i racconti lasciano una strana impressione: pare che il malessere di tutte le protagoniste sia legato a motivi che non vengono mai chiariti fino in fondo; si tratta forse di una velata accusa alla Cina comunista di sprofondare le esistenze dei cittadini in un deprimente grigiore?
 Questa indeterminatezza contribuisce senza dubbio a far correre una leggera tensione lungo tutto il profilo narrativo, e ad ammantare di mistero le vicende raccontate; il lettore fatica tuttavia ad entusiasmarsi, dato che l'abilità compositiva del narratore non basta a scongiurare un persistente senso di freddezza.

Voto: 6

domenica 23 settembre 2018

Jesmyn Ward, "Salvare le ossa", NN Editore


 Bois Sauvage, delta del Mississippi, anno 2005. In una regione che da sempre costituisce una delle zone economicamente più depresse degli Stati Uniti, i Batiste rappresentano un paradigma esemplificativo quasi perfetto della tipica famiglia povera del sud del Paese: afroamericani, vivono da ormai tre generazioni nella zona boschiva del Bayou, in una depressione naturale del terreno chiamata "la Fossa", dentro una sgangherata casa di legno sospesa sopra una piattaforma di cemento non lontano dalle misere abitazioni di molte altre famiglie di neri e dalle fattorie appena più confortevoli di alcuni bianchi, determinati a difendere le loro proprietà e il loro relativo benessere anche con le armi, se necessario.
 Claude, il padre, mantiene la famiglia con umili lavori saltuari e piccoli espedienti, è spesso dedito al bere, ma soprattutto è impegnato costantemente nei preparativi necessari per affrontare un catastrofico uragano che potrebbe investire la regione, come già accaduto molti anni prima; soltanto che quasi tutti gli uragani annunciati negli ultimi tempi dai mass media o arrivano sul delta del Mississippi ormai depotenziati o, all'ultimo momento, deviano verso la Florida, tanto da far apparire la ricorrente preoccupazione di Claude qualcosa di assai simile a una nevrosi. 
 La moglie dell'uomo è morta sette anni prima nel dare alla luce il suo quarto figlio Junior; così, i tre figli più grandi - nati in precedenza a un anno di distanza l'uno dall'altro - sono cresciuti senza mamma e con l'incombenza di accudire il fratellino. 
 Ora Randall, che ha diciassette anni, pensa per lo più a giocare a basket - sport in cui eccelle - insieme agli amici big Henry, Manny e Marquise, si allena in maniera scrupolosa e spera di ottenere dalla high school che frequenta una borsa di studio per partecipare al Summer Camp che rappresenta un'occasione per mettersi in luce agli occhi degli osservatori delle principali squadre universitarie.
 Skeetah, invece, ha sedici anni, muscoli perfettamente disegnati, un carattere introverso e difficile, e un cane da combattimento che pare essere la sua principale ragione di vita: si tratta di China, una feroce femmina di pitbull che ha appena avuto dei cuccioli, e che Skeet accudisce come se fosse una fidanzata o una figlia. Presto China sarà di nuovo in grado di combattere, e Skeet conta, grazie alla forza e all'abilità del suo cane, di guadagnare i soldi necessari a iscrivere Randall al Summer Camp anche qualora non ottenesse la borsa di studio.
 Di appena un anno più piccola di Skeet e a lui legatissima è Esch, che con i suoi quindici anni cresce nel ricordo dolce e doloroso della madre, a cui assomiglia moltissimo, e sperimenta con crescente consapevolezza tutte le implicazioni della sua fiorente femminilità: fra i miti greci che studia a scuola, a impressionarla è principalmente quello di Medea, con tutti i contraddittori aspetti della sua multiforme identità, che la vede figlia, sorella, moglie, madre, femmina pazza per amore, donna tradita e traditrice, strega, assassina, amante abbandonata e disperata, causa del suo male, vittima inconsolabile e irredimibile della sua stessa vendetta.

Jesmyn Ward

 Esch, in preda al risveglio dei sensi che accompagna l'adolescenza, si è concessa con estrema naturalezza e senza pensarci troppo a diversi amici dei fratelli, cucendosi addosso la fama di ragazza leggera; si è però infine innamorata di Manny, bellissimo col suo sorriso luminoso, il suo corpo scolpito, la sua pelle di mulatto la cui lucentezza sembra esaltarsi ai riflessi del sole. L'amore per Manny brucia dentro le viscere di Esch, incurante del fatto che il giovane condivida una roulotte con un'altra ragazza, incapace di riconoscere come l'oggetto del suo desiderio sia interessato solo al sesso, e tenda impunemente ad approfittarsi di lei. Tanto che la ragazza, sventuratamente, di Manny finisce per restare incinta.
 Esch, con le sue insicurezze, il suo dramma silenzioso e tutta la poesia e il candore del suo sguardo, è anche la voce narrante attraverso la quale la storia ci viene raccontata. Ognuno dei dodici capitoli di cui si compone il romanzo corrisponde a una giornata di quella seconda metà del mese di agosto del 2005 che culminerà con l'abbattersi sulle coste della Louisiana del terribile uragano Katrina: la catastrofe - quasi una nemesi - tanto attesa da Claude, e finalmente giunta per sconvolgere ogni cosa e non lasciare più nulla come prima.
 L'alluvione portata da Katrina, infatti, distruggerà buona parte delle abitazioni seminate nel Bayou, compresa la casa dei Batiste, che riusciranno fortunosamente a salvarsi dal disastro, ma perderanno China, trascinata via dalla corrente; Skeet non saprà rassegnarsi alla sua scomparsa, e la cercherà per giorni nel bosco, fra gli alberi abbattuti, i rottami, le macerie. 
 Esch, dal canto suo, si renderà finalmente conto del carattere autodistruttivo della sua passione per Manny e, pur portando in grembo suo figlio, lo lascerà andare per la sua strada; si accorgerà invece delle attenzioni delicate prestate a lei e alla sua famiglia da big Henry, il più gentile, massiccio, riservato fra gli amici di Randall, l'unico che non l'abbia mai ridotta a un pretesto per sfogare i propri appetiti erotici.
 Il libro è decisamente bello: sul palpitante cuore selvaggio costituito dal complesso dei temi trattati viene costruita una narrazione a suo modo sofisticata, dove lo sviluppo della vicenda si sposa con l'affiorare di un sostrato simbolico a cui il punto di vista interno di Esch - al contempo ingenuo e disincantato - sa donare una assoluta concretezza.
 Alcuni dei personaggi che agiscono nel romanzo appaiono memorabili: al di là della protagonista-narratrice Esch, vale la pena di citare big Henry, i due fratelli Randall e (soprattutto) Skeet, Manny - bello e inarrivabile come un dio greco agli occhi di Esch -, e anche la cagna China, volitiva, spietata, fiera come l'eroina di un poema epico.  
 La scrittura stessa di Salvage the Bones (primo capitolo di una trilogia), le cui varie sfumature, via via popolaresche e colte, sono rese molto bene dalla traduzione di Monica Pareschi, è tutt'altro che banale: una prova meritevole della massima attenzione nel panorama della prosa americana contemporanea. 

Voto: 7

sabato 8 settembre 2018

Fernando Aramburu, "Anni lenti", Guanda


 Spagna franchista, anni sessanta: la madre del piccolo Txiki, abbandonata dal marito e incapace di mantenere la famiglia, è costretta a sradicare il figlio dalla natia Pamplona per mandarlo a vivere presso gli zii a San Sebastian. Del resto un destino più triste tocca ai due fratelli maggiori del bambino, rinchiusi in un orfanotrofio.
 Eppure Txiki fatica non poco ad ambientarsi nella sua nuova casa: il cugino Julen, con cui condivide la camera da letto, all'inizio è spesso brusco e quasi prepotente con lui, lo chiama "il navarro", e ammorba l'aria con l'insopportabile puzza dei suoi piedi; lo zio Vicente, silenzioso, remissivo e quasi rassegnato, divide tutto il suo tempo tra il lavoro in fabbrica, il bar e le partite a toka con gli amici, ed è quasi come se non ci fosse; la cugina Mari Nieves, ossessionata dal sesso, si butta via concedendosi a tutti i ragazzi del quartiere; e la zia Maripuy, la sorella di sua madre, sebbene sia una massaia perfetta, è sempre in lotta col mondo, e risulta troppo volitiva e autoritaria per costituire il punto di riferimento affettivo di cui Txiki - che ha solo otto anni - avrebbe bisogno.
 A poco a poco, però, ci si abitua ad ogni cosa, e anche Txiki inizia presto a sentirsi a suo agio nella sua nuova famiglia e nella sua nuova città. Così, comincia ogni giorno ad aiutare la zia a incartare le saponette da mettere in vendita per arrotondare il magro stipendio del marito; comincia a preoccuparsi per Mari Nieves, che si fa mettere incinta non si sa da chi e, per non gettare discredito su di sé e sui suoi, è costretta ad accettare un matrimonio riparatore con il figlio mite e giudizioso ma un poco ritardato di un vicino di casa; comincia a compatire zio Vicente, che con la sua innata bontà sembra fatto per subire passivamente ogni affronto da chiunque.
 Ma è soprattutto Julen che, al di là della sua indole un poco scontrosa, si palesa come una sorta di fratello maggiore per Txiki, tanto da arrivare a confidargli le proprie aspirazioni e i propri pensieri, e a metterlo a parte dei suoi sogni e dei suoi segreti. 
 Siamo nel pieno del periodo storico in cui il nazionalismo basco, saldandosi con l'antifranchismo, cresce fino a dare vita alla lotta armata e a inaugurare l'epopea terroristica dell'ETA. Julen, attraverso il magistero di don Victoriano - parroco del quartiere e militante indipendentista - entra in contatto con gli ambienti più fieramente anticastigliani della città: su invito del prete, si mette a studiare attivamente la lingua basca, partecipa alle gite domenicali in montagna insieme ad altri ragazzi che coltivano il credo nazionalista e aspirano a costituire una vera e propria cellula dormiente di guerriglieri, tiene sotto il materasso l'ikurrina, la bandiera basca vietata dal regime di Franco e custodita a turno dai militanti dell'organizzazione, comincia infine addirittura a fantasticare di uccidere un giorno il caudillo durante una delle sue visite annuali in città.

Fernando Aramburu

 Presto l'impegno politico di Julen diventa qualcosa di molto serio: sospettato di essere coinvolto in un'azione eversiva contro alcuni gendarmi della Guardia civil, il ragazzo viene dapprima fermato per alcuni giorni dalla polizia e subito rilasciato; poi, messo nuovamente nel mirino dalle forze dell'ordine, per evitare guai peggiori è costretto a fuggire in Francia insieme a un amico. 
 Purtroppo l'esilio si rivela deleterio per Julen: meno maturo emotivamente, meno dotato economicamente e meno attrezzato culturalmente di altri compagni di sventura per affrontare i disagi di una vita comunque difficile in terra straniera, il giovane entra in contrasto con alcuni rappresentanti dell'indipendentismo che godono di maggiore autorevolezza rispetto a lui nel gruppo di cui fanno parte, e reagiscono facendogli fare il vuoto intorno. 
 Isolato dai suoi connazionali all'estero, a Julen resta solo il ricordo dell'affetto della sua famiglia lontana. E così, pur di rientrare in Spagna e di rivedere la madre, il padre, la sorella e Txiki, il ragazzo accetta di rinnegare la sua fede e di vendere alcune informazioni sensibili alla polizia spagnola in cambio di un implicito "lasciapassare" per San Sebastian.
 Il problema è che, a San Sebastian, a questo punto, lo attende la riprovazione e l'ostilità di tutti coloro che ormai vedono in lui solo uno sporco traditore. Anche i suoi famigliari, scansati e osteggiati dai "patrioti" baschi, ne subiscono le conseguenze, vengono isolati dalla loro comunità, e a volte reagiscono rabbiosamente di fronte agli antichi conoscenti che li trattano in maniera insolente: Maripuy giunge a schiaffeggiare sulla pubblica via, con grande scandalo, don Victoriano che l'aveva ostentatamente ignorata davanti a tutti. 
 Per porre fine a questa incresciosa situazione, Julen è costretto ad abbandonare tutto per imbarcarsi su una nave diretta in Brasile, dove si sposerà e si rifarà una vita; conservando sempre nel cuore, però, l'affetto per i suoi famigliari e, in particolare, per il suo fratellino acquisito Txiki.
 Il romanzo - pubblicato in Spagna nel 2012, ma uscito in Italia solo quest'anno - è assai interessante dal punto di vista del tema trattato e del contenuto, e raffinatamente concepito dal punto di vista tecnico. Aramburu scava all'interno degli ambienti e del tessuto sociale dei Paesi Baschi negli anni sessanta per mettere a fuoco la mentalità e il clima politico che favorirono la nascita del terrorismo indipendentista; nel contempo cerca di mostrare come certe rigidezze e certe ottusità che sempre accompagnano l'estremismo ideologico (di qualsiasi segno esso sia) finiscono per cozzare con la proteiforme vitalità dei bisogni e delle aspirazioni individuali, e con l'imprevedibilità delle vicissitudini affettive e personali degli stessi uomini che da quell'estremismo si sentono attratti e nel suo sviluppo sono coinvolti.
 Così, Julen crede nel valore della lotta per l'indipendenza di Euskadi, e a quella lotta è disposto a sacrificare tutto, persino la vita; quando però si sente ferito nella sua umana dignità e nei suoi affetti più autentici dal comportamento dei compagni di militanza, finisce per mettere in secondo piano quegli astratti ideali che i suoi compagni incarnano in modo così imperfetto e impuro, e che in precedenza pensava potessero costituire l'imperturbabile filo conduttore della sua esistenza.
 La tecnica narrativa adottata rappresenta uno degli aspetti più interessanti del libro. La voce narrante è per lo più quella di Txiki adulto, che racconta la sua esperienza di tanti anni prima non a noi lettori direttamente, bensì allo scrittore Fernando Aramburu, in procinto di scrivere un libro sull'esperienza autentica di una famiglia proletaria vicina al nazionalismo basco nella San Sebastian degli anni sessanta. 
 Nella finzione narrativa, i capitoli con il racconto di Txiki si alternano con quelli in cui vengono riportati gli appunti del personaggio-Aramburu, che cerca di perseguire non solo e non tanto la fedeltà del resoconto documentario, quanto piuttosto la freschezza della resa letteraria, a costo di modificare il dato realtà. Questo, paradossalmente, nella logica diegetica, accresce la credibilità della testimonianza di Txiki, e nel contempo induce il lettore a compiere uno sforzo immaginativo per colmare la distanza esistente tra il punto di vista dell'uomo adulto che racconta e quello del bambino che è stato un tempo, per cercare di correggere le inevitabili sfocature create da questo iato, e per colmare le lacune che rimangono nel flusso narrativo. Il risultato è straordinario.
 Insomma, siamo di fronte a un'opera nel complesso davvero notevole.  

Voto: 7,5