sabato 30 giugno 2018

Sandra Petrignani, "La Corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg", Neri Pozza


 Ponderosa biografia di Natalia Ginzburg che cerca di esplorare nel dettaglio ogni aspetto della vita e dell'opera della scrittrice, mettendo in relazione diretta i due ambiti - laddove è possibile farlo in maniera documentata -, e rivelando le sfaccettature meno note e più interessanti della sua complessa personalità.
 Il lavoro di Sandra Petrignani è imponente: al di là dell'accuratissima ricerca di ogni attendibile fonte bibliografica in grado di fornire informazioni sulla Ginzburg, l'autrice visita tutti i luoghi in cui si svolsero le diverse fasi della sua vicenda, intervista i testimoni diretti (quelli ancora in vita) degli eventi che la riguardarono, e scova insospettabili testimoni indiretti tra i discendenti di coloro che più ebbero a che fare con lei, e che trasmisero a chi era loro più vicino qualche gustoso aneddoto riguardante l'autrice di Lessico famigliare.
 Per evitare che il lettore possa essere sopraffatto dall'abbondanza e dalla varietà del materiale prodotto, la Petrignani sceglie saggiamente di procedere in ordine cronologico, mettendo in fila le diverse stagioni della vita di Natalia Ginzburg, scandite ora dal succedersi degli eventi sovente drammatici che costellarono la sua esistenza, ora dagli snodi più significativi della sua carriera di scrittrice, ora dalle svolte che la sua poetica e le sue modalità espressive conobbero, ora dal succedersi delle tappe del palesarsi del suo ruolo di opinion leader nella scena pubblica italiana; un ruolo per molti versi in netto contrasto con gli aspetti più evidenti del suo carattere.
 Il libro risulta così suddiviso in quattro parti, ciascuna delle quali conta un numero differente di capitoli: 11+12+9+8, per un totale di quaranta capitoli in tutto.
 Natalia Levi nacque a Palermo nel 1916, ma quando era ancora piccolissima la sua famiglia si trasferì a Torino. Ultima figlia di Giuseppe Levi, detto Pom - celebre medico e studioso di istologia di origine ebraica, in seguito maestro di ricercatori del calibro di Rita Levi Montalcini e di Renato Dulbecco -, e di Lidia Tanzi (sorella di Drusilla, la Mosca di Eugenio Montale), crebbe in un ambiente domestico intellettualmente assai vivace, dove però la forte personalità dei genitori e l'intraprendenza e l'espansività dei fratelli e della sorella maggiore rischiarono spesso di schiacciarla, facendola sentire la maglia nera del gruppo. La sensazione fu accentuata dalla sua innata timidezza e dal fatto che a scuola fosse considerata una studentessa non brillantissima.
 Tutto questo non le impedì peraltro di scoprire molto presto la sua vocazione di scrittrice: i suoi primi racconti furono inviati alla rivista fiorentina Solaria quando Natalia aveva solo 17 anni, grazie all'intercessione di Leone Ginzburg, amico del fratello Mario, destinato poi a diventare suo marito.
 Leone, figlio illegittimo di Vera - moglie di Fedor Nikolaevic Ginzburg - e di Emilio Segrè, straordinario giovane studioso, fu l'anima del progetto culturale dal quale, nel 1933, nacque la casa esitrice Einaudi, dove introdusse anche la sua futura moglie. Leone e Natalia si sposarono nel 1938; nei pochi anni che il destino concesse loro di vivere insieme ebbero tre figli. Leone, infatti, perseguitato per via della sua militanza antifascista e delle sue origini ebraiche (tanto da essere costretto a nascondersi con la famiglia sotto falso nome nel paesino centroitalico di Pizzoli), morì in carcere nel febbraio del 1944 per via delle torture subite in condizioni di salute già di per sé piuttosto precarie. Natalia ne onorò sempre la memoria conservandone il nome.

 Sandra Petrignani

 Non furono facili per la giovane vedova né gli ultimi mesi della guerra nell'Italia occupata (durante i quali dovette più volte spostarsi e nascondersi per sottrarsi alle retate dei nazisti), né la fase dell'immediato dopoguerra (quando, in grandi ristrettezze economiche nonostante l'impiego nella sede romana della casa editrice Einaudi, e totalmente smarrita per la perdita del marito, arrivò a tentare il suicidio).
 Si riprese, infine, riuscendo a sfoderare un'indole insospettatamente determinata e indipendente sia sul lavoro (il suo ruolo all'interno dell'Einaudi divenne sempre più importante), sia nella vita privata (visse appassionate per quanto effimere storie d'amore sia con Italo Calvino - che al contrario di altri colleghi della casa editrice la trovava bellissima, specie in costume da bagno e con il rossetto - sia con il peraltro sentimentalmente impegnato Salvatore Quasimodo).
 Nel 1950 - l'anno di un'altra grande tragedia, quella costituita dal suicidio dell'amico e maestro Cesare Pavese - si risposò con l'anglista Gabriele Baldini, così diverso dal primo marito. Per quanto la coppia fosse perfettamente affiatata, l'unione della Ginzburg con Baldini non fu priva di dolori, da una parte per via della nascita di due figli disabili (Susanna nel 1954, e Antonio che, venuto al mondo nel 1959, morì l'anno successivo), dall'altro per la prematura scomparsa dello stesso Gabriele, nel 1969. Del resto, accanto a Baldini Natalia completò la sua maturazione letteraria, pubblicando a breve distanza di tempo l'uno dall'altro alcuni dei suoi libri più noti, quali ValentinoLe voci della seraLe piccole virtù e Lessico famigliare, con cui nel 1963 vinse il Premio Strega e che le regalò finalmente un notevole successo di pubblico e di critica.
 Nel decennio successivo la Ginzburg si dedicò soprattutto alla produzione teatrale, spesso trascurata dai suoi studiosi, e su cui invece Sandra Petrignani si sofferma a lungo, rilevando come proprio qui prenda corpo quella riflessione sulla crisi dell'istituto famigliare e quella critica sociale imperniata sull'analisi della trasformazione del ruolo dell'uomo e di quello della donna nella nostra contemporaneità che Natalia avrà modo di approfondire in seguito (è nelle opere teatrali che compaiono per la prima volta quelle donne frivole, deboli, sventate o disorientate, e quegli uomini in perenne fuga dalle proprie responsabilità o caratterizzati da un incerto orientamento sessuale che saranno al centro di un romanzo notevole come Caro Michele, uscito nel 1973).
 Nel corso degli anni settanta - nel clima cupo delle stragi, del terrorismo, della strategia della tensione - Natalia Ginzburg, grazie al proprio impegno come editorialista su diversi quotidiani (La Stampa, il Corriere della Sera, ecc.) si trasforma a poco a poco in una voce importante, ascoltata, spesso originale, qualche volta controcorrente del dibattito pubblico italiano; la notorietà così raggiunta favorirà qualche anno dopo il suo ingresso in Parlamento, dove entrerà dopo essere stata eletta alla Camera dei Deputati nelle liste del Partito Comunista, e dai cui scranni farò spesso sentire forte e chiara la sua voce.
 L'impegno politico non la terrà peraltro lontana dalla letteratura, e anzi durante gli anni ottanta uscirà quello che da molti è ritenuto il suo libro migliore: La famiglia Manzoni, in cui trasforma il monumento della letteratura italiana Alessandro Manzoni nell'oggetto di un indagine socio-antropologica, avvicinando il suo profilo umano alla sensibilità del lettore moderno come nessuno era mai riuscito a fare prima. Gli fu spesso accanto, in questo periodo, il terzo personaggio maschile di fondamentale importanza nella sua esistenza: l'amico fraterno Cesare Garboli.
 Natalia Ginzburg lucida e in piena attività fino all'ultimo, morirà a Roma, non ancora vecchia, dopo una rapida malattia, nel 1991.
 Il pregio maggiore del libro di Sandra Petrignani è la capacità di approfondire tutti i nodi problematici della personalità di Natalia Ginzburg (il rapporto complesso con il sentimento religioso, ad esempio, vissuto con la sensibilità di una donna di origine ebraica, educata al laicismo e convertitasi da adulta al cristianesimo; o il suo ambiguo rapporto con la modernità post-sessantottesca; o il suo atteggiamento nei confronti del sesso; o la sua originale interpretazione della femminilità e delle ragioni del femminismo...).
 Il limite più grosso è invece la didascalica compostezza che a volte assume nel suo sviluppo ritmico la scrittura; tale caratteristica, in un'opera dal respiro quasi enciclopedico come questa, si traduce a tratti in una certa pesantezza del dettato (ciò del resto non impedisce che vi siano anche passi decisamente vivaci e guizzanti).
 Non mi convince poi il titolo, la cui scelta è comunque ben argomentata dall'autrice, che designando Natalia Ginzburg intellettuale "corsara", tende ad accostare la sua figura a quella di Pasolini. Ma a me pare che la Ginzburg fosse affatto diversa da Pasolini, non già perché fosse più prudente nell'esprimere le proprie opinioni, ma perché la sua coerenza, la sua perentorietà, la sua decisione nascevano da un'indole incline al ripiegamento su certe forme di intimismo "borghese" per lo più estranee alla patente trasgressività antiborghese di Pasolini; e poi la timida franchezza della Ginzburg aveva un timbro del tutto differente dall'incalzante sincerità di Pasolini.

Voto: 6,5

sabato 23 giugno 2018

Isabella Leardini, "Una stagione d'aria", Donzelli editore


  L'ultima raccolta della poetessa riminese Isabella Leardini è suddivisa in sei sezioni: l'eponima Una stagione d'aria, costituita da 12 poesie; Cantare del mattino, che conta 9 poesie; Le figlie pazze del freddo, di 7 poesie; Nel buio del mare, della quale fanno parte 9 poesie; L'usurpatrice, anch'essa di 7 poesie; e L'anello, che conta 11 componimenti, nel novero dei quali spiccano per estensione e per l'interna strutturazione in strofe quello intitolato proprio "L'anello" e quello che ha per titolo "Irene". In tutto, 55 liriche.
 La cantabilità della poesia, che prende slancio dall'uso frequente dell'endecasillabo - a sciogliere i nodi e a recuperare i guizzi sostanziati dall'utilizzo di versi di un'altra misura - e sulle ali di assonanze abilmente distribuite soprattutto nella parte finale dei componimenti, è uno dei caratteri più evidenti e stilisticamente significativi del libro.
 La piacevolezza del canto, infatti, diluisce fantasie, malinconie, riflessioni, ricordi, e li rende palatabili, generalizzabili, più facili da ricordare e da interiorizzare. Le note personali, dalla chiara radice autobiografica, in questo modo, riescono ad assumere un tenore universale. 
 I temi trattati, del resto, sono tali da permettere a ciascuno di riconoscervisi: l'inafferrabilità del tempo che passa - con il corollario del rimpianto per l'infanzia, l'età della vita che sembra sottrarsi al fluire del tempo -, il senso di esclusione rispetto al complesso del consorzio umano, l'indefinibile mistura di dolore e di felicità costituita dall'amore, l'ineliminabile paura della perdita della persona amata, l'ansia di vedere se stessi e la persona amata infallibilmente riconosciuti come coppia indissolubile, la distanza esistente, in tutte le cose, tra le nostre aspirazioni e la realtà fattuale.
 Tali argomenti e tali sentimenti si ipostatizzano in una serie di immagini ricorrenti, come quella della ringhiera del balcone, che insieme è punto privilegiato d'osservazione, parapetto protettivo, limite disperante che impedisce di andare oltre la nostra natura (si veda E' da tutta la vita che tu guardo: "sono la fan che stringe la ringhiera / per non cadere nel vuoto degli anni"; o anche Gli spaventi senza fiato dell'estate: "le mani sempre strette alle ringhiere / come chi veglia solo per pregare"; o ancora, Noi che abbiamo la natura: "Stiamo comunque appese al davanzale / appoggiate come vasi fioriti").

Isabella Leardini

 Il mare, il cielo, il sole, l'estate della riviera romagnola, da parte loro, rappresentano spesso il correlativo oggettivo dell'inesausto desiderio di bellezza, di felicità e di assoluto che ci tumultua dentro, ma deve costantemente fare i conti con i limiti materiali della nostra condizione (come in Vuole giocare per tutta la notte: "Un'estate che ti fa e che ti somiglia / questo nido d'estate da cui cado / al primo temporale che la scuote"; o in Il cane che ai miei piedi guarda l'alba: "I desideri fragili che allungano / le mani dell'estate sono ancora / nascosti come i nidi tra le foglie / sono rimasti in alto e senza voli"; o ancora in Lo spettacolo dei fuochi a mezzogiorno: "Il vero amore all'inizio non nuota / entra in acqua con i piedi sui sassi").
 A fare da controcanto a tutto questo, l'arrivo dell'inverno, con le sue piogge, con il freddo, con la neve; a creare un'atmosfera più malinconica, ma forse più autentica, nella sconfitta ineluttabile delle nostre illusioni che simili immagini finiscono per allegorizzare (si guardi ad esempio Pensavo che saremmo stati: "Le rondini non sanno partire / sono le figlie pazze del freddo / e forse stanno qui da qualche parte / continuano a ripetere che questo / è il loro autunno radioso d'aria / mentre le prende piano la neve").
 Due le poesie che mi sono piaciute più di tutte, e che riporto qui sotto nella loro interezza. La prima è contenuta nella prima sezione, Una stagione d'aria:

Lasciamo l'infanzia e il suo brillare
quando le scorribande della vita
si fermano aggrappate sulla fronte
a splendere di più contro la luce.
Quando il buio viene uguale, senza scosse
la vacanza è un gioco breve di abbandoni
non uno stato, una stagione d'aria.
E' il teatro di presagi dei bambini
quel dondolare i piedi ad aspettare
l'istante esatto in cui la sera arriva.

 L'altra è parte di Cantare del mattino:

Guardami sono l'ultima a restare
orfana nella fila che si svuota
tra i nomi chiamati a giocare.
Quello che resta solo in piedi al centro
impara il vento che sbatte i desideri
mentre aspetta la riscossa del suo nome.
Amami ripetono ogni giorno
mentre si specchiano contro le vetrine
chiamami, come un respiro solo in bocca.
Chi abbandona per ultimo la fila
per sempre vuole vincere anche l'aria
quell'aria di chi ha perso ancora prima
che inizi la partita.

Voto: 6,5

domenica 17 giugno 2018

Stig Dagerman, "Autunno tedesco", Iperborea


 Il libro, uscito per la prima volta nel 1947, è frutto di un reportage portato a termine nell'autunno del 1946 nella Germania coperta dalle macerie - materiali e spirituali - lasciate dalla Seconda guerra mondiale e dal crollo del nazismo.
 Si tratta di uno straordinario esempio di analisi e di "penetrazione" di una realtà socioculturale complessa compiuto togliendosi dal naso le lenti del pregiudizio e del luogo comune: una lezione per chiunque si occupi di giornalismo, di sociologia o di politica.
 Il giovane scrittore anarchico (morto poi suicida nel 1954, a soli 31 anni) offre al lettore, fin dal primo capitolo, un'immagine icastica della prostrazione di un'intera nazione, un'interpretazione critica dell'atteggiamento dei vincitori (gli americani, gli inglesi e i russi che occupavano il territorio tedesco nell'immediato dopoguerra) nei confronti degli sconfitti, e una intelligente chiave di lettura del malessere e del disorientamento ideologico di un popolo che si vorrebbe facesse pubblica, collettiva ammenda della propria colpevole adesione al nazismo.
 Dagerman comincia infatti col descrivere un giornalista inglese che entra con schifiltosa prudenza in una cantina di Amburgo - fredda, buia e allagata dalle piogge torrenziali degli ultimi giorni - occupata da diverse famiglie con bambini ridotte in uno stato di estrema miseria; e sarcasticamente rappresenta la scandalizzata sorpresa dell'uomo quando scopre che gli ospiti dello scantinato, alle sue incalzanti domande, rispondono sinceramente che si stava meglio prima, sotto Hitler, che ora, sotto il dominio alleato.
 Da qui parte un viaggio che, città dopo città, rappresenta le condizioni di assoluta depressione della Germania di allora, tenendo conto delle evidenze del reale e non di ciò che il lettore occidentale vorrebbe sentirsi dire; le riflessioni che ne derivano sono improntate a un buon senso che riesce ad andare oltre il residuo rancore nei confronti di chi è stato nazista.
 Così, si designa ciò che i tedeschi sono costretti a mangiare non come indescrivibile - termine abusato da tutti i giornalisti occidentali - ma come semplicemente disgustoso; si fa notare come la fame feroce e persistente faccia passare in secondo piano qualsiasi considerazione di ordine politico-filosofico, e non crei le condizioni per una reale resipiscenza di chi ha sostenuto la logica delle scelte politiche di Hitler; si sottolinea come le condanne a morte degli ex gerarchi seguite al processo di Norimberga suscitino soltanto indifferenza e cinismo nella popolazione; si giunge a definire lo stato d'animo del tedesco medio come un misto di rancore verso gli Alleati, di disprezzo per se stesso, di apatia e di una "generale tendenza a far confronti a discapito della situazione attuale".

 Stig Dagerman

 Uno dei fenomeni più tristi della Germania del 1946 è  costituito dall'ostilità e dal disprezzo verso i profughi e i migranti interni: quella folla di individui e famiglie che provengono dall'est del Paese, o che, durante i mesi del 1943 e del 1944 in cui città come Amburgo Essen o Francoforte venivano sottoposte a terribili bombardamenti, erano sfollati nella relativamente più tranquilla Baviera, e che ora sono stati espulsi dal nuovo Governo bavarese, e vivono sulle carrozze marcescenti dei treni merci su cui sono stati deportati, e non hanno un posto dove andare, e non hanno nulla da mangiare, e sperimentano la disperante condizione dell'essere stranieri in patria.
 Vi sono poi le giovanissime ragazze tedesche che si prostituiscono per fame ai militari americani; ma, per quanto umiliante possa essere il loro comportamento, quasi nessuno se la prende con loro, perché "la miseria toglie l'abitudine di fare i moralisti a spese altrui". Così come neppure i ladri sono guardati con disprezzo: in certe situazioni non è immorale rubare, perché il furto significa soprattutto "ridistribuire più equamente le disponibilità, e non privare qualcun altro delle sue ricchezze".
 Persino la politica, nel clima surreale della Germania del dopoguerra, è del tutto incapace di vivere di slanci e di suscitare passioni: la generazione che è cresciuta sotto il nazismo pare precocemente invecchiata e ingrigita, e le ragioni del dissidio tra CDU, Socialdemocratici e Comunisti lasciano per lo più indifferente la grande maggioranza della popolazione; solo la paura di finire sotto il giogo dell'Unione Sovietica spinge molti a schierarsi contro il Comunismo.
 Un argomento di grande interesse è quello del processo di denazificazione, portato avanti dalle Spruchkammern, che hanno il compito di individuare e punire i militanti e i sostenitori del passato regime. Le udienze di questi tribunali sono spesso seguite come spettacoli teatrali: il fatto è che, come spesso succede in questi casi, i pesci piccoli vengono perseguiti, mentre chi ha grandi responsabilità riesce per lo più a sfuggire a qualsiasi sanzione. Capita così che il vecchio professore che in qualche occasione esaltava il regime, o il piccolo contabile fedele alle gerarchie possano essere puniti con la confisca del proprio appartamento (che verrà poi destinato a un perseguitato politico o a una vittima del nazismo), e che il grande funzionario, o anche solo il capo-fabbricato, abituato a denunciare alle autorità ebrei o tedeschi troppo tiepidi nei confronti della retorica hitleriana, la facciano franca.
 Esemplare il caso del padre del piccolo Hans, un bimbo incontrato in un villaggio di campagna poco fuori Darmstadt: l'uomo, un giurista, già pubblico ministero per i tribunali nazisti, dopo la disfatta ha acquistato il podere più grande del villaggio, e se la passa infinitamente meglio degli ex prigionieri dei lager, costretti in case pericolanti e maltenute. Trasformatosi in contadino, ogni sera va a fare legna nel bosco poco fuori dall'abitato dove, nell'aprile del 1945, i nazisti hanno impiccato dei bambini: erano membri della milizia popolare, arruolati ancora da ragazzini, che nel precipitare delle cose avevano deciso di abbandonare il loro posto per tornare a casa dalla mamma, e per questo erano stati considerati disertori.
 Con tutto ciò, la cosa più preziosa che ci insegna Dagerman è questa: bisogna avere sempre rispetto per la sofferenza, chiunque la subisca e qualunque cosa l'abbia causata, e tenere conto di come essa possa trovare riscatto solo con il tempo, a ragguardevole distanza dagli eventi che l'hanno provocata; da vicino, infatti, è quasi irrappresentabile per chi la sente, e quasi incomprensibile per chi ne è testimone.

Voto: 7,5

domenica 3 giugno 2018

Carlo Rovelli, "Sette brevi lezioni di fisica", Adelphi


 Questo prezioso, piccolo libro è stato pubblicato per la prima volta poco meno di quattro anni fa, ma mi inducono a parlarne ora, da una parte, l'occasione costituita dall'uscita di una versione audio, con l'autore stesso che "recita" le sue lezioni di fisica a beneficio degli ascoltatori; dall'altra, la quotidiana constatazione che, al di là e indipendentemente dal più elementare nozionismo, una mentalità scientifica è quanto di più lontano si possa concepire dall'abituale modo di pensare della maggioranza degli italiani.
 Il testo si articola per l'appunto in sette lezioni che, senza soffermarsi su dimostrazioni matematiche per comprendere le quali sarebbe necessario avere alle spalle anni di apprendistato, illustrano i principali lineamenti delle teorie scientifiche che costituiscono i pilastri della fisica contemporanea.
 Queste teorie vengono spiegate in maniera limpida e lineare, ricorrendo ove necessario a concreti esempi, vivide immagini e metafore, che hanno lo scopo di renderle comprensibili anche al lettore che non ha seguito un corso di studi specialistico e, mettendone in luce gli aspetti controversi e problematici, ne traducono le implicazioni culturali filosofiche in una visione del mondo complessa ma coerente.
 Le sette lezioni riguardano la teoria della Relatività (La più bella delle teorie), la teoria dei quanti, la struttura del cosmo, le particelle elementari, l'origine del cosmo, i buchi neri - messi in relazione con il calore e lo scorrere del tempo -, e, infine, il posto dell'uomo nell'universo.
 Lo stile di Rovelli è sempre estremamente brillante: riesce a rivolgersi a interlocutori con un diverso livello di competenza senza risultare quasi mai banale per gli uni né astruso per gli altri, e senza nemmeno rinunciare a una lieve, bonaria ironia, che va per lo più a pungolare la categoria alla quale egli stesso appartiene, quella degli scienziati.
 Brevi citazioni o aneddoti biografici (da e su Einstein, Planck, Bohr, Bernard Ryman, Michael Faraday, Ludwig Boltzmann, ecc.) e autobiografici alleggeriscono la trattazione, e avvicinano in qualche modo al lettore le mitiche figure dei "padri" della fisica moderna.

Carlo Rovelli

 Memorabile, ad esempio, la descrizione del "colpo di genio" che permise ad Einstein di arrivare a formulare la Teoria della relatività generale, a cui si giunge attraverso il racconto di come l'autore stesso - allora all'ultimo anno di Università - arrivò a intuire il ragionamento di Einstein osservando, in vacanza, il mare di Calabria che brillava, si increspava e si gonfiava sotto il sole. Il colpo di genio del grande fisico tedesco - che ragionava sulla forza di gravità e sul campo gravitazionale in analogia con le caratteristiche note del campo elettromagnetico -, consistette nel comprendere come il campo gravitazionale non agisca dentro lo spazio, ma sia esso stesso lo spazio (anzi, lo spazio-tempo), e curvi, e deformi tutto ciò che in esso è immerso, quasi si trattasse di un enorme mollusco.
 Altrettanto degna di nota la messa a fuoco della singolare inconciliabilità tra alcuni assunti della teoria della Relatività e la meccanica quantistica - che singolarmente, con il loro approccio rispettivamente continuo e discreto alla realtà, funzionano benissimo -, frutto di interminabili dibattiti tra scienziati di prima grandezza, Bohr e Einstein in primo luogo, con il famoso esperimento mentale dello "scatolone pieno di luce" sul quale i due fisici si confrontarono per anni.
 Vale la pena di ricordare anche la definizione dell'idea cardine secondo la quale la realtà esiste solo in quanto relazione, esattamente come l'elettrone risulta individuabile e identificabile come tale solo nel momento in cui urta un'altra particella; in caso contrario "non esiste", o esiste solo come "nuvola di probabilità diffusa".
 O ancora, l'osservazione secondo la quale si può concepire il trascorrere del tempo anche solo in funzione dei passaggi di calore dagli oggetti più caldi a quelli più freddi (senza passaggio di calore non si dà un futuro diverso dal passato), cosa che permette di formulare alcune singolari considerazioni sui buchi neri e sulla storia dell'universo.
 Mi piace riportare, in chiusura, una considerazione proposta nell'ultima lezione, quella dedicata a Noi, al portato delle più recenti teorie scientifiche in termini di visione del mondo, di trattazione filosofica del ruolo dell'uomo nell'universo. 
 Rovelli, a un certo punto, osserva che non solo noi essere umani siamo una specie relativamente recente, ma non sembriamo neppure destinati a durare troppo a lungo. Tendiamo infatti a comportarci in maniera tale da deteriorare quelle condizioni ambientali che consentono la nostra vita sulla terra. Così, oltre ad essere probabilmente l'unica specie capace di concepire la nostra morte individuale, potremmo presto diventare la prima specie a maturare la consapevolezza dell'imminenza e dell'ineluttabilità della propria estinzione collettiva; "di certo" sottolinea Rovelli, "non abbiamo la stoffa delle tartarughe", che perdurano pressoché uguali a se stesse da centinaia di milioni di anni. 
 E' piuttosto triste ammetterlo, ma guardandomi intorno mi dico che tale conclusione potrebbe essere non troppo lontana dalla realtà. 

Voto: 8