venerdì 31 agosto 2018

Jun'ichiro Tanizaki, "Le domestiche", Guanda


 Libro reticente, eufemistico, allusivo ed estremamente elegante. Tanizaki propone un vero e proprio catalogo delle domestiche che si trovano a frequentare la casa della benestante famiglia Chikura - il cui capo, Raikichi, scrittore, è palesemente un alter ego dell'autore stesso - tra il 1936 e il 1958.   L'arco di tempo preso in considerazione (che abbraccia anche gli anni tragici della Seconda guerra sino-giapponese e quelli della Seconda guerra mondiale) individua un periodo di profondissima trasformazione della cultura e della mentalità del Giappone moderno: solo che tutti i cambiamenti intervenuti risultano leggibili esclusivamente in filigrana attraverso lo scorrere della narrazione, perché l'atteggiamento di Raikichi nei confronti delle giovani donne che lo circondano e sono al suo servizio cambia pochissimo, e pare costantemente improntato a un'ammirazione per le doti personali di alcune delle ragazze, unita a una visione profondamente tradizionalistica del loro ruolo.
 La curiosità dello scrittore è attratta in primo luogo dall'aspetto fisico delle ragazze, dalla loro figura, dall'eleganza delle loro movenze, dalla luminosità della loro pelle; in secondo luogo dal loro carattere e dal loro modo di esprimersi; in terzo luogo dalla loro cultura e dalle loro capacità. Le domestiche non sono dunque considerate delle semplici lavoranti; sono invece, in sostanza, delle ancelle che l'affetto del padrone tende a trasformare in membri della famiglia.

 Junichiro Tanizaki

 Capita così, da una parte, che il ricordo delle domestiche che più a lungo hanno servito presso la famiglia Chikura si tinga di un erotismo non prorompente, ma certo teso e vibrante, quasi che il legame di Raikichi con loro sconfinasse nella relazione sentimentale.
 D'altra parte, le ragazze più meritevoli e fedeli si vedono ricompensare dai loro datori di lavoro con l'organizzazione del loro stesso matrimonio, come fossero delle figlie per Raikichi e sua moglie: cosa che, nella cultura giapponese acquista un'importanza realmente eccezionale. Per di più lo scrittore si spinge talvolta ad occuparsi personalmente dell'educazione di quelle domestiche che abbiano mostrato una predisposizione per l'apprendimento e lo studio particolarmente evidente.
 Tra le figure memorabili su cui a lungo ci si sofferma, spiccano quella di Hatsu, donna instancabile e volitiva dal seno perfetto, che rimane con i Chikura per quasi un ventennio, e ricorda per la sua robustezza Hattie McDaniel in "Via col vento"; quelle di Sayo e Setso, che mentre sono a servizio trovano il modo di intrecciare una morbosa - e per i tempi scandalosa - relazione saffica; quella della schizzinosa Koma, che viene presa da conati di vomito tutte le volte che qualcosa la spaventa, e presenta in generale un carattere sorprendentemente bizzarro; quelle di Suzu, Gin e Yuri, le più graziose fra le domestiche, le più passionali e le più ambiziose.
 Il ritmo del racconto, visto il tema, è naturalmente lento, ma non monotono e ritmicamente cadenzato; il narratore si comporta come se gli eventi narrati sgorgassero spontaneamente e disordinatamente dalla sua memoria, vivacizzando la scrittura; lo stile, peraltro, è sempre ispirato a criteri di raffinato equilibrio, di tranquillo senso della misura.
 Così - quasi sorprendentemente - in questo libro non ci si annoia mai, e si finisce per apprezzare fino in fondo la straordinaria vocazione per l'armonia di Jun'ichiro Tanizaki.

Voto: 6

sabato 25 agosto 2018

Lia Levi, "Questa sera è già domani", edizioni e/o


 Alessandro Rimon è un ragazzino di famiglia ebraica che vive a Genova - dove è nato nel 1927 -, e cresce, come la maggior parte dei suoi coetanei, tra le gioie, i piccoli dolori, le difficoltà che gli riserva il contesto affettivo nel quale si svolge la sua esistenza. 
 Il padre Marc, nato in Belgio, di passaporto inglese, che di professione fa l'intagliatore di pietre preziose, è un uomo calmo, equilibrato, riflessivo, forse un po' troppo silenzioso e remissivo per diventare per il figlio un solido punto di riferimento.
 La madre Emilia è una donna aspra e nevrotica, perennemente scontenta e poco incline all'espansività affettuosa anche verso l'unico figlio, nei confronti del quale sembra anzi nutrire un segreto rancore dovuto alla delusione da lui rappresentata: nella prima fase dell'infanzia di Alessandro, infatti, vista la sua precocità, si era illusa che il piccolo potesse essere un genio, capace di risarcirla per interposta persona di tutte le sue frustrazioni; in realtà il bambino, che pure aveva cominciato la scuola elementare due anni prima dei coetanei, era a poco a poco rientrato entro i parametri della normalità.
 Con loro, nell'appartamento che sorge accanto al laboratorio di Marc, abita anche il nonno materno, in eterna polemica con la figlia, ma attaccatissimo al genero e al nipote.
 Una presenza costante nella quotidianità di Alessandro sono poi gli zii Osvaldo e Wanda, commercianti con importanti legami fra i maggiorenti del partito fascista, che tendono a trattare il ragazzo come se fosse il figlio che non hanno mai avuto; zia Wanda, in particolare, in più occasioni si sostituisce in tutto e per tutto alla madre Emilia come dispensatrice di quell'affetto di cui Alessandro sente il bisogno.
 In tutto questo, la religione rimane sullo sfondo come una semplice consuetudine tradizionale: solo Emilia - e più che altro per abitudine - è un'ebrea praticante, mentre Marc, e anche il nonno, Osvaldo e Wanda (e Alessandro con loro) hanno una mentalità in tutto e per tutto laica, e si sentono assai lontani dal fervore professato da alcuni rabbini della loro comunità di appartenenza. 
 Tutto cambia improvvisamente, però, nel 1938, quando vengono promulgate le leggi razziali, e la routine borghese di Alessandro, dei suoi famigliari e di tutti i loro correligionari viene scossa violentemente, riducendo tutti gli ebrei italiani alla condizione di stranieri in patria.
 Pure molti di loro si illudono che il provvedimento possa avere un impatto minimo sulla propria esistenza, e che le nuove leggi siano destinate a risolversi in una sceneggiata ad effetto come quelle a cui i fascisti hanno da tempo abituato gli italiani; tanto più che, con le conoscenze giuste, a molti inconvenienti si può porre rimedio: se Alessandro ha dovuto abbandonare la scuola pubblica per cominciare a frequentare un istituto riservato ai soli ebrei, se la radio che avevano in casa è stata sequestrata dalle autorità, e se la famiglia Rimon ha dovuto licenziare la domestica "ariana" che era con loro da molti anni, Marc, grazie alle buone entrature di Osvaldo, è riuscito a riottenere la licenza necessaria per esercitare la propria professione, che in un primo momento gli era stata revocata.

Lia Levi

 Nonostante questo, è proprio il padre di Alessandro - che, vista la sua estrazione cosmopolita, è sempre molto attento alle vicende internazionali, e sa quello che sta succedendo agli ebrei in Germania - il più preoccupato: è lui a proporre alla moglie di trasferirsi con tutta la famiglia in Inghilterra sfruttando la propria doppia cittadinanza, e ottenendo però un fermo rifiuto da parte di Emilia; è lui a prefigurare, inascoltato, la possibile rovina degli ebrei italiani quando, con tutta la loro vasta parentela, i Rimon si riuniscono nella villa a Livorno di uno di loro per valutare attentamente la situazione.
 In realtà l'esistenza di Alessandro e dei suoi prosegue in una relativa calma, appena sporcata da una punta di angoscia, fino allo scoppio della guerra, allorché il passaporto inglese di Marc (che fino ad allora avrebbe potuto essere la chiave per aprire una via di fuga) diventa davvero un problema. L'uomo, a cui è definitivamente interdetto l'esercizio della sua professione, considerato a questo punto cittadino di un Paese nemico, viene confinato in uno sperduto paesino del centro Italia; fortunatamente la sorveglianza a cui è sottoposto resta abbastanza blanda, e Marc può addirittura ascoltare radio Londra insieme al suo padrone di casa, un silenzioso antifascista in incognito.
 Ad Alessandro, che in un primo momento segue il padre e la madre, viene invece consentito di tornare a Genova per frequentare la scuola: resterà con zia Wanda, per la felicità della donna disposta a trasformarsi in tutto e per tutto in una seconda madre per il ragazzo. Il legame fra Wanda e Alessandro rimane strettissimo anche quando Marc ed Emilia ottengono di essere trasferiti vicino alla loro città, in un paesino dell'Appennino ligure, e Alessandro può riunirsi ai suoi genitori.
 Presto, però, l'andamento della guerra cambia di nuovo le carte in tavola: Mussolini cade, e con l'8 settembre il gioco delle alleanze muta completamente. I tedeschi, una volta amici, diventano occupanti in territorio italiano; per gli ebrei scatta l'allarme rosso.
 A questo punto i Rimon non sanno più dove nascondersi: Osvaldo e Wanda, persi i loro appoggi politici, faticano a salvare se stessi, e non riescono a dare una mano ad Alessandro (che, ormai adolescente, mette in atto un maldestro e fallimentare tentativo di unirsi alla Resistenza sulle montagne) e ai suoi genitori. Con i rastrellamenti dei nazisti che diventano sempre più stringenti, l'ultima àncora di salvezza a cui potersi aggrappare è rappresentata da Fausto, un parente esiliato anni prima dalla famiglia per essersi messo con una donna dalla dubbia fama, ma che Marc aveva sempre trattato con gentilezza. Fausto aiuta i Rimon a fuggire a Milano, li mette in contatto con la malavita locale, e procura loro l'assistenza di un uomo disposto ad accompagnarli oltreconfine, in Svizzera, passando per Como e per le Prealpi.
 Non tutto va liscio: la guida, d'accordo con le guardie di frontiera, ruba ai Rimon tutti i soldi che sono loro rimasti e, quando arrivano in territorio Svizzero, le autorità che li accolgono, trovando addosso ad Alessandro, Emilia e Marc dei documenti falsi, si dispongono a riaccompagnarli alla frontiera e a consegnarli ai nazifascisti. A nulla valgono la disperazione di Marc e le preghiere di Emilia: soltanto la medaglietta d'oro con la stella di David che Alessandro porta cucita nella fodera della giacca, antico regalo di sua nonna, simbolo della storia della sua famiglia e del legame sottile ma tenace che conserva con le tradizioni del suo popolo, riuscirà a dimostrare ai gendarmi svizzeri la loro reale appartenenza, e li salverà.
 Il romanzo - trasposizione letteraria della storia vera del marito dell'autrice e dei suoi genitori, restituita anche attraverso i documenti originali - è vivace, scorrevole, facilmente leggibile, estremamente istruttivo: da una parte costituisce l'ennesimo tassello che consente di ricostruire nei dettagli la storia della persecuzione e delle traversie degli ebrei italiani ai tempi del fascismo; dall'altra ammonisce a una maggior sensibilità e tolleranza tutti i benpensanti, che guardano con fastidio ai richiedenti asilo provenienti dall'Africa e dal Medio-Oriente che oggi bussano con frequenza alle nostre frontiere, delle cui dolorose vicende troppo poco sappiamo, e nelle cui condizioni le travagliate e imprevedibili capriole della Storia potrebbero un giorno far addirittura trovare noi stessi.

Voto: 6,5

venerdì 17 agosto 2018

Fredrik Sjöberg, "Perché ci ostiniamo", Iperborea


 Libro che avrei forse visto meglio pubblicato da Adelphi che da Iperborea.
 Si tratta di una raccolta di nove piccoli saggi di grande finezza culturale e dall'indole, più che digressiva, divagante, tanto che quello che dovrebbe essere il loro argomento principale finisce sempre per passare in secondo piano rispetto a mille altri aneddoti, spunti di riflessione, curiosità bizzarre ed excursus eruditi, che si prendono intera la scena e catturano l'attenzione del lettore.
 Così, la descrizione di una grotta situata in Baviera, suggerita all'autore dall'incrocio casuale di una deviazione intravista percorrendo le strade della Germania Meridionale, può diventare una scusa per arrivare a parlare di depositi di nitrati, dell'invenzione - nel campo dei giocattoli per bambini - dell'orsacchiotto Teddy Bear in ricordo di una celebre battuta di caccia del Presidente americano Theodor Roosevelt, del nazismo, del carburatore di un vecchio motorino, e di una famiglia di coleotteri.
 Un'articolata argomentazione sull'importanza, in varie fasi della vita di ciascuno di noi, della ricerca dell'avventura e dell'atteggiamento emotivo ad essa connesso può condurre al racconto dell'originale storia di una famosa fotografia autografata da Strindberg o della rocambolesca creazione di una delle principali collezioni d'arte svedesi.

Fredrik Sjoberg

 Di questo passo, prendendo le mosse dai temi più disparati, si giunge a ricamare, ad esempio,  intorno all'importanza dell'invenzione della borsa da portare a tracolla nella storia dell'evoluzione dell'uomo tout court, della sua mentalità e della sua innata propensione al collezionismo; o intorno all'incontro tra Lenin - di passaggio da Stoccolma sulla via che l'avrebbe riportato in Russia per dare avvio alla Rivoluzione - e Anna Lindhagen, una delle pioniere dell'ambientalismo in Svezia; o intorno al rapporto tra l'arte e le tavole illustrative dei manuali di ornitologia; o intorno al legame tra la vicenda biografica di Waldemar Jungner e la storia dell'inquinamento nei Paesi scandinavi e nel mondo intero.
 Naturalmente tutto questo divagare risponde a una precisa strategia: fare dell'ironia e della bizzarria gli strumenti ideali per svincolarsi dall'utilitarismo razionalizzante che caratterizza comunemente la letteratura saggistica, in modo da approdare alla dimostrazione che l'estetica - con l'attenzione privilegiata alla dimensione della bellezza - è il vero passepartout per affrontare problemi che un approccio tendente all'oggettività scientifica finisce per lasciare irrisolti.
 Il libro è affascinante, la sua tesi di fondo è senz'altro condivisibile, ma lo stile che gli dà sostanza è talmente poco affine al mio modo di scrivere e di intendere la letteratura da farmi apparire piuttosto noiosi anche passi che noiosi non sono.

Voto: 5,5