domenica 28 ottobre 2018

Franco Arminio, "Resteranno i canti", Bompiani


 Composita raccolta del poeta irpino Franco Arminio, in cui ricorrono e si mescolano i temi esistenziali della ricerca della pienezza del vivere, dell'amore, dell'inquietudine umana di fronte alla prospettiva della morte, e quelli civili dell'emigrazione, dello spopolamento del meridione, della "paesologia", della naturalezza comunicativa della poesia e della sua valenza sociale e terapeutica.
 Il libro si divide in sette parti precedute da un componimento iniziale ("Mai vista una primavera così bella") che funge da incipit dell'intera raccolta. A Non era niente seguono Intimità provvisorieL'inquietudine è la mia fosforescenzaTerre dell'ossoEmigrantiCasamadre e Appunti sullo scrivere in versi. Di tanto in tanto, brani in prosa di tenore esplicativo, ma non puramente didascalico, vengono intercalati fra i componimenti in versi per meglio contestualizzarli.
 A tutta prima può sembrare che questi componimenti - per quanto spesso assai interessanti dal punto di vista tematico - non posseggano né l'originalità, né la raffinatezza, né le profonde risonanze emotive della grande poesia. E tuttavia sarebbe un errore scambiare per banalità la semplicità del poetare di Arminio; essa è piuttosto espressione della volontà programmatica dell'autore di rendere i suoi versi fruibili e apprezzabili indipendentemente dalla capacità del lettore di cogliere i riferimenti culturali sciolti fra le parole, e i procedimenti tecnici e stilistici secondo i quali è organizzato il loro ordinamento.
 A volte, così, il giro di una frase si presenta con la grazia e l'eleganza essenziale di un haiku ("Quando nevica / la bellezza è tornare a casa / con la neve sulle ciglia"); altre volte il superamento della regolarità metrica e prosodica - messa in atto per adottare il verso libero in funzione della ricerca di una maggiore efficacia delle immagini proposte o di una maggiore perspicuità del discorso poetico - non impedisce di suggellare la musicalità del componimento con una icastica rima finale ("La civiltà occidentale vista dagli uccelli: / siete il tramonto / perché avete accettato facilmente / il fatto che siete tutti senza luce, / specialmente chi vi conduce").

Franco Arminio

  La specificità della poesia di Arminio, tuttavia, risiede in caratteristiche non prettamente formali:  ad esempio, il tono dell'io lirico, pur partendo da un nucleo pulsante di considerazioni di carattere intimistico o da un'attitudine descrittiva, è quasi sempre sentenzioso e precettistico; in un certo senso, aforistico. Si vedano, a questo proposito, i passi di diversi componimenti tratti dalle varie sezioni in cui la raccolta si articola: "Non pensarla la gioia, sentila, / è una fioritura della carne, / è il maggio delle ossa, / l'aprile degli occhi."; "Il dolore che ti arriva / guardalo, lavalo, / tienilo con te."; "Datti alla vita intensa, / cercala, / non fare altri errori"; "Considera che le storie importanti / fanno male e se non fanno male / non sono importanti."; "L'amore è leggere il sacro / seppellito nei corpi"; "Le persone si incontrano / per rinascere. / Nascere / non basta mai a nessuno."; "Noi ogni tanto / dobbiamo vivere / come se fossero passati / sette anni / dalla nostra morte."; "C'è sempre da scrivere un'altra cosa"; "I paesi si salvano con gli occhi. / Prima bisogna guardarli / come un uomo giovane / guarda una donna bellissima."; "Il fallimento di un uomo / è sempre un'impresa corale"; "Ricordatevi questi nomi, / sono alcuni dei paesi più feriti / dall'emigrazione"; "Nessuno ha mai finito la poesia. / Ne resta sempre tanta / per gli altri, per chi viene".
 In realtà, i risultati migliori, a mio parere, Arminio li ottiene quando lascia da parte la sua vene sentenziosa per abbandonarsi alla tenerezza o alla malinconia dei ricordi e dei pensieri, senza la pretesa di individuare principi assoluti e universalmente validi. Si consideri questa poesia, che fa parte di Intimità provvisorie: "Non ho mai capito / perché una storia / deve essere grande. / Il nostro è un sentimento / piccolo e vago, buono / per passare nella cruna / di un ago".
 O, ancora nella stessa sezione, questo componimento: "Forse ogni amore / ha un solo giorno / una sola occasione. / Forse i grandi sentimenti / sono occasioni. / Difficile che tu possa ritrovare / la farfalla che hai visto / il giorno prima".
 O, in L'inquietudine è la mia fosforescenza, i versi seguenti: "Si tratta di scegliere / il dolore. / Della mia paura di morire / ho fatto una storia senza fine. / La mia unica storia d'amore / alla fine".
 O, in Terre dell'osso: "Le vecchie del paese / si svegliano presto / per tenere pulita la casa / in cui stanno sole con i morti. / La sera sopra il tavolino / un pezzo di scamorza, / una mela, mezzo bicchiere / di vino".
 O, in Casamadre: "Ricordo con tristezza mia nonna / ricoverata all'ospedale civile di Avellino. / Una visita breve / insieme a mio padre, / ricordo le lacrime di mia nonna / quando stavamo per uscire: / lei restava nel suo letto, / noi andavamo a vedere la partita / Avellino-Fiorentina".
 La poesia più bella dell'intera raccolta, per me, è questa:

Che sia un amore
dolce e lieve,
un amore che può stare
su una ragnatela
senza paura di cadere.

Voto: 6,5

lunedì 22 ottobre 2018

Patrizia Valduga, "Poesie erotiche", Einaudi

 
 Il libro raccoglie la parte più significativa delle poesie erotiche di Patrizia Valduga: componimenti diversissimi fra loro per tono, stile e misura, scritti nell'arco di diversi decenni.
 Si va dalla Lezione  di tenebre e dalle Cento quartine, dove il metro adottato è sempre rigorosamente quello dell'endecasillabo (e l'autrice si esprime attraverso originali - e spesso trasgressive - quartine a rima alternata), alla reinterpretazione dell'Erodiade di Mallarmé e della Fedra di Racine, fino alle terzine di La tentazione e ai componimenti dedicati a Sade di Lezione d'amore.
 Completa il libro la Confessione di una ladra di versi, un saggio suddiviso in cinque brevi capitoletti in cui Valduga analizza tecnicamente e teoreticamente la propria poesia, prova ad autodefinirsi come autrice, e dichiara i propri debiti nei confronti di altri poeti (arrivando a riconoscere in se stessa quello che lei chiama un'ectoparassita, vale a dire una personalità letteraria capace di appropriarsi e di servirsi del prodotto del genio di altri autori, rendendo però patente il proprio "furto" attraverso citazioni piuttosto scoperte e insistite).
 Ci troviamo di fronte indubbiamente a una poetessa assai colta e consapevole dei propri mezzi; questo è percepibile non solo nella perizia formale dei versi, nell'efficacissima scelta delle immagini, nella sottile tessitura lessicale del discorso, ma anche e soprattutto nella capacità di tramutare la forma in sostanza (si veda per esempio il sapiente utilizzo dell'enjambement, il gioco delle rime e la scansione ritmica di questo passo del monologo di Erodiade: "Io amo / l'orrore d'esser vergine, il tormento / quando nella carne inutile sento, / dai miei stessi capelli spaventata, / serrata nel letto, serpe inviolata, / il freddo scintillio dei tuoi chiarori, / tu che ardi di castità, tu che muori").
 Talvolta il poetare, appoggiandosi alla tradizione e traendo forza da essa, acquisisce, nella sua compostezza, una potenza degna dei classici, come nella confessione finale da parte di Fedra, che ammette la sua colpa senza che questo possa placare minimamente l'impeto della sua passione nei confronti di Ippolito: "Fui io a guardare con occhio incestuoso / Ippolito pudico e rispettoso. / Il cielo mi dannò al fuoco funesto, / l'esecrabile Enone ha fatto il resto / per proteggere il mio infame segreto. / E ora la raggiungo al morto greto.../ Ho versato un veleno nelle vene, / lo stesso che Medea portò ad Atene."
 Tutto ciò non impedisce la rappresentazione assai vivida della sfrenatezza dell'erotismo e del carattere talvolta osceno e violento del sesso (come in La tentazione: "Bada a non farmi far troppa fatica, / piccola morta, non lo sai? Dovrai / aprirmi come un fiore la tua fica!"; "Come si sta altera e disdegnosa! / Scosciatela così che me la prenda / e disbrami la voglia che mai posa"). 

 Patrizia Valduga

 Una declinazione del tema che raggiunge caratteri estremi nel sadismo della Lezione d'amore ("Togli la cinta... apri... annusa. Annusa! / Ma no che non ti strangolo, bambina... / Tiralo fuori e annusa... / anche le palle... sì... brava bambina... / Adesso lecca... bagna... / brava, brava, così... come una cagna"; o ancora: "Stringo il culo a ogni colpo... e apro la fica / intorno alle sue dita... / Ma sento male... meglio che lo dica... / Dica che? scimunita!, / che mi ha rimescolata in tale modo / che non so dire più se soffro o godo?").
 Non senza, del resto, che si faccia notare come, in amore, la distanza tra triviale e sublime possa essere di un solo passo (Congiunta a lui, e sempre più divisa, / senza un bacio da lui, senza un sorriso, / sempre più indivisibile e indivisa, / ascesa al puro cielo del suo viso, / che in me qualcosa ha ucciso... / è il paradiso... sono in paradiso...").
 Al cospetto del persistere di queste dinamiche, maggiore freschezza, originalità e felicità si può a mio parere riscontare nei brevi componimenti di Lezione di tenebre e di Cento quartine; sia che si celebri il carattere totalizzante dell'unione amorosa ("Per me dentro di me oltre la mente / il suo corpo su di me come una coltre / ma oltre il corpo in me furiosamente / in me fuori di me oltre per oltre..."), sia che si lamenti la difficoltà di trovare in amore la sintonia perfetta ("Ma l'estasi, ma l'io senza più io? / Da quanti anni ormai io chiedo ai cieli / un cuore perpendicolare al mio / e mi arrivano tutti paralleli!"), sia che si cerchi di analizzare l'involuta complessità dei nostri equilibrismi sentimentali  nell'ambito della relazione con l'altro ("Avrei finto di non avere voglia / perché a forza mi facesse volere. / Io voglio che tu voglia che io non voglia: / questa è la verità del mio piacere."), sia che si provi a rappresentare il carattere insieme intellettuale e fisico del desiderio erotico ("E sempre quella mano sulla fronte... / E l'altra lì, così, due dita sole... / E quando fica e testa sono pronte / riempile di cazzo e di parole").
 In Cento quartine, in particolare, il discorso amoroso prende tutti i colori della dolcezza, del desiderio, dell'entusiasmo, del dubbio o dell'estasi (si veda la n.10: "Tu, misterioso spirito gentile, / fammi la guardia come un carceriere: / che non nasconda più, vanesia e vile, / verità vergognose e voglie vere"; la n. 17: "Fa' presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al tuo letto, / consolami, accarezzami la faccia; / scopami quando meno me l'aspetto"; la n. 51: "Oscura chiarità, festoso inferno, / lucida frenesia, gioia impaurita, / riso nel pianto, brevità d'eterno, / trofeo e indice della mia vita..."; la n.88: "Càlati giù, o notte dell'amore, / fammi dimenticare la mia vita, / accoglimi nel seno del tuo cuore, / liberami dal mondo e dalla vita!", la n.98: "Per tutti i giorni, amore, dell'amore: / l'uno nell'altra, fusi, per amore, / trasfusi l'uno nell'altra, per amore, / trasumanati, amore, nell'amore").
 La più interessante e originale fra tutte le poesie antologizzate, per me, è questa:

E anche con lui era come masturbarmi,
mai matura, scentrata e senza centro.
Di grazia, gli chiedevo, vuoi insegnarmi
a venire assieme a te con te dentro?


Voto: 7

domenica 14 ottobre 2018

Maurizio Maggiani, "L'amore", Feltrinelli


 Scegliere di trattare un tema capitale, e frequentatissimo dalla letteratura - a tutti i livelli -, come l'amore può esporre al rischio concreto di proporre solo banalità, o di ripetere per l'ennesima volta cose già dette da altri. 
 Per questo, prudentemente, molti narratori contemporanei, quando parlano d'amore, tendono a citare - scopertamente e talvolta dichiaratamente - altri autori che li hanno preceduti, e ad adottare un tono lievemente ironico nei confronti dei luoghi comuni del sentire condiviso, ed autoironico nei confronti dei propri sentimenti; quegli stessi sentimenti che, d'altra parte, essi vorrebbero raccontare e magari celebrare: quasi che se ne vergognassero. E' l'approccio tipico del postmodernismo, sui paradigmi del quale tanta parte della letteratura colta continua ancor oggi ad indugiare.
 Diversa è la prospettiva in cui si pone Maurizio Maggiani, che per parlare d'amore sceglie semplicemente di parlare d'altro. 
 Intendiamoci: al centro del suo romanzo c'è proprio l'amore coniugale, il rapporto tra "lo sposo" e "la sposa", e la consapevolezza di cosa voglia dire amare, che lo sposo - protagonista del libro e alter ego del narratore (tanto che il suo punto di vista impronta di sé l'intera narrazione, sebbene questa sia condotta in terza persona) - ha acquisito nel tempo grazie al cinema, grazie alla politica, grazie al lavoro, grazie alle esperienze avute con tutte le ragazze e le donne che, in varie fasi della sua vita, gli sono state accanto.
 Il fatto è che tutte queste esperienze, anche quelle più squisitamente "amorose", non vengono rivisitate in funzione dell'elaborazione di una teoria sull'amore, della tessitura di un discorso amoroso da cui ricavare una visione tassonomica e magari manualistica di questo sentimento. Al contrario, si cerca di raccontare come l'esistenza possa insegnare qualcosa sull'amore nei modi e nelle occasioni più inattese, soffermandosi sempre sul dato concreto, senza la pretesa di assolutizzarlo a tutti i costi, senza l'ansia di astrarsi dalla pura fenomenologia per approdare alla formulazione e all'enunciazione di principi generali e universalmente validi; mettendo piuttosto a fuoco il dato di realtà in sé e per sé, soprattutto quando questo pare quanto di più lontano si possa immaginare dall'erotismo classicamente inteso.
 Dal punto di vista strutturale, il romanzo consiste nella narrazione di una intera giornata - e della notte seguente - passata dallo sposo alternativamente alla luce della presenza, dell'assenza o del pensiero della sua sposa, che incrociano continuamente le sue attività quotidiane, le sue riflessioni e, soprattutto, i suoi ricordi. 
 In tutto questo, il dato più importante è l'attenzione e l'impegno che lo sposo tenta di mettere in ogni cosa che fa (che si tratti di contemplare l'orto fuori dalla finestra, preparare il caffè, pulire lo stoccafisso in vista della cena, pedalare in bicicletta, aiutare un gruppo di operai che ha rilevato l'azienda in cui lavorava ad acquistare una partita di zinco...) in funzione e in vista dell'amorevole cura con cui egli ritiene necessario trattare la sua sposa. E i pensieri e i ricordi che gli sovvengono nel corso di tutte queste azioni sono occasioni per trovare conferme e giustificazioni della sua condotta, e spiegazioni di come vi sia arrivato e vi si sia adattato.

Maurizio Maggiani

 Rientrano in questo meccanismo la rievocazione della Mari, antica fidanzata con cui lo sposo ascoltava canzoni d'amore alla moda, e oggi irriconoscibile pescivendola malamente invecchiata; quella dell'impresa con cui lo sposo scassinò il portone d'ingresso dell'Università per dare il via all'occupazione durante il '68, gesto che gli guadagnò presso i compagni di militanza il soprannome de "il Fabbro"; il ricordo della casta ammirazione con cui il protagonista, da ragazzo, guardava "la Padoan", una giovane scout "con le tette come Anna Magnani", che determinò per lui la definizione di una sorta di paradigma erotico che si sarebbe trascinato dietro negli anni a venire.
 E ancora: i film che gli insegnarono a dire "ti amo", cosa che prima era del tutto incapace di fare; le escursioni in bicicletta con Tiberio Nicola, "congegnatore meccanico" e insostituibile maestro di Comunismo; la conoscenza del sesso e la "prima volta" dello sposo, presso una spiaggia naturista, insieme alla Patri, una rossa prosperosa e occhialuta, piena di lentiggini, allora fidanzata con Giovanni, un gigantesco e temibile operaio dalle granitiche convinzioni politiche; il ritorno al periodo dell'appassionata relazione con Chiaretta, femminista e compagna di ballo del giovane protagonista; il ricordo dell'epoca in cui lo sposo, terminata l'esperienza del comunitarismo rivoluzionario e di Lotta Continua, si fece imprenditore di se stesso; la caduta in moto, la convalescenza e la conoscenza di Ida, "la bislunga", destinata, ai tempi della prima Guerra del Golfo, a diventare la sua fidanzata nonché la prima donna a insegnargli a dire addio, prima di partire per la Gran Bretagna e di sposare un maraja. Quella stessa Ida richiamata tristemente alla memoria da un messaggio ricevuto in giornata dagli Stati Uniti,che ne annuncia la morte prematura. 
 Così, se a un livello puramente epidermico i ricordi costituiscono un gigantesco serbatoio di "fatterelli" che lo sposo è solito raccontare alla sposa prima che questa si addormenti, e a un livello un po' più profondo sostanziano la maturità sentimentale raggiunta dallo sposo e pienamente espressa nel suo amore coniugale per la sposa, su un piano superiore, concettuale e letterario, essi danno l'idea che l'amore sia qualcosa di più e di diverso da un legame sessuale fra due persone o da uno stato d'animo condiviso; piuttosto, è la sublimazione di un rapporto di coppia nella capacità per entrambi le persone coinvolte di "tenere nobilmente tutto insieme": il passato e il presente, le gioie e i dolori, le virtù e i difetti propri e dell'altro, le paure e le aspirazioni, affinché il mondo intorno ai coniugi acquisisca davvero un senso compiuto. 
 E' per questa via che, obliquamente, dalla costruzione di un solido piano di realtà si arriva a distillare una "teoria dell'amore": senza enunciazioni altisonanti e senza smancerie, attraverso una narrazione semplice condotta con una scrittura semplice, lineare e lieve, quella che si usa per nominare le cose della quotidianità.

Voto: 6,5

domenica 7 ottobre 2018

Martin Amis, "La casa degli incontri", Einaudi


 Il protagonista-narratore di questo romanzo, pubblicato ormai qualche anno fa, è un uomo cinico, inquieto, colto, scorbutico e disperatamente sincero, che ha avuto una vita difficile e avventurosa: da giovane, durante la Seconda guerra mondiale, è stato un soldato dell’Armata rossa, e non si vergogna di dichiarare di “essersi fatto largo a suon di stupri” nei territori tedeschi; tornato in Russia, nel dopoguerra, è stato rinchiuso in un gulag come dissidente; lasciatosi alle spalle la prigionia, è riuscito ad arricchirsi vendendo televisori ai notabili del regime, e all’inizio degli anni ottanta si è trasferito negli Stati Uniti. Ha avuto molte donne, e un solo grande amore.
 Infine, a ottantasei anni, alla vigilia della morte, scrive le sue memorie indirizzandole alla figliastra Venus, perché questa le possa pubblicare dopo la sua scomparsa. Lo scritto viene redatto proprio mentre il protagonista compie una sorta di viaggio nel passato, risalendo a bordo di un’imbarcazione il fiume Enisej per giungere fino a Norlag, presso la gelida città di Predposylov, in Siberia, dove sorgeva il gulag in cui egli fu internato per dieci anni insieme al fratello Lev.
 Nell’inferno disumano del campo di lavoro la violenza regnava sovrana, ogni certezza dei prigionieri veniva meno, e la loro stessa personalità rischiava di essere destrutturata. Una cosa però manteneva vivo lo spirito dei due fratelli: il ricordo di Zoya, la donna che Lev aveva sposato e della quale anche il protagonista era perdutamente innamorato. Durante la prigionia, una volta, Lev aveva addirittura ottenuto il privilegio di appartarsi con Zoya nella cosiddetta “casa degli incontri”, l’edificio nel quale ai prigionieri “meritevoli” era permesso passare qualche ora con le proprie donne. Ma dopo quell’appuntamento qualcosa era cambiato in Lev; e sebbene avesse proseguito la sua vita con Zoya dopo essere stato liberato, non aveva più ritrovato la sua serenità.

Martin Amis

 Ora il protagonista tiene in tasca una lettera proprio di Lev, scritta anni prima e mai aperta. Sarà forse quella lettera a rivelargli ciò che accadde nella “casa degli incontri”? E la rivelazione saprà fornirgli la chiave per capire finalmente la personalità di Zoya? Tutto questo lo aiuterà a comprendere meglio la sconvolgente crudeltà della Russia e dei russi, la crudeltà dei governanti russi contro il popolo russo, si chiamino essi Stalin o Putin? Nulla infatti, nella Russia contemporanea, sembra essere cambiato rispetto alla Russia sovietica: e l’orrenda strage di bambini che si sta compiendo nella scuola numero uno di Beslan, in Ossetia settentrionale, proprio mentre il protagonista scrive, ne è la conferma.
 Martin Amis offre qui un romanzo crudo e potente, spigoloso come il suo protagonista, che a dieci anni dalla sua prima uscita conserva intatta tutta la sua forza espressiva e la sua efficacia. Lo scrittore sviluppa la narrazione in maniera assolutamente non lineare, giustapponendo informazioni, recuperando progressivamente ciò che non era stato detto in un primo momento, quasi che plasmare i materiali di cui si compone il racconto sia un processo difficile, pieno di tranelli, mai concluso definitivamente. 
 Ma il quadro che infine ne scaturisce, e la verità che ne emerge hanno una loro rabbiosa coerenza.

Voto: 7