venerdì 28 dicembre 2018

Sébastien Japrisot, "La cattiva strada", Adelphi


 Le Mal Partis fu pubblicato in Francia nel 1950, quando il suo autore non aveva ancora compiuto diciannove anni; significativamente il libro piacque alla critica, ma il pubblico si mostrò piuttosto tiepido nei confronti di un'opera che trattava un argomento realmente scabroso.
 In Italia il romanzo fu introdotto solo nel 1979, con il titolo Storia d'amore di una suora, una tiratura limitata e la scelta di indicare quale autore Jean-Baptiste Rossi, senza utilizzare lo pseudonimo sempre usato da questo scrittore: Sébastien Japrisot. 
 L'odierna pubblicazione da parte di Adelphi rappresenta dunque qualcosa di nuovo, e offre l'occasione per far conoscere anche nel nostro Paese un testo notevole sotto diversi aspetti.
 La storia raccontata è quella di una inconfessabile relazione tra una suora ventiseienne e uno studente di soli quattordici anni. Il romanzo, però, è privo di autocompiacimento e, paradossalmente, anche di qualsiasi traccia di morbosità: Japrisot, infatti, riesce a tenersi contemporaneamente lontano dall'attitudine solo superficialmente trasgressiva propria, ad esempio, del giornalismo scandalistico - o di certa letteratura di consumo -, e dai luoghi comuni della letteratura erotica; al contrario, presenta e sviluppa la vicenda narrata con precisione analitica, senza orpelli retorici e senza indugiare su particolari inutili o su scene non essenziali nell'economia narrativa, ma allestite a bella posta per sgomentare il lettore.
 In questo modo riesce a problematizzare il racconto, a suscitare dubbi profondi sulla presunta innaturalità e sulla pretesa illiceità di un amore apparentemente inconcepibile, e in definitiva a creare un'opera capace di dare realmente scandalo, come solo i capolavori sanno fare.
 Denis Leterrand frequenta la quarta classe del collège presso un istituto religioso gestito dai padri Gesuiti in una città nel sud della Francia occupata dalle truppe naziste. Siamo nel 1943, ma la guerra gli scorre accanto senza toccarlo: le sue giornate, all'ombra della ristrettezza di vedute dei genitori prigionieri degli schemi di una mentalità tipicamente piccolo-borghese, e della grettezza dei sacerdoti che svolgono le mansioni di insegnanti e sorveglianti a scuola, si snodano fra le pastoie di precetti convenzionali improntati a un'insopportabile ipocrisia. Per questo il ragazzo è sempre più inquieto e indisciplinato, e vive nell'attesa che un grande cambiamento venga a liberarlo dalla collosa monotonia a cui si riduce la sua vita quotidiana.
 Con tutto ciò, Denis è ancora pieno di candore: la sua fede in Dio è autentica, e un'assoluta onestà caratterizza il suo modo di guardare se stesso e il mondo. Così, quando incontra per caso suor Clotilde presso l'ospedale dove gli studenti dell'istituto si recano ogni giovedì per portare conforto ai vecchi malati, non c'è malizia nel trasporto con cui egli nota quanto la giovane monaca sia più graziosa delle sue consorelle, né nell'insistenza con cui in seguito tenta di rivederla e di conoscerla meglio.

 Sébastien Japrisot

 Del resto, anche suor Clotilde - che pure ha dodici anni più di lui - è pervasa di candore: ha preso i voti quasi senza pensarci, e praticamente senza conoscere né il mondo né se stessa, perché i suoi genitori hanno deciso per lei quale sarebbe stata la sua strada.
 Il fervore di Denis suscita in lei un sentimento mai provato prima: un sentimento che dapprima la ragazza scambia per una manifestazione del proprio sopito istinto materno, ma che a poco poco si palesa per qualcosa di diverso, qualcosa che è capace di scuotere tutto il suo essere, fino a confondere la sua visione del mondo, fino a piegare la sua volontà.
 In fondo, come nota a un certo punto la stessa suor Clotilde, è come se i due ragazzi fossero coetanei: l'assoluta mancanza di esperienza della giovane suora annulla la differenza d'età, e fa sì che lei e Denis scoprano insieme la prepotenza dell'attrazione reciproca.
 E quando il demone dell'amore si impadronisce definitivamente di loro, non c'è davvero nulla che riesca a opporsi alla loro nascente passione: non la paura della legge degli uomini, non il timore nei confronti della legge di Dio che hanno interiorizzato fin da bambini, non il senso della convenienza, non il rimorso nei confronti dei genitori di Denis, o della superiora responsabile del convitto in cui suor Clotilde presta servizio come insegnante; Denis e Claudie - questo il vero nome della suora - sono disposti a tutto pur di stare insieme.
 Con estrema audacia, suor Clotilde ottiene di poter utilizzare come pied-à-terre l'appartamento lasciato vuoto da una sua amica e compagna di studi destinata a sposarsi e a trasferirsi col marito fuori città: è lì che lei e Denis si amano per la prima volta.
 Più avanti, anche le circostanze li aiutano: la città in cui si trovano viene bombardata dagli Alleati, frattanto sbarcati in Normandia; i genitori di Denis vorrebbero mandare il ragazzo in campagna, e suor Clotilde - che nel frattempo ha cominciato a dargli ripetizioni di latino per avere il pretesto di vederlo più spesso - si offre di portare con sé il suo giovanissimo amante segreto a Villarguier, per ospitarlo, lontano dai rischi della guerra, in una casa appartenente alla propria famiglia.  
 E tuttavia, gli abitanti del piccolo villaggio non tardano ad accorgersi dell'eccessiva intimità esistente tra quel ragazzino e la suora, che sempre più spesso sveste la tonaca per indossare abiti civili. Quando il postino li sorprende mentre giocano a inseguirsi in un prato, e poi il figlio della fornaia del paese li scorge mentre si scambiano un bacio ai margini del bosco, lo scandalo è enorme. 
 Claudie, nonostante il tentativo della superiora (avvisata della situazione che si è venuta a creare dal parroco della pieve locale) di farla tornare sui propri passi, abbandona il velo; Denis, richiamato in città dai suoi genitori atterriti dalla prospettiva del clamore che l'avventura del ragazzo potrebbe suscitare, viene spedito come residente in un collegio di Grenoble, in cui è destinato a restare rinchiuso come in un carcere fino al Baccalauréat.
 In una straziante scena finale, Denis viene trascinato sul treno che lo porta verso la sua prigionia da due preti che lo scortano come fossero secondini, mentre Claudie, in lacrime, gli giura eterno amore e gli promette che lo aspetterà negli anni a venire. 
 La lettura del testo, con il suo stile minuzioso e incisivo, dà un capogiro che non c'entra nulla con il gusto del proibito: si finisce per chiedersi seriamente se norme etico-filosofiche che di solito riteniamo facciano parte della struttura portante della morale naturale non siano, in fondo, relative, e se la loro validità non dipenda dalle circostanze particolari in cui ci si richiama ad esse, e dagli individui a cui si pretende di applicarle.

Voro: 8 

domenica 16 dicembre 2018

Patrick Modiano, "Ricordi dormienti", Einaudi


 In un'epoca in cui quasi tutti gli scrittori, indipendentemente dalla loro caratura letteraria e dalla loro impostazione stilistica, si adeguano ai moduli di una narratività linearmente distesa, Patrick Modiano si dimostra capace di fare suo un modo di raccontare diverso: un procedimento che, sovvertendo l'ordine logico e cronologico degli avvenimenti presentati, si può ben ricondurre all'ambito dello sperimentalismo antinarrativo così lontano dalle mode attuali.
 Lo si vede bene in  questo Ricordi dormienti (Souvenirs dormants), dove lo scrittore che ha fatto della persistenza fisica della memoria la cifra caratteristica della sua poetica prova ad andare oltre se stesso per esplorare i territori incogniti delle potenzialità non realizzate, gli ingannevoli fantasmi del ricordo di ciò che avremmo voluto o potuto effettivamente fare ma che, alla fine, non abbiamo fatto.
 Il fenomeno messo a fuoco è quello per cui gli atti solo immaginati, attraverso il filtro della memoria, riescono talvolta ad assumere uno statuto di realtà addirittura pari o superiore a quello del ricordo di situazioni concretamente vissute.
 In questo modo, verità e fantasia, attestazioni documentarie e vaghe supposizioni tendono a confondersi facendo apparire la struttura mnemonica intorno alla quale è costruita la nostra personalità qualcosa di quantomai impalpabile e precario: qualcosa che è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
 La frase chiave che spiega come sono concepite le avventure che costituiscono i pezzi del frammentato racconto di questo libro appare verso la fine del romanzo, mentre il protagonista narratore, dopo aver ritrovato un foglio dall'inchiostro stinto che riporta misteriose indicazioni stradali - forse vergate da uno sconosciuto - per raggiungere una località da lui mai visitata fuori Parigi, accarezza l'idea di recarsi veramente in quel luogo. Riflettendo sui propri atti mancati, il protagonista dice allora : "Migliaia e migliaia di sosia di te stesso si avventurano sulle migliaia di strade che non hai imboccato ai crocevia della tua vita, e tu che credevi che ci fosse una strada soltanto".

Patrick Modiano

 E' da qui che bisogna partire per capire come lo stralunato Jean, dopo essere caduto preda di una estemporanea vertigine sul lungosenna, di fronte a un libro il cui titolo evoca per lui un tempo lontano, richiama alla memoria - in un disordinato resoconto - le donne da lui incrociate negli anni sessanta del Novecento, intorno ai suoi vent'anni, o poco prima, o poco dopo, e che poi ha perso di vista, o che ha piantato in asso senza sapere bene perché: dalla "figlia di Stioppa" (un misterioso amico russo di suo padre) a Mireille Uruzov, l'attrice che lo ospita nel suo appartamento parigino in occasione della sua fuga da un collegio in Alta Savoia; da Geneviève Dalame - appassionata di scienze occulte - alla sua esperta amica Madeleine Péraud; dalla signora Hubersen all'anonima ragazza soccorsa da Jean nel 1965 - forse solo con la fantasia - dopo essere rimasta coinvolta nell'omicidio di un comune conoscente.
 D'altra parte non è affatto certo che sia davvero Jean il protagonista di quelle avventure: persino lo statuto identitario del soggetto perde insensibilmente, progressivamente determinatezza.
 Nel vortice nebuloso di avvenimenti parzialmente decontestualizzati - o riferiti in maniera sommaria e imprecisa - che si succedono e si confondono nella narrazione senza che sia individuabile altro filo logico da quello costituito dalla dichiarata aleatorietà degli incontri che segnano una vita, ogni cosa assume una consistenza quasi onirica, che affascina e intriga con la lusinga delle domande senza risposta che fa nascere.
 La lettura risulta così piacevole, interessante e anche paradossalmente scorrevole.

Voto: 6,5    

domenica 9 dicembre 2018

Sandra Petrignani, "La scrittrice abita qui", Neri Pozza


 Mi sono imbattuto di recente in questo libro e, anche se è stato pubblicato per la prima volta ormai una quindicina di anni fa, ho deciso di parlarne qui oggi: in fondo i buoni libri non hanno una data di scadenza, e poi, in questo caso, il testo è ancora tranquillamente reperibile sul mercato.
 L'idea da cui parte Sandra Petrignani è semplice e originale: l'autrice visita le abitazioni di sei scrittrici fra le più grandi del Novecento, sulla base della convinzione che una casa conservi sempre in qualche modo l'impronta di chi l'ha abitata e ci racconti qualcosa di molto intimo e di estremamente autentico sul suo modo di essere; e da qui parte per esplorare quelli che ritiene gli aspetti più significativi delle biografie di questi personaggi, lasciandoci intuire, così facendo, anche qualcosa di se stessa.
 Le sei scrittrici prese in considerazione sono, nell'ordine: Grazia Deledda, di cui viene visitata la casa natale di Nuoro, ma della quale vengono ricordate anche le abitazioni romane, e la casa per le vacanze che acquistò a Cervia; Marguerite Yourcenar, per la quale si parte dalla bianca magione di Petite Plaisance, la casa a Monts-Desérts - nel Maine, quasi al confine col Canada - che l'autrice di Memorie di Adriano divise prima con Grace Frick, la compagna di una vita, poi con Jerry Wilson, l'amore dell'estrema vecchiaia; Colette, della quale si visita il paese natale in Borgogna, Saint-Sauveur-en-Puisaye, dove è stata ricostruita la famosa camera da letto completamente rossa, tanto somigliante alla stanza di un bordello, in cui la scrittrice passò, a Palais-Royal, gli ultimi anni di vita, immobilizzata dall'artrite; Alexandra David-Néel, la cui casa-museo a Digne les Baines è quanto mai rappresentativa della capacità di questa donna, definita da alcuni "la più grande esploratrice del Novecento", morta a 101 anni e lucidissima fino alla fine, di fondere lo spirito dell'Oriente e quello dell'Occidente, riproducendo in Francia uno stile di vita tibetano; Karen Blixen, che imparò ad amare la sua grande tenuta a Rungsted, non lontano da Copenaghen, solo nella fase finale della propria esistenza, senza peraltro smettere mai di rimpiangere la mitica fattoria descritta ne La mia Africa, che ella possedette fra gli anni dieci e gli anni venti del Novecento in Kenya, ai piedi delle colline Ngong; infine Virginia Woolf della quale si esplorano la dimora di Charleston, nel Sussex, sede del celebre Bloomsbury Group, e la poco lontana Monk's House, nella quale Virginia passò con il marito Leonard l'ultima parte della sua vita. 
 Fra l'altro, significativamente, il capitolo dedicato a Virginia Woolf viene lasciato per ultimo, nonostante la Petrignani confessi di avere avuto l'intuizione che sta alla base di questo libro proprio a Charleston, nell'edificio che conserva l'impronta non solo di Virginia, ma anche e forse soprattutto della sorella Vanessa Bell - che ne fece una sorta di tempio volto alla celebrazione del suo amore impossibile per l'omosessuale Duncan Grant -, mentre a Monk's House le tracce di Virginia convivono con quelle della sua storica, aristocratica amante, l'affascinante Vita Sackville-West.
 Il modo di procedere di Sandra Petrignani è turistico nell'accezione più nobile del termine: un colto vagabondaggio nella vita delle scrittrici rievocate che, quasi casualmente, senza seguire un piano sistematico di analisi e di restituzione documentaria, consente di toccare tutto ciò che di importante si può dire su queste donne: il loro percorso di formazione, il loro rapporto con l'amore e il sesso, con gli uomini e con le donne, i sogni che coltivarono, lo stile di vita che fecero proprio, la nascita e lo sviluppo della vocazione per l'arte che le rese famose, l'atteggiamento con cui affrontarono la vecchiaia e la morte.
 A volte sembra quasi che Petrignani si comporti con le biografie delle sei scrittrice come una bambina che insistentemente accarezza una coperta di velluto per spiarne con la massima attenzione i disegni che si formano sulla sua superficie, per goderne e per trarne divinazioni e per costruire su di essi vaghe fantasie. Nascono così i passi più belli di questo libro, come quando si ricordano i biglietti d'auguri dolci e infantili scritti per san Valentino da Marguerite Yourcenar a Grace Frick, così in contrasto con l'immagine di monumentale grandezza e di olimpico controllo delle proprie emozioni che la scrittrice amava dare di sé, tanto da permettere di aprire una riflessione sull'inafferabilità del suo temperamento. O come quando si racconta l'insistenza della giovane Colette sulla propria predilezione per la lettura e sull'assenza in lei del bisogno di scrivere, inclinazioni tanto esibite da far sospettare un "desiderio gigante" di diventare scrittrice; un desiderio che affondava le radici nell'orrore in lei suscitato dalla scoperta dell'impotenza nei confronti della scrittura del padre, un capitano dell'esercito con una gamba sola che, per tutta la vita, progettò la pubblicazione delle proprie memorie in una serie di colossali volumi (per i quali scelse la carta, che rilegò e confezionò, mettendo un titolo a ciascuno di essi), senza essere in grado in realtà di scriverne una sola pagina. O ancora, come quando si rievoca l'accostamento operato da Karen Blixen fra la bellezza di una giovane leoncina ricevuta in regalo dai suoi servitori in Kenya e la freschezza e l'innocenza di Marilyn Monroe, conosciuta nel 1959 durante un trionfale giro di conferenze tenuto dalla scrittrice danese negli Stati Uniti.

Sandra Petrignani in una foto di alcuni anni fa

 Nonostante la grande quantità di informazioni riportate, questo approccio parzialmente rabdomantico e aneddotico rende la lettura di questo testo sempre piacevole e particolarmente lieve, e in più consente al lettore di farsi un'idea piuttosto precisa, sintetizzabile in pochi tratti emblematici del carattere essenziale delle sei scrittrici. 
 Così, di Grazia Deledda si ricorda la grande tenacia, che le consentì di abbandonare la Barbagia - il "cuore di tenebra della Sardegna" - di trasferirsi sul continente e di diventare scrittrice, arrampicandosi fino al premio Nobel nonostante non avesse avuto la possibilità di studiare oltre la quarta elementare; senza peraltro che per questo possa essere confinata entro la riduttiva categoria del verismo naif, etichetta che alcuni critici poco accorti cercarono di affibbiarle (per me la Deledda non è ascrivibile al verismo o al decadentismo, come la maggior parte dei critici italiani vorrebbero, e neppure al romanticismo gotico come ritiene dovrebbe essere la scrittrice sarda Michela Murgia; piuttosto è un esempio unico di declinazione italiana del simbolismo, privo di tutte le banalità di un Gabriele d'Annunzio).
 Di Marguerite Yourcenar viene sottolineata la vitale voracità (che si esprimeva nel suo desiderio di sedurre uomini e donne) associata all'assoluto autocontrollo che seppe esercitare su di sé nella letteratura come nella vita (dopo gli anni giovanili, eroticamente disordinati, convisse per decenni con Grace Frick praticamente more uxorio).
 Colette viene identificata con l'istinto trasgressivo associato al legame profondo con certi elementi della cultura francese (memorabile il giudizio che di lei diede proprio Marguerite Yourcenar, che vi vedeva l'emblema "della ricca e grassa Borgogna", della "parte portinaia e cartomante" così caratteristica di una certa Francia fra il 1900 e il 1946, dotata di un suo specifico codice di comportamento, in cui ciò che era conveniente e ciò che era sconveniente veniva stabilito sulla base di logiche non meno complicate di quelle che regolavano i rapporti tra le persone nella vecchia Cina).
 Alexandra David-Néel resta memorabile per la sua capacità di dare vita a una versione tipicamente occidentale del buddismo tibetano (considerava il sesso una perdita di tempo, ma rimase sposata tutta la vita con il marito, che non ne condivideva né la visione del mondo né la frugalità dello stile di vita, ma che ne rispettò sempre le scelte; persino quella di vivere lontana da lui, e di amarlo soltanto attraverso una assidua, tenera corrispondenza epistolare), per la sua inesauribile operosità, per il mite rigore con cui restò fedele a se stessa per tutto l'arco della sua lunghissima esistenza. 
 Di Karen Blixen non si può dimenticare il desiderio di riprodurre uno stile di vita aristocratico-feudale, che riuscì a incarnare nel corso della sua esperienza africana e che poi rimpianse per tutta la vita; l'attrazione che sempre nutrì per gli uomini di bell'aspetto capaci di dare vita al modello del maschio distinto e virile; l'amore viscerale per gli animali; la capacità di raggiungere vette stilistiche mirabili, nonostante avesse esordito nella scrittura solo a 49 anni di età, e quella di rappresentare in modo scintillante, al pari di Samuel Beckett, l'icona dello scrittore da vecchio.
 Infine, il contributo di questo libro a una miglior conoscenza della pur studiatissima Virginia Woolf consiste nella capacità di definirne i tratti caratteriali comparativamente, accostandola alla sorella Vanessa Bell - più estroversa ed eroticamente molto più sicura di lei - e dell'amica Vita Sackville-West, la cui fisicità e il cui fascino cozzavano con l'astratto intellettualismo della Woolf, che visse sempre di voli letterari, e forse fu indotta al suicidio proprio dal fatto che la vecchiaia e la guerra la costrinsero tirannicamente a fare i conti con i limiti della propria mai accettata corporeità.
 Concludo scegliendo, fra tutte le personalità letterarie presentate - anche per come sono presentate -, la mia preferita. Non ho dubbi in proposito: si tratta di Marguerite Yourcenar. 

 Voto: 7,5    

domenica 2 dicembre 2018

Antonella Anedda, "Historiae", Einaudi


 Il sentimento dominante di questa raccolta di Antonella Anedda è una composta afflizione che deriva dal convergere della prospettiva della morte, della propria sofferenza individuale e dell'osservazione del dolore degli altri, e si risolve in un ostinato, attento bordeggiare tra i gorghi dell'angoscia e quelli della più profonda desolazione.
 Sei sono le sezioni in cui il libro è diviso: Osservatorio, l'eponima Historiae, Occidente, Animalia, Anatomie e Futuro anteriore.
 In Osservatorio fa inizialmente capolino la lingua sarda, utilizzata in maniera piuttosto originale: non viene infatti presentata come uno strumento per restituire la realtà in maniera più schietta, immediata, autentica, come talvolta pretende di fare chi scrive in dialetto; piuttosto funge da controcanto emotivo al piglio analitico del testo italiano, che traduce o da cui è tradotta (nello stesso componimento, lo stesso contenuto è presentato talvolta prima in sardo e poi in italiano, talaltra prima in italiano poi in sardo). 
 La vanità della presunzione umana, l'indifferenza delle leggi della natura alla presenza dell'uomo, la nostra impermanenza individuale rispetto agli elementi che compongono l'universo è qui messa a fuoco con precisione in versi di una certa efficacia (si veda Sciami, fotoni: "All'improvviso invece in un angolo del letto / è apparso il sole, scavava silenzioso una sua strada / verso un luogo dove s'irradia luce / e non esistono i pronomi."; o anche Nuvole, io: "Alla fine torno all'io che finge di esistere, / ma è una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdura o pesce surgelato."; o ancora Macchina: Ogni sette anni si rinnovano le cellule: / adesso siamo chi non eravamo. / Anche vivendo - lo dimentichiamo - / restiamo in carica per poco.").
 In Historiae l'attenzione viene rivolta a coloro che, più di tutti, nella nostra epoca, sono l'emblema della fatica del vivere, della sofferenza, della lotta talvolta vana per conquistare il diritto a sperare: i migranti. Nella più politica delle sezioni della raccolta, rifacendosi a Tacito, che in Annales è esplicitamente citato nel testo del componimento, e di cui in Esilii viene riportato in esergo un passo famoso ("… plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli"), il fenomeno delle migrazioni, con le immani catastrofi di cui è costellato, viene descritto con un approccio che dall'epica trascolora presto nella tragedia, con un'attenzione spasmodica ai particolari macabri della morte violenta ("Oggi penso a due dei tanti morti affogati / a pochi metri da queste coste soleggiate / trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati. / Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo / e cosa ne sarà del sangue dentro il sale"; "Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma / prima rosso poi livido infine si fa polvere / e può - sì - sciogliersi nel sale").

Antonella Anedda

 Ma le Historiae raccontate non sono solo quelle degli altri: irrompe qui anche il tema assai ingombrante del rapporto con la malattia e poi la morte della madre, e quello della complessità del sentimento amoroso, trattati in versi che sono fra i più belli che si possono leggere qui ("Quando mia madre nuotò per l'ultima volta / il mare stormiva come un pioppo"; "Era lei, nel vapore salito dai cespugli? / La chiamai pur sapendo anche io come tanti / che la risposta sarebbe stata il silenzio, / eppure emisi un suono / percependo nella mite pazzia di quel richiamo / il lembo di una stoffa, l'orlo di un gomito, la pelle"; "Somiglia a un pigiama e ha un odore di lama / e ci sono altre cose: l'asciugamano che si può scambiare / le poltrone vicine davanti al televisore / l'insofferenza per le reciproche mancanze / che però si svuota come si fa con le buste della spesa. / Molte leggende, il sesso sopravvalutato / ma non la solitudine che segue").
 Occidente, la più breve delle sezioni, getta un ponte fatto di suggestioni tra le periferie delle nostre città e i paesaggi di un mondo che non appartiene alla sfera culturale dell'Occidente, che ci domina e ci determina con le sue regole e i suoi luoghi comuni.
 Animalia trasforma l'osservazione di specie diverse dalla nostra, e la constatazione che la nostra stessa sofferenza riguarda anche gli animali, in una forma di espressione lirica che, sostanziandosi in una pietà profonda per il comune destino di tutti gli esseri viventi, risulta lievemente consolatoria ("L'ape dormiva la sua morte di ape senza miele. / Stavolta ho spalancato i vetri, ho soffiato con forza / e si è posata un'ultima volta sulla terra bagnata"; "Vieni mio solo amore del momento / teniamoci vicini, riposa sul mio letto / - un tocco di tepore prima che la notte cada / e ci separi -, mio gatto bianco e grigio"; "Oggi mi cura guardare un grumo di formiche: / il pulsare del nero, l'affannarsi a ridosso di una tana / il filo di necrofori con un moscerino, / lo stuolo di operaie in marcia / verso il loro villaggio da preistoria").
 In Anatomie torna ad affacciarsi la lingua sarda, che questa volta, nella sua essenzialità, serve ad addomesticare il dominante pensiero della morte, a renderlo meno ossessivo, meno cupo, più famigliare ("Non tenes baule 'e istrisinare in supr'e nie / ma unu cane a tremula in s'iscuriu" - Non hai bara da trascinare sulla neve / ma un cane che trema nel buio).
 Infine, Futuro anteriore celebra l'accettazione della nostra precarietà individuale, della serenità che è capace di donarci la prospettiva secondo la quale il mondo continuerà a esistere anche dopo la nostra scomparsa ("per qualcuno non diventerà mai sera, / qualcuno porterà fuori l'immondizia / e ascolterà lo scroscio della pioggia improvvisa").
 La più bella delle poesie qui raccolte, a mio parere è Perlustrazione 1, sulla morte della madre:

Entro con mia madre nella morte. Lei ha paura.
Cerco nella mia filosofia qualcosa che ci aiuti,
parlo della cicuta e degli stoici,
dico la solita frase che quando noi ci siamo, lei, 
la morte, scompare, ma non funziona
anzi cresce dentro di me il terrore.
Aspetta, le dico mentre dorme ora vado a guardare.
Perlustro la zona (sarà quella?)
solo per constatare che non c'è difesa,
che il suo spazio, quello che la fisica dice
sia presente fin da quando nasciamo,
è sguarnito di ogni compassione
e il tempo è davvero il buco che divora.
Allora mi stendo contro di lei dentro il suo letto.
Aspetto come smette il suo odore mentre muore.

Voto: 6,5