domenica 27 gennaio 2019

Kent Haruf, "Vincoli", NN Editore


 Vincoli è traduzione imperfetta per il titolo del primo romanzo in cui Kent Haruf diede vita al mito della contea di Holt: The Tie That Binds, "Il laccio che stringe"; pubblicato negli Stati Uniti nel 1984, il libro è ora disponibile anche in italiano. 
 Del resto, non è facile rendere con una parola o una sola frase il senso non univoco della vita strozzata di Edith Goodnough, che è al centro della narrazione: passività femminile, sottomissione volontaria alle istanze degli affetti familiari, incapacità di svincolarsi dall'autorità paterna, pietà nei confronti dei genitori e del fratello, autodisciplina, senso del dovere, pura e semplice oblatività concorrono nel determinare il destino di questa donna, la cui esistenza si sostanzia in una lunga serie di rinunce. 
 La storia raccontata affonda le radici addirittura nell'epopea dei pionieri che colonizzarono le vaste pianure dell'ovest degli Stati Uniti, anche se il racconto prende le mosse dall'ultimo giorno dell'anno del 1976 (forse non a caso ricorrenza del bicentenario della Dichiarazione d'Indipendenza americana).
 La voce narrante è quella di Sanders Roscoe, allevatore di bestiame nelle campagne di Holt, vicino di casa e storico amico dei Goodnough, che dà libero sfogo ai suoi pensieri dopo avere maltrattato uno dei giornalisti di Denver venuti da lui per raccogliere informazioni con cui soddisfare la curiosità dei suoi lettori intorno alla figura di Edith che, mentre Sanders parla, si trova ricoverata in ospedale, in una stanza piantonata da un agente; perché Edith, ormai ottantenne, è stata accusata di omicidio.
 Solo alla fine del libro, in realtà, verremo a conoscenza del presunto crimine di Edith, perché Sanders parte da lontano, addirittura dall'arrivo a Holt dei genitori di Edith, Roy Goodnough e Ada Twamley, che negli anni novanta dell'Ottocento si spostarono dall'Iowa in Colorado per prendere possesso del pezzo di terra assegnato loro grazie all'Homestead Act. 
 Il terreno su cui si insediarono era lontano più di dieci chilometri dal centro abitato, non c'era acqua nei paraggi, e il paesaggio, affatto diverso da quello dell'Iowa, risultava deprimente per Ada. Unici "vicini di casa" dei giovani coniugi, una nativa americana abbandonata dal marito - un colono bianco - e suo figlio di sei anni, John Roscoe, destinato un giorno a diventare il padre nel narratore. 
 Su quel pezzo di deserto, la vita era stata ingrata con Ada, morta ancora giovane, quando i due figli che aveva dato a Roy - Edith e Lyman - erano appena adolescenti; ancor di più, però, lo sarebbe stata con la figlia maggiore, soprattutto dopo un incidente durante la trebbiatura del grano che aveva mutilato Roy Goodnough di tutte le dita delle due mani. Da quel momento, Roy - ormai inabile al lavoro - si era trasformato in un collerico tiranno, e i suoi due figli erano diventati gli schiavi al suo servizio costretti a lavorare da prima dell'alba a dopo il tramonto per mandare avanti la fattoria.

Kent Haruf

 Il fatto è che Edith a quella specie di schiavitù si era sottomessa volontariamente: in nome del rispetto per il padre e dell'affetto per il fratello aveva rifiutato di sposare John Roscoe - che pure amava -; e di Roy era stata l'indispensabile sostegno fino alla fine, anche dopo che Lyman - con la scusa di volersi arruolare nell'esercito dopo l'attacco di Pearl Harbor - aveva lasciato Holt senza dare l'impressione di volervi rimettere piede.
 Edith, così, era rimasta sola: sola a subire gli accessi d'ira del padre prima, e poi sola del tutto, con le cartoline quasi beffarde che Lyman le spediva da ogni angolo degli Stati Uniti, e con la premurosa compagnia di Sanders che, al corrente dell'amore trascorso tra lei il padre, si era abituato a considerarla una sorta di seconda madre, e di tanto in tanto andava a trovarla.
 Solo quando Lyman era tornato, dopo anni di peregrinazioni, la sorella lo aveva riaccolto in casa e, per qualche anno, con lui era stata felice; ma la sua serenità era destinata a non durare. 
 Dopo un incidente in auto, infatti, Lyman aveva perso ogni capacità di badare a se stesso; ed Edith si era ritrovata nuovamente a curare un infermo, prigioniera della propria condizione.
 La sua colpa, infine, era stata quella di avere cercato di liberare se stessa e chi le stava più a cuore dalle proprie sofferenze: una sera aveva appiccato il fuoco alla sua casa, coricandosi poi accanto al fratello profondamente addormentato. 
 Lyman era morto, lei si era salvata per via del casuale intervento prima di Sanders e poi dei pompieri. E così, Edith non era riuscita a trovare la libertà a cui finalmente anelava, e si era ritrovata accusata di omicidio per via dello zelo dello sceriffo Bud Sealy, ansioso di far parlare di sé per essere confermato nella propria carica, e desideroso di compiacere un giornalista amico, che gli chiedeva notizie fresche da Holt.
 Raccontata così, quella di Vincoli sembrerebbe una bella storia insieme eroica e malinconica, senza troppe complicazioni. Ma c'è di più: c'è un'ambiguità di fondo che rende la vicenda di Edith Goodnough assai più sfuggente e difficile da inquadrare. 
 Prima di tutto risulta inafferrabile il vero motivo per cui Edith rifiuta la proposta di matrimonio di John Roscoe, grazie alla quale avrebbe potuto conciliare il suo amore per il ragazzo con la fedeltà agli affetti domestici e con le cure di cui il padre necessitava.
 In secondo luogo, appare assai ambiguo il rapporto di Edith con il fratello Lyman e con lo stesso Sanders, che per lei è una sorta di figlio putativo. Sanders, una sera in cui va a trovarla a casa sua per alleviare la sua solitudine, finisce per baciarla sulle labbra, senza che Edith faccia resistenza; e quando Lyman è costretto dalla sua infermità a restare a dormire al piano terreno, si scopre che, fino a quel momento, nella loro stanza al primo piano, fratello e sorella hanno dormito nello stesso letto. L'ombra dell'incesto sembra così posarsi e pesare sul tenace attaccamento della donna al suo originario nucleo familiare.
 Il romanzo si colora in questo modo di una luce diversa: la scrittura precisa e concreta che sempre caratterizza i testi di Kent Haruf allarga il compasso della pietà fino ad accogliere tutte le passioni - anche quelle più difficili da raccontare - che si celano sotto la superficie della normalità ordinaria della comunità di Holt, Colorado. E tutto diventa più vivo e vero.

Voto: 7

domenica 20 gennaio 2019

Jon Krakauer, "Estremi", Corbaccio


 Il rischio che si corre con libri come questo, nati dalla raccolta di scritti eterogenei ed extravaganti - usciti dalla penna di uno scrittore pure notevole in tempi diversi, e concepiti per le occasioni più disparate -, è quello dell'eccessiva difformità: anche quando non si tratta di materiali non troppo curati e non particolarmente interessanti, la scarsa coerenza del progetto d'insieme può talvolta urtare o deludere il lettore. 
 Questa pubblicazione, invece, appare sicuramente eterogenea, ma non in modo fastidioso. Gli articoli presi in considerazione sono stati stesi da Jon Krakauer per varie riviste, ciascuna con una vocazione e un pubblico differente, in un periodo che va dai primissimi anni novanta (quando ancora non erano usciti Into the Wild Into Thin Air, i due libri che resero Krakauer famoso) al 2014. 
 Tutti questi scritti testimoniano non solo le capacità come giornalista dell'autore - che si dimostra in grado di articolare un'inchiesta mettendo a confronto tesi e opinioni diverse e presentando i numerosi aspetti di un fenomeno o di un problema, senza peraltro trascurare di prendere personalmente posizione -, ma anche la varietà dei suoi interessi: si va da pratiche sportive particolari come il surf alla vulcanologia, dalla speleologia all'ambientalismo, senza naturalmente dimenticare la passione principe per l'alpinismo; il tutto osservato dalla prospettiva particolare di chi ritiene che la ricerca dell'avventura costituisca un impulso profondo che alberga in ciascuno di noi, e vuole approfondire le implicazioni sociologiche e antropologiche di questa innata inclinazione.
 Inoltre, che indaghi sulla morte di Mark Foo, avvenuta presso lo spot di Mavericks, pochi chilometri a sud di San Francisco, nel dicembre del 1993 (L'ultimo volo di Mark Foo), o sulla pericolosità del monte Rainier per molti abitanti dello stato di Washington (All'ombra del vulcano), che si occupi del fascino inarrivabile del parco naturale dei Gates of the Artic, in Alaska (I cancelli dell'Artico), o dei rischi del mestiere degli sherpa che lavorano al servizio delle spedizioni commerciali sulle pendici dell'Everest (Morte e rabbia sull'Everest), Krakauer utilizza sempre la sua capacità di alternare l'abbandono al meccanismo di immedesimazione nei protagonisti della storia che sta raccontando, e l'assunzione di una distanza critica dagli eventi narrati utile a giudicarli con maggiore oggettività per trasmettere al lettore la sensazione che ciò di cui si sta parlando riguardi anche lui, e che valga la pena prestarvi la massima attenzione. 
 I pezzi più intriganti fra quelli riprodotti, a mio parere, sono due, e risalgono entrambi alla prima metà degli anni novanta. Si tratta di Amarli fino alla morte  e di Fred Beckey è ancora in circolazione
 Il primo parla della diffusione, in alcune regioni degli Stati Uniti, dell'abitudine di trattare i disturbi comportamentali degli adolescenti considerati "difficili" iscrivendoli a corsi di sopravvivenza che dovrebbero "rieducarli", insegnando loro a cavarsela da soli a contatto con la natura selvaggia; il secondo ripercorre la vicenda biografica di una delle figure mitiche dell'alpinismo nordamericano dagli anni quaranta in poi, Fred Beckey.
 L'idea di combattere il disagio giovanile e tutte le sue conseguenze (l'isolamento, la depressione, l'indisciplina, il consumo di sostanze stupefacenti, ecc.) recuperando un sano contatto dell'individuo con la natura nella sua basilare rudezza è di per sé affascinante. Il problema è che negli Stati Uniti operano da tempo organizzazioni che sfruttano commercialmente le attrattive di questa idea proponendo di inserire - in cambio del pagamento di decine di migliaia di dollari - gli adolescenti ribelli in programmi di recupero basati sulla cosiddetta wilderness therapy senza avere le qualifiche minime necessarie per elaborare progetti di questo tipo. 

Jon Krakauer

 Infatti, molte di tali società, nate soprattutto nello Utah, e imperniate su una visione del mondo che coniuga l'etica iperconservativa dei mormoni e l'applicazione in ambito educativo di istanze disciplinari di tipo militare, si limitano a concepire programmi per cui i ragazzi problematici vengono spediti in zone impervie con poco cibo e poca acqua, e spinti ad affrontare severissime prove di resistenza con l'inadeguato supporto di supervisori spesso impreparati, il cui compito principale sembra quello di redarguire, di punire o addirittura di maltrattare i giovani che più faticano a sottomettersi a questo regime. Nessuna assistenza medica e psicologica viene affiancata a tale approccio metodologico
 La durezza di questi campus, così, si spinge talvolta al punto tale da mettere in pericolo la tenuta fisica e mentale dei ragazzi più fragili, tanto che si sono dati casi di alcuni adolescenti morti per via delle privazioni a cui erano stati costretti. Di fronte a questi casi terribili, un autentico amante della wilderness come Krakauer non può che giungere alla conclusione che simili esperienze non sono adatte a tutti, e che il contatto con la natura selvaggia risulta davvero formativo solo quando è una scelta volontaria - specie nell'età evolutiva -, e quando è affrontato con le dovute cautele, non certo quando è un'imposizione o, peggio, una sorta di castigo.
 Più scanzonato è l'articolo dedicato a Fred Beckey, scritto nel 1992, quando l'ultimo grande alpinista romantico, alla soglia dei settant'anni, era ancora in piena attività. 
 Krakauer inizia narrando la leggenda, diffusa negli ambienti alpinistici, secondo la quale Beckey possedeva un "little black book" in cui aveva annotato la dislocazione e le caratteristiche di tutte le pareti non ancora scalate nelle catene montuose nordamericane; da lì parte poi il racconto di un'ascensione effettuata insieme al mitico scalatore, già anziano ma assolutamente inarrestabile, che diventa il pretesto per tracciarne un indimenticabile ritratto e per ripercorrere le tappe principali della sua avventurosa esistenza. 
 Fred Beckey si chiamava in realtà Friedrich Wolfgang Beckey, era nato a Dusseldorf nel 1923 ed era emigrato con la famiglia negli Stati Uniti nel 1925. Aveva cominciato a scalare alla fine degli anni trenta, e da allora la sua "fame" di pareti non si era più esaurita. Il suo "periodo d'oro" è collocabile tra la fine degli anni quaranta e la metà degli anni sessanta; in questo intervallo di tempo, Beckey realizzò la prima salita dell'immenso torrione roccioso del Devils Thumb, in Alaska, scalò il Mount Deborah, il Mount Hunter, lo sperone nord-ovest del McKinley (alcune delle montagne più difficili degli Stati Uniti), e la parete ovest della South Howser Tower nelle Bungaboos canadesi. Nel 1963 avrebbe dovuto far parte della spedizione americana sull'Everest, ma il suo individualismo sfrenato e la sua difficoltà a fare squadra fece sì che gli organizzatori lo escludessero dall'impresa, sebbene nessuno negli Stati Uniti potesse vantare allora il suo curriculum alpinistico.
 Era uomo capace di sacrificare ogni cosa all'arrampicata e al gusto per l'avventura: la famiglia, il lavoro, le comodità di una vita borghese, che la sua laurea in Economia e Gestione aziendale avrebbe potuto garantirgli. Invece ebbe sempre pochi soldi in tasca, una donna in ogni distretto montuoso (come, in altri tempi, i marinai ne avevano una in ogni porto), e la capacità di essere sempre pronto a tutte le partenze. Fu probabilmente l'ultimo hippy dell'alpinismo. 
 Quando Beckey morì, a 94 anni, nel 2017 - 25 anni dopo l'articolo in cui Krakauer lo descrive già anziano, 25 anni passati in buona parte a camminare sui sentieri di montagna -, insieme alle dichiarazioni dei colleghi che lo definivano "il più grande conoscitore del massiccio delle Cascades", i giornali pubblicarono una foto che lo ritrae sul ciglio di una strada, con lo zaino e la corda in spalla e un cartello in mano. Il cartello dice: "Will belay for food"; "Sono disposto a farvi sicurezza [durante l'arrampicata] in cambio di cibo". In questo cartello c'è tutto lo spirito di Fred Beckey.

Voto: 6   

domenica 13 gennaio 2019

Paolo Cognetti, "Senza mai arrivare in cima", Einaudi


 Senza mai arrivare in cima è un singolare taccuino ascrivibile all'ambito di quell'affascinante sottogenere della letteratura di viaggio che è la letteratura di montagna. 
 E tuttavia, il piccolo libro di Paolo Cognetti si distingue dalle espressioni tipiche di questo particolare filone per più di una ragione: la letteratura di montagna - sia che si tratti del classico récit d'ascension, sia che si faccia riferimento a opere più complesse articolate -, nonostante rifugga normalmente i toni eroici (specie nelle sue migliori manifestazioni), presenta quasi sempre situazioni estreme con implicazioni anche cruente. Di più: anche laddove lo stile è più sobrio e la visione del mondo rispecchiata dall'ordine della scrittura risulta perfettamente razionale, la dimensione a cui si attinge nella letteratura di montagna tende a essere spesso "superumana", e quasi disumano il coraggio dei suoi protagonisti. Pensiamo, tanto per fare qualche esempio, a Hermann Buhl che, discendendo dal Nanga Parbat conquistato per la prima volta in solitaria e senza ossigeno nel 1954, perde un rampone ed è costretto a passare la notte a 8000 metri, al buio, in equilibrio precario su una cengia di ghiaccio larga appena una spanna (Hermann Buhl, E' buio sul ghiacciaio); pensiamo, in tempi a noi più recenti, a Joe Simpson, che in Touching the void, narra come, nel 1985, sulle Ande Peruviane, dopo la rottura di una gamba e la successiva caduta dentro un profondo crepaccio, abbandonato dal compagno di ascensione che lo crede morto, riesce a sopravvivere uscendo dal ghiacciaio e trascinandosi non si sa come fino al campo base; pensiamo, ancora, ai tragici avvenimenti relativi alla morte di diversi alpinisti sorpresi dal maltempo sul monte Everest nel maggio del 1996 di cui è testimone Jon Krakauer, magistralmente raccontati nel suo Into thin air.
 Inoltre la letteratura di montagna parla per lo più di salite, di vette tentate o conquistate, di pareti inviolate sulle quali viene aperta una nuova via, o comunque di arrampicate cariche di storia, di difficoltà e di suggestioni.
 Il libro di Paolo Cognetti, invece, non racconta un'ascensione e non spinge la dimensione avventurosa al limite del rischio estremo, secondo un cliché con il quale la letteratura di montagna ingloba elementi caratteristici del thriller. Senza mai arrivare in cima narra infatti la storia di un lungo trekking compiuto dall'autore nel 2018, insieme ad alcuni fidati compagni, lungo itinerari himalayani, fino a raggiungere la remota regione nepalese del Dolpo, abitata da popolazioni di etnia e cultura tibetane. 
 Il viaggio si snoda attraverso sentieri impervi e spesso scoscesi, raggiunge quote considerevoli (si arriva oltre i 5000 metri), ma non porta mai i protagonisti ad affrontare una delle magnifiche vette di quella parte del mondo: Cognetti, a dispetto del suo viscerale amore per la montagna (per il quale si è trasferito a vivere in una vallata alpina) e del suo sogno giovanile di diventare un alpinista, confessa di soffrire di una fastidiosissima forma di mal di montagna, che rende proibitive per lui le altitudini eccezionali delle cime dell'Himalaya. 

Paolo Cognetti

 Il percorso compiuto lambisce le pendici del Kanjiroba, costeggia le rive del lago Phoksundo e circumnaviga la Montagna di Cristallo - la montagna sacra, considerata il centro del mondo da buddhisti e induisti, su cui è proibito salire - per poi piegare verso Shey, verso Saldang, e più tardi, attraverso luoghi semidesertici, toccare Charka e Kagbeni; il tutto sulle orme di Peter Matthiessen, che nel 1978 compì un viaggio simile alla ricerca dell'anima del Tibet autentico, e descrisse la sua avventura ne Il leopardo delle nevi
 Matthiessen, con il suo libro, a poco a poco diventa per Paolo Cognetti il vero e proprio nume tutelare dell'esperienza che sta vivendo: le loro prospettive tendono a sovrapporsi e a confondersi, gli occhi di Peter sono gli occhi con cui Paolo comincia a guardare la realtà intorno a sé; addirittura, l'autore immagina che l'anima di Peter si sia trasfusa dentro un cane che comincia a seguire fedelmente la loro carovana, e che accompagnerà il camminatori fino alla fine del viaggio.
 In virtù di questo originale legame - e del tentativo di comprendere e di fare propria la logica placidamente rapsodica che regna nelle piccole comunità che si raccolgono intorno agli antichi monasteri di quella remota provincia -, l'emozione si fa pensiero, e accende la magia di una scrittura semplice, limpida, densa. Una scrittura tramata di intuizioni che si trasformano in accensioni liriche, di visioni che si trasformano in progetti, di ricordi e constatazioni che si trasformano preghiere. 
 Emergono così le idee e le immagini che restano nel setaccio della memoria del lettore: quella del vento come respiro della divinità, che passa attraverso le classiche, variopinte bandiere da preghiera e le riduce a brandelli, e nella sua incessante opera di logoramento dei manufatti umani e delle cose della natura testimonia la sua e la loro essenza; quella dell'insufficienza del pensiero razionale a penetrare il senso del destino dell'uomo; quella della persistenza delle autentiche e universali tradizioni della vita in montagna in quest'angolo di mondo solo lambito dalla voracità contemporanea e non toccato dalle banalità efficientistiche della cultura urbana; quella dell'appartenenza di tutte le comunità montane sparse per il globo a una nazione comune, con caratteristiche proprie e capace di esprimere una propria originale civiltà.
 Spunti di riflessione che rendono questo testo prezioso e profondamente suggestivo. 

Voto: 7 

lunedì 7 gennaio 2019

Carlo Emilio Gadda, "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", Adelphi


 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è una delle gemme più preziose della letteratura italiana del Novecento, e uno dei libri il cui tormentato processo compositivo più si presta ad attirare la curiosità degli studiosi.
 Così appare particolarmente interessante la nuova edizione del romanzo da poco uscita per i tipi di Adelphi, corredata da una Nota al testo a cura di Giorgio Pinotti, che riporta una serie di documenti capaci di ricostruire le varie tappe della genesi del capolavoro, e di chiarire - ove possibile - quali fossero le reali intenzioni dell'autore a proposito dello sviluppo dell'impianto narrativo e della conclusione verso cui esso avrebbe dovuto tendere. 
 E' noto come il testo comparve a puntate, nel 1946, sulla rivista Letteratura, per poi uscire in volume - per volontà di Livio Garzanti - soltanto 11 anni dopo, nel 1957. 
 E' altresì noto come mai vide la luce il previsto secondo volume del romanzo, in cui sarebbe stato rivelato il nome del colpevole dell'efferato assassinio di Liliana Balducci nel "palazzo degli ori" - già teatro della rapina ai danni della signora Menegazzi -, su cui si applicava l'acribia investigativa del commissario don Ciccio Ingravallo (anche se la sceneggiatura del film a cui Gadda lavorò, senza che la pellicola vedesse la luce finché egli fu in vita, ci rivela come la responsabile del delitto fosse Virginia, una delle "nipotine" che la Balducci e il marito si mettevano in casa, sostituendole con una certa frequenza).
 Meno noto è l'episodio di cronaca a cui Gadda si ispirò per elaborare la sua storia: l'assassinio, avvenuto il 19 ottobre 1945, della signora Angela Barruca da parte delle sorelle Franca e Lidia Cataldi, "varie volte beneficiate dalla vittima". 
 Meno note sono anche le lettere agli amici e le dichiarazioni progettuali che rivelano come Gadda avesse fin dall'inizio concepito uno sviluppo della trama che avrebbe portato Ingravallo a individuare in Virginia la colpevole dell'assassinio di Liliana, dopo essere approdato all'intuizione (proprio in prossimità dell'episodio con cui si conclude il testo come oggi lo conosciamo) che non un uomo, ma una donna era l'autrice del delitto. 
 I documenti riportati pongono anche un problema critico-interpretativo: l'incompiutezza del Pasticciaccio (come pure, più tardi, de La cognizione del dolore) ha indotto diversi studiosi a riconoscere nel "non finito" uno degli assi portanti della poetica dello scrittore milanese; la scelta di non portare a termine il romanzo sarebbe la perfetta rappresentazione letteraria dell'impossibilità di venire a capo dell'irriducibile complessità del reale (a maggior ragione trattandosi in questo caso di un romanzo giallo, in cui la soluzione dell'enigma dovrebbe essere consustanziale alla concezione e allo sviluppo della trama).     

Carlo Emilio Gadda

 Ora, questa interpretazione continua a essere valida se si appura che l'incompiutezza è dovuta non a una meditata decisione di Carlo Emilio Gadda, ma a fattori esterni indipendenti dalla volontà dello scrittore, quali le difficoltà economiche che lo inducevano a prendere impegni con diversi editori senza poterli poi onorare?
 A me pare che, al di là degli impedimenti concreti che fecero sì che Gadda non riuscisse a portare a termine il suo progetto iniziale, il romanzo appare artisticamente perfetto così come lo leggiamo noi oggi, e anche l'ingegnere, a un certo punto dovette accorgersene; il fatto che le circostanze abbiano contribuito a condurre l'autore ad acquisire tale consapevolezza in corso d'opera non altera la bontà dell'esito finale, e non muta la sostanziale correttezza dell'interpretazione critica a cui esso fu sottoposto.
 Piuttosto sono altre informazioni che la Nota al testo riporta a porre questioni assai interessanti: ad esempio, il romanesco che, insieme a tanti altri dialetti italici (il veneto, il napoletano, il molisano, il toscano, il torinese, ecc.), costituisce lo straordinario tessuto linguistico del testo, fu sottoposto da Gadda a una minuziosa revisione grazie anche all'aiuto di alcuni consulenti. 
 Tale cura testimonia un'attitudine analitica e mimetica da parte dell'autore, che mette in guardia il lettore portato, sulla base delle proprie reminiscenze scolastiche, a intendere in maniera troppo letterale la suggestiva definizione di Gadda come scrittore "barocco". Il barocchismo insito nella matrice plurilinguistica della prosa gaddiana, infatti, non è mai teatrale esibizione di virtuosismo stilistico, bensì resa plastica del relativismo insito nella peculiarità multiforme con cui il reale si presenta sempre a chi lo osserva con attenzione (è appena il caso di ricordare come Gadda era solito rispondere a coloro che, con intenzione riduttiva, definivano barocco il suo modo di scrivere: "è la realtà che è barocca!").
 Sotto questo aspetto, è assolutamente sbagliato, a mio parere, collegare automaticamente - come qualcuno ha fatto - l'utilizzo della lingua vernacolare in questo romanzo alla volontà di rappresentare il mondo in maniera grottesca; solo in rari casi il dialetto diventa elemento caricaturale della descrizione di taluni personaggi, che si prestano a una critica socio-politica di alcuni elementi della società italiana del 1927, avviata a una totale fascistizzazione. 
 Penso innazitutto alla contessa Menegazzi, vittima del primo, incruento crimine avvenuto nel "palazzo degli ori", la rapina dei gioielli della nobildonna; o al brigadiere Pestalozzi, nei confronti del quale peraltro il narratore mostra talvolta una certa bonomia. 
 Piuttosto, i giudizi più severi della voce narrante sono riservati a personaggi che poco hanno di vernacolare, come Giuliano Valdarena, cugino di Liliana Balducci e primo sospettato della sua uccisione, o come lo stesso Benito Mussolini, il "mascellone autarchico", il "defecato maltonico" a cui sono indirizzate violentissime invettive.
 Al contrario, uno dei passaggi senz'altro più poetici del libro, e forse il mio preferito in assoluto, ha al centro un personaggio in tutto e per tutto rustico e vernacolare, la povera Ines Cionini - già giovane lavorante presso il laboratorio di sartoria dell'ineffabile Zamira Pàcori, caduta nottetempo in una retata della buoncostume impegnata a moralizzare l'Urbe -, che viene sottoposta a un duro interrogatorio da parte di Ingravallo e dei suoi colleghi affinché riveli quello che sa sull'autore della rapina in casa della Menegazzi, preludio all'atroce assassinio di Liliana.

Voto: 10