domenica 24 febbraio 2019

Matteo Codignola, "Vite brevi di tennisti eminenti", Adelphi


 Il libro consta di una ventina di brevi biografie di tennisti attivi nel corso degli anni cinquanta del Novecento, nel pieno dell'era pre-Open, quando i protagonisti del circuito internazionale - ancora rigorosamente ispirato al più puro dilettantismo, almeno sulla carta - erano continuamente tentati dal passaggio al circo itinerante delle sfide tra professionisti allestito da Jack Kramer, assai più remunerativo (ma anche un tantino asfittico, visto che prevedeva partite ripetute sempre tra gli stessi giocatori).
 Matteo Codignola, alla ricerca di una chiave per raccontare la sua grande passione per il tennis (che, come tutte le grandi passioni, rischia costantemente di diventare un'ossessione per chi la coltiva) senza lasciarsi imprigionare nella camicia di forza dello storicismo e senza cedere alle lusinghe della libidine romanzesca, trova l'occasione di un approccio originale alla materia grazie a una vecchia valigia di cuoio, scovata da un amico sui banchi del mercatino di Cormano, e contenente una busta gialla con numerose foto d'agenzia che ritraggono celebri tennisti in azione negli anni del dopoguerra.
 A partire da queste foto, l'autore riesce ad andare oltre i cliché consolidati dei libri sul tennis (che a volte utilizzano lo sport come scusa per parlare d'altro, e altre volte sono semplicemente noiosi), e a proporre qualcosa di diverso da quanto di mirabile prodotto dal maggior conoscitore italiano di questa disciplina, Gianni Clerici, lo Scriba (citato una sola volta, anche se Codignola lo omaggia e si dichiara suo amico).
 Le foto, infatti, dotate di uno straordinario potere evocativo, diventano il pretesto per richiamare alla memoria le storie - spesso singolari e affascinanti - legate ai personaggi ritratti, e intrecciate tra loro fino a formare una fitta trama, simile agli scambi che si succedono nel corso di una partita, e comunque perfetta per assecondare l'indole divagante, il gusto per l'aneddoto memorabile e per la curiosità erudita, la sensibilità idiosincratica e il piacere per la citazione raffinata espressi nella scrittura.
 Il punto di forza del testo è proprio la scrittura, che mantiene sempre un livello altissimo, tanto sotto l'aspetto della lucidità e della duttilità stilistica, quanto sotto quello della densità narrativa e descrittiva che riesce a estrinsecare: bastano a volte poche parole per dare vita e conferire vivacità a una figura del passato, e per far sentire vicinissime a noi tutte le vicende che ruotano intorno ad essa.

Matteo Codignola

 Si riesce così a raccontare l'eleganza innata e l'indipendenza assoluta di Gottfried von Cramm (che non si iscrisse mai al NSDAP, nonostante le ripetute pressioni di Goering perché lo facesse), e il radicale anticonformismo di Torben Ulrich - tennista alternativo e "sensitivo" per eccellenza, e padre di Lars, fondatore del gruppo musicale dei Metallica -; la meravigliosa indolenza di Beppe Merlo (che giocava con una racchetta dall'ovale più piccolo di quelle dei colleghi, e con le corde talmente poco tese da provocare, all'impatto con la pallina, al posto del classico schiocco, un tonfo lieve, soffice e attutito), e la fedeltà a se stesso e al suo gioco di Vic Seixas; la grazia di Ken Rosewall, e l'ambigua repulsione di Paul Gallico per quanto supponeva che il tennis avesse di strambo, di gentile, o addirittura di "femminile"; la delicata psicologia del tennista - esemplificata dai tormenti e dai fantasmi di Tony Trabert -, e l'aeriforme bellezza del gioco - illustrata dalla propensione per la leggerezza del gesto di Eric Sturgess (che durante la guerra, da ufficiale dell'aviazione sudafricana, fu prigioniero nel leggendario Stalag Luft III, il campo di concentramento de La grande fuga) -; il complesso rapporto tra Maureen Connolly, "Little Mo", e la sua allenatrice Eleanor "Teach" Tennant, e lo scandalo suscitato dal gonnellino e dai pizzi indossati a Wimbledon nel 1949 dalla bellissima Gertrude Augusta "Gussy" Moran (da allora, in inglese, "gussy up" significa "agghindarsi", anche se i principali dizionari sembrano ignorare la vera origine di questo modo di dire idiomatico); la forza di carattere e la presenza di spirito di Gardnar Mulloy (capace di ricordare allusivamente a una giovane regina Elisabetta, che lo premiava in qualità di vincitore del doppio a Wimbledon nel 1957, il pomeriggio in cui aveva "flirtacchiato" con lei senza riconoscerla, quando ancora non era regina), e la perfetta sobrietà e l'innato understatement di Jarolslav Drobny (campione di hockey, oltre che di tennis, capace senza battere ciglio di ascoltare a lungo con pazienza i clienti del suo negozio di articoli sportivi che gli parlavano del loro tennis, senza riguardo al fatto che egli avesse vinto Wimbledon); i tentennamenti di Dick Savitt (fortissimo tennista americano spesso discriminato nel suo Paese in quanto ebreo), e il genio tennistico di Pancho Gonzales (l'uomo a cui si affiderebbe la propria vita se si dovesse deciderne il destino attraverso l'esito di una partita di tennis); la classe sublime di Nicola Pietrangeli e la supponenza di Jack Kramer. 
 Se dovessi scegliere tre delle brevi, composite biografie che fanno parte del libro come le mie preferite, opterei per quella di Beppe Merlo, quella di Gussy Moran e quella di Gar Mulloy. Ma è una scelta puramente personale, non dovuta a un'oggettiva superiorità dei passi che riguardano questi personaggi, perché il livello letterario è davvero notevole in tutte le parti di questo godibilissimo testo. 

Voto: 7    

domenica 17 febbraio 2019

Milan Kundera, "L'insostenibile leggerezza dell'essere", Adelphi


 Quando per la prima volta lessi L'insostenibile leggerezza dell'essere, ai tempi del liceo, il libro andava molto di moda; lo presi allora come una sorta di manuale di libertinaggio sullo sfondo della Primavera di Praga.
 Naturalmente non avevo capito nulla di questo romanzo complesso, potente, disarmonico, persino brutto in alcuni suoi passaggi, ma con una capacità di trasfigurazione del reale che poche opere narrative possiedono.
 E' come se il testo avesse due facce, apparentemente inconciliabili tra loro: da una parte sembra un trattato filosofico di natura erotica e politica, in cui lo sviluppo narrativo ha lo scopo di esemplificare le tesi che l'autore vuole sostenere; dall'altro lato, si presenta come una sorta di Cantico delle creature di matrice acattolica.
 Molti sono i personaggi che entrano in scena e agiscono lungo tutto l'arco del racconto - che abbraccia il periodo che va approssimativamente dagli anni precedenti la Primavera di Praga e l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche fino alla fine degli anni settanta -, ma solo quattro sono i protagonisti principali, la cui parabola esistenziale assume un valore paradigmatico: Tomàs, Tereza, Sabina e Franz. 
 Tomàs è un chirurgo di grande valore che lavora in uno dei principali ospedali di Praga. In passato, è stato sposato con una donna, una comunista ortodossa, che però ha abbandonato insieme al figlio avuto da lei (pur continuando a sostenerli economicamente), e per questo è stato ripudiato dai suoi stessi genitori. La sua curiosità nei confronti del prossimo e della sua specifica, originale individualità lo porta da allora a passare da un'amante all'altra senza legarsi sentimentalmente a nessuna: infatti, si regola in maniera tale da incontrare le amanti fisse solo a intervalli di tempo non inferiori alle tre settimane, e da lasciare quelle avventizie dopo tre convegni ravvicinati al massimo.
 L'abitudine di frequentare molte donne diverse resta a Tomàs anche dopo l'incontro con Tereza, una giovane cameriera in cui si imbatte, per via di una serie di circostanze fortuite, in una cittadina di provincia, di cui si innamora, e che sposa, dopo il trasferimento della ragazza a Praga. 
 Nella capitale, la giovane comincia a lavorare come fotografa presso uno studio di arti visive grazie all'aiuto di Sabina, pittrice di discreta fama, grande amica e storica amante di Tomàs. Sembrano esserci tutti i presupposti per una vita di coppia felice per Tomàs e Tereza: il nuovo lavoro piace alla ragazza, che ama profondamente Tomàs e sente che lui la ricambia con lo stesso sentimento. 
 Quando però scopre il legame del marito con Sabina, e poi con tutte le altre donne che frequenta, Tereza non può fare a meno di cadere preda di una angosciosa gelosia. A nulla vale la consapevolezza della diversità fra il trasporto che Tomàs sente per lei e l'impulso che lo spinge a cercare altre donne: le infedeltà di Tomàs danno a Tereza l'impressione di essere tradita dal proprio stesso corpo, con cui ha sempre avuto un rapporto difficile, dovuto agli antichi traumi in lei lasciati dalla grossolanità e dall'impudicizia con cui sua madre viveva la propria fisicità, e le rinfacciava la sua timidezza.
 Così, nel momento in cui carri armati sovietici invadono le strade del Paese per porre fine all'esperimento del "Socialismo dal volto umano" avviato da Alexander Dubcek, e per stroncare la cosiddetta Primavera di Praga, dopo i primi giorni di pacifica e orgogliosa resistenza alla logica brutale dell'occupazione (giorni in cui Tereza gira per le strade fotografando i soprusi dei militari russi e le ragazze boeme che provocano beffardamente con la loro sessualità prorompente i soldati delle truppe occupanti), è anche per spezzare la catena delle infedeltà conclamate del marito e della propria soffocante gelosia che la donna spinge Tomàs ad accettare la proposta di lavoro del primario di chirurgia di una importante clinica di Zurigo, e a trasferirsi in Svizzera.

Milan Kundera

 Il fatto è che Tomàs "si porta dietro le sue abitudini come la lumaca porta con sé il guscio": in Svizzera l'uomo continuerà ad avere delle amanti, e riuscirà persino a rivedere Sabina - a sua volta fuggita dalla Cecoslovacchia e trasferitasi a Ginevra -, riprovando con lei il gusto eccitante della trasgressione. Solo che quando Tereza, di nuovo in preda ai propri fantasmi, fuggirà sconvolta da Zurigo per tornare a Praga, Tomàs lascerà ogni cosa per seguirla; e i due si troveranno a quel punto prigionieri di un Paese le cui frontiere sono ormai chiuse per chiunque voglia uscirvi, e su cui è calata la cappa di piombo della repressione.
 Messo nel mirino dalla polizia segreta per via di un articolo, pubblicato su una rivista letteraria nei giorni euforici del 1968, in cui, partendo dal mito di Edipo (accecatosi per la propria colpa nonostante l'avesse commessa inconsapevolmente) stigmatizzava le responsabilità dei comunisti ortodossi boemi, Tomàs subisce il destino toccato a tanti intellettuali "declassati": non avendo accettato di "abiurare" e di umiliarsi pubblicamente cedendo al ricatto del regime, viene costretto a lasciare prima il suo ospedale a Praga, poi l'attività al tavolo operatorio, infine la stessa pratica medica. 
 Riciclatosi come lavavetri, non dovrà per questo rinunciare alla sua carriera di seduttore; anzi, la grande quantità di tempo libero a sua disposizione e la benevolenza mostrata nei suoi confronti da tutti coloro che hanno udito la sua storia gli consentiranno di "agganciare" un numero di donne superiore a quello avuto in qualsiasi altro periodo della sua vita. 
 Solo la persistente angoscia di Tereza, che su di lui comincia a sentire ogni notte l'odore del sesso delle donne che frequenta, e la decisione di volersi liberare da tutti i doveri che gravano sulla sua coscienza (fra i quali l'impulso a conoscere nuove donne, trasformatosi ormai in una sorta di coazione a ripetere, un incombente es muss sein) indurranno Tomàs a trasferirsi con la moglie in campagna, lontano da tutto, e a trovare qui una quiete perfetta e una felicità autentica; prima di morire sfracellato cadendo in un burrone con il camion con cui lavora.
 La notizia della morte di Tomàs - per mezzo di suo figlio Simon, ritrovato dall'uomo negli ultimi anni di vita - raggiungerà anche Sabina che, come ha sempre fatto, continuerà per tutta il resto della propria esistenza a passare da un tradimento all'altro, perpetuando la catena che l'aveva portata ad allontanarsi dal padre, dall'ortodossia comunista, dai dettami artistici del realismo socialista, dal primo marito, dalla Boemia: il tutto in nome dell'odio viscerale per il Kitsch, l'edulcorazione banalizzante della realtà propria di ogni principio che si pretende assoluto. 
 La saldatura psicologica tra vocazione al tradimento e rifiuto del Kitsch porterà Sabina ad allontanarsi anche da Franz, il docente universitario (sposato con una gallerista presso la quale la pittrice aveva esposto i suoi quadri) che si è innamorato di lei, e che ella a sua volta ricambia. Abbandonerà così Ginevra per trasferirsi a Parigi, e poi ancora più lontano, negli Stati Uniti, per lasciarsi ogni cosa alle spalle, per far dimenticare a tutti persino la sua origine boema.
 Franz, da parte sua, non si libererà mai del pensiero di Sabina; anzi, fedele alla sua tempra di sognatore, sarà proprio pensando a lei, e cercando di essere degno del suo sguardo, che si farà uccidere da un gruppo di delinquenti comuni decisi a rapinarlo in Cambogia, dove si era recato per partecipare a una manifestazione di intellettuali progressisti a sostegno della popolazione fiaccata da anni di guerra. 
 L'impalcatura teoretica sulla quale cresce questa trama piuttosto articolata, sebbene non perfettamente simmetrica e non del tutto coerente, si basa su alcuni capisaldi che derivano dalla filosofia nietzschiana (l'idea dell'eterno ritorno), dal concetto di ascendenza romantica di Destino (l'es muss sein che si fa derivare dal motivo di un Quartetto per archi di Beethoven), dal mito veterotestamentario della cacciata dell'uomo dal paradiso terrestre, dal concetto secondo il quale tutte le ideologie politiche novecentesche si potrebbero ricondurre all'ideale estetico del Kitsch.
 Secondo Kundera, nella vita umana conviverebbero l'attrazione verso la "pesantezza" (collegata a ciò che si ritiene possa ripetersi e persistere) e quella verso la "leggerezza" (collegata a ciò che brilla una sola volta e poi scompare senza lasciare traccia); ma solo a quest'ultima sarebbe assimilabile verosimilmente la traiettoria che caratterizza l'esistenza di ogni uomo, pur resistendo in lui la vocazione verso qualcosa di più solido e duraturo. Una vocazione che talvolta si traduce in un anelito di regressione verso la circolarità del tempo tipico dell'esistenza degli animali (che dal paradiso terrestre non sono mai stati cacciati), talaltra porta a vagheggiare l'assolutizzazione di ideali quali l'Amore o il Progressismo ("La Grande marcia in avanti"), sfortunatamente destinati a degenerare sempre nell'orrore del Kitsch.
 Molte delle conclusioni a cui approda Kundera paiono francamente discutibili, e molti passaggi del suo libro sembrano esprimere una qualità letteraria non eccelsa; eppure questa è un'opera con la quale bene o male occorre confrontarsi, magari per attraversarla e approdare ad altri lidi. Per questo, L'insostenibile leggerezza dell'essere a mio parere rappresenta indiscutibilmente una pietra miliare della cultura europea dell'ultimo terzo del secolo scorso.  

Voto: 9         

domenica 10 febbraio 2019

Massimo Franco, "C'era una volta Andreotti", Solferino


 Versione ampliata e corretta della biografia di Giulio Andreotti di Massimo Franco, preparata per il centenario della nascita del celebre politico democristiano, questo ponderoso libro appare sotto diversi aspetti sostanzialmente contraddittorio: da una parte, infatti, dichiara che la figura di Andreotti appartiene irrevocabilmente al passato, dall'altra sembra quasi trattarne l'eredità politica come qualcosa di vivo, capace ancora oggi di dividere in maniera netta i suoi detrattori e i suoi estimatori; da un lato, riconosce che il suo operato è avvolto da ombre che nessuno è riuscito a dissipare - e che il giudizio umano e politico sul suo personaggio è gravato da pesanti sospetti e irriducibili ambiguità -, dall'altro finisce per tracciarne un ritratto per molti versi quasi agiografico.
 La parte più affascinante e meglio scritta del testo è sicuramente quella iniziale, che ricostruisce l'infanzia e la giovinezza di Andreotti: nato a Roma nel 1919 in una famiglia di estrazione piccolo-borghese originaria di Segni, in Ciociaria, Giulio Andreotti perse il padre quando aveva soltanto tre anni, e fu cresciuto dalla madre, amatissima ma assai poco espansiva con i figli: la leggenda vuole che il futuro Presidente del Consiglio non abbia mai ricevuto un bacio da lei.
 Fin da bambino si trovò a suo agio a contatto con gli ambienti ecclesiastici: non solo accolse con straordinaria docilità l'educazione cattolica che gli fu impartita, ma trasformò in tutto e per tutto il mondo cattolico nel suo mondo, tanto più che parecchi dei suoi migliori amici e compagni di giochi erano giovani seminaristi (fra di loro alcuni futuri cardinali), e la frequentatissima parrocchia di Segni divenne per lui come una seconda casa. A scuola era tranquillo, diligente, ma non particolarmente brillante; palesò però un precoce, notevole talento organizzativo, che gli valse l'incarico di stabilire i turni dei chierichetti destinati a servire messa lungo tutto l'arco della settimana. Egli stesso fu tentato di farsi prete; vi rinunciò perché, come ebbe modo di ripetere più volte, non lo entusiasmava la prospettiva del celibato.
 Non fu mai uno sportivo, ma da ragazzino maturò una passione per la squadra di calcio della Roma che lo accompagnò tutta la vita, così come la prossimità al Vaticano, che cominciò a frequentare prestissimo: pare che a otto anni riuscisse a infiltrarsi a una udienza concessa da Pio XI a un gruppo dell'Azione Cattolica belga; fu smascherato, perché il papa, accortosi di quel bimbetto tra tanti adulti, gli si rivolse in francese, e lui, che ancora non conosceva la lingua, non seppe rispondere.
 La contiguità con gli ambienti cattolici lo preservò dalla nefasta influenza del fascismo, pur non facendo di lui propriamente un antifascista. D'altra parte, con l'ingresso negli anni dell'adolescenza, il fatto di frequentare il liceo Tasso, lo stesso dei figli del duce, gli regalò paradossalmente una libertà altrove impensabile; italianamente, Mussolini, forse per imbarazzo verso chi aveva la responsabilità della formazione dei propri rampolli, chiudeva un occhio nei confronti delle opinioni manifestate da insegnanti dell'istituto culturalmente "non allineati" al regime. E' noto come della stessa apertura culturale godettero altri studenti del Tasso di allora: Alfredo Reichlin, Luigi Pintor e Luciana Castellina, futuri esponenti del Pci, Vittorio Gassman con la sorella Mary (per la quale pare che il giovane Giulio avesse un debole), Maria Crocco, figlia di un grande imprenditore e futura moglie di Raimondo Manzini, storico direttore dell'Osservatore Romano, Giorgio Ceccherini, che di Andreotti fu per decenni il braccio destro.
 Altri, però, furono gli incontri decisivi per la carriera politica di Andreotti, ed ebbero luogo tra la fine degli anni trenta e l'inizio degli anni quaranta, dopo l'iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza all'Università La Sapienza a Roma e dopo l'ingresso di Giulio nella Fuci, la federazione degli universitari cattolici: primi fra tutti quello con Alcide De Gasperi, severo direttore della Biblioteca Vaticana, e quello con monsignor Giovan Battista Montini, il futuro papa Paolo VI.
 Andreotti entrò presto nella redazione della pubblicazione quindicinale della Fuci, Azione Fucina, divenne il principale collaboratore del direttore del giornale Aldo Moro - lui sì studente brillantissimo -, e lo sostituì quando quest'ultimo, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, venne richiamato alle armi (mentre Giulio, riformato alla visita di leva per insufficienza toracica, evitò la coscrizione).
 Il nuovo incarico gli consentì di entrare in familiarità con papa Pio XII, verso il quale Andreotti mostrò sempre una profonda ammirazione. Non tutti lo apprezzavano come direttore di Azione Fucina: molti ricordarono in seguito i feroci contrasti che ebbe in quel periodo con Eleonora Chiavarelli, a sua volta redattrice del quindicinale e futura moglie di Aldo Moro. 
 Nonostante questo le sue innate doti di mediatore gli consentirono di porsi come tramite tra la posizione rigidamente anticomunista del papa e le istanze dei rappresentanti dell'ala sinistra della Fuci; salvo poi, al termine della guerra, abbandonare questi ultimi al proprio destino per farsi interprete del fondamentale conservatorismo del Vaticano. A questo punto la carriera di Andreotti - che nel frattempo era convolato a nozze con Livia Danese, la donna che gli darà quattro figli - era pronta a decollare davvero.
 Quando furono indette le prime libere elezioni, i buoni uffici dei tanti prelati con i quali aveva stretto amicizia e l'antico radicamento in Ciociaria gli consentirono di trasformare questa regione in un serbatoio di voti, un vero e proprio feudo elettorale che Andreotti coltivò nei decenni successivi ricorrendo metodi apertamente clientelari (su piccola come su larga scala: i benefici che distribuiva andavano dal sostegno alimentare a famiglie indigenti alla valorizzazione degli immobili dei più grandi proprietari terrieri della Regione), e che gli rimase fedele fino ai primi anni novanta (quando il Presidente della Repubblica Cossiga lo nominò Senatore a vita).  

Massimo Franco

 Diventato Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi lo scelse come suo sottosegretario. Fu in questo periodo, tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta che nacque il mito dell'uomo politico perfettamente introdotto nelle più segrete stanze sia dello Stato italiano sia della Curia pontificia, e dunque custode geloso dei misteri delle une e delle altre; dell'abile diplomatico capace di servirsi alla perfezione delle proprie rendite di posizione per ottenere sempre ciò che voleva.
 Ogni mattina, De Gasperi e Andreotti, alle 7, prima di cominciare il lavoro, erano soliti assistere insieme alla celebrazione della messa; fu questa consuetudine a suggerire a Montanelli la fulminante battuta secondo la quale, "la gente, vedendo De Gasperi e Andreotti entrare in chiesa, pensa che facciano la stessa cosa: in realtà De Gasperi va a parlare con Dio, Andreotti con il prete".
 In questa fase, ad Andreotti fu affidato anche l'incarico di rilanciare il cinema italiano e, nel contempo, di vigilare sulla "moralità" delle pellicole che venivano prodotte: attività che gli valsero in egual misura critiche e benemerenze.
 Dopo il tramonto dell'astro di De Gasperi e la morte dello statista trentino, la stella di Andreotti come è noto non cessò di brillare: ormai uomo simbolo della destra democristiana, titolare di una corrente interna al partito piccola ma assai vivace, la sua duttilità gli consentì di attraversare tutte le diverse stagioni della Prima Repubblica riservandosi quasi sempre un ruolo di primo o di primissimo piano.
 La lunga carrellata - di carattere per lo più puramente compilativo - sulla sua interminabile carriera occupa tutta la seconda parte del libro. Andreotti visse più o meno da protagonista gli anni del centrosinistra, quelli della contestazione, gli anni della crisi energetica e gli anni di piombo, gli anni del compromesso storico e dell'omicidio Moro e gli anni del craxismo. Fu di volta in volta considerato troppo vicino agli americani, in combutta con i comunisti, troppo legato ai paesi arabi affacciati sul Mediterraneo. La corte di collaboratori e uomini di fiducia pittoreschi e spesso discutibili di cui si circondò (da Franco Evangelisti a Vittorio Sbardella, da Salvo Lima a Paolo Cirino Pomicino) fu in grado di salvaguardarne l'autorità; la sua ironia, il suo talento da battutista, il cinismo e la sapienza con cui seppe coltivare le proprie clientele ne salvaguardarono la popolarità. 
 L'immarcescibile abitudine all'esercizio del potere unita alla singolarità del suo aspetto fisico e alla capacità di uscire indenne dagli scandali che a più riprese lo sfiorarono senza scalfirne la posizione (da quello legato alla Loggia massonica P2 a quelli legati alle attività finanziarie di Michele Sindona e al crack del Banco Ambrosiano) lo circondarono di un'aurea sulfurea, che parve trovare conferma nelle accuse di prossimità alla mafia che gli piombarono addosso a partire dal 1993, dopo il crollo del sistema partitico sul quale si reggeva la Prima Repubblica, l'uccisione del suo luogotenente a Palermo Salvo Lima, gli attentati in cui trovarono la morte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 
 Tutta la parte finale del libro è dedicata proprio ai processi per mafia a carico di Andreotti, al ruolo che vi ebbe la sua avvocatessa Giulia Bongiorno, alle assoluzioni arrivate sulla scorta di motivazioni tanto ambigue da non riuscire a rimuovere mai veramente i dubbi su una sua eventuale colpevolezza, agli anni della sopraggiunta vecchiezza e del definitivo declino del Senatore a vita.
 E' questa la sezione più noiosa e ripetitiva della biografia di Massimo Franco, quella che si sostanzia in un corposo e incomprensibile panegirico di Giulia Bongiorno, e in una descrizione del profilo di Andreotti senescente davvero molto indulgente, e comunque tale da denunciare una vicinanza dell'autore al protagonista del suo libro, ai suoi familiari e ai suoi amici che pare compromettere in parte l'oggettività della sua ricerca.
 Difficile per tutti è formulare un giudizio circostanziato su una figura così sfaccettata e su una carriere politica così lunga e piena di elementi di segno addirittura opposto; chi si occupa della loro ricostruzione, però, dovrebbe almeno provarci. 
 La mia impressione è che l'importanza di Andreotti, così come le sue responsabilità siano state spesso ampiamente sopravvalutate. Mi spiego: personalmente ritengo che Andreotti meriti di essere studiato per il ruolo che ha avuto in tanti fondamentali momenti di passaggio della storia dell'Italia repubblicana nei suoi primi cinquant'anni di vita; ma nello stesso tempo penso che le sue qualità - in positivo come in negativo - vadano ridimensionate, perché la tendenza dei cronisti è sempre stata quella di ingigantirle oltremisura. In fondo, la sua principale preoccupazione fu sempre quella di sopravvivere politicamente e di perpetuare la sua permanenza laddove si esercitava il potere: un duttile opportunismo fu l'unica costante del suo modus operandi e il vero asse portante di tutta la sua avventura nella politica italiana. 
 Sulla base di quello che di Andreotti si conosce, è probabilmente lecito ipotizzare anche che ricorresse con una certa disinvoltura ai più esecrabili compromessi pur di ottenere e conservare il consenso, perfino nella Sicilia controllata dalle cosche mafiose, naturalmente. Pure, non è possibile affermarlo con assoluta certezza.
 Diciamo che Giulio Andreotti operò in un'Italia multiforme e corrotta, e a quest'Italia seppe adattarsi alla perfezione, senza preoccuparsi troppo di come cambiarla: questa per me è la sua più grande colpa.
 Ma dal compito di vagliare e approfondire simili doverose considerazioni, Massimo Franco, con tutta la messe imponente di informazioni che fornisce, si tiene prudentemente lontano. 

Voto: 5,5       

domenica 3 febbraio 2019

Mauro Novelli, "La finestra di Leopardi", Feltrinelli


 Per pura combinazione, non molto tempo fa, mi sono imbattuto in un vecchio libro non troppo dissimile da questo per intenzioni dichiarate e impostazione di fondo: La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani. 
 Convinta, come Novelli, che le case possiedano "un'ineguagliabile capacità narrativa", Sandra Petrignani entrava nelle dimore storiche di alcune tra le più grandi scrittrici del Novecento (Grazia Deledda, Marguerite Yourcenar, Colette, Alexandra David-Néel, Karen Blixen, Virginia Woolf) cercando nel fascino sprigionato dalle stanze che esse avevano abitato testimonianze della loro personalità e del loro modo di essere, e le tracce di possibili intersezioni dell'aspetto degli ambienti che le avevano viste vive con la loro biografia e la loro opera.
 La scelta di Novelli cade invece sulle abitazioni di scrittori italiani, non solo del Novecento ma anche dei secoli precedenti, site in Italia, e visitate non tanto - o non solo - per feticismo o voyeurismo, ma, come scrive l'autore nell'Introduzione, per "trovare nella realtà le impronte della fantasia, dopo aver cercato nella fantasia le impronte della realtà"; per riconoscervi, insomma, la parte di noi maturata a contatto con i libri scritti da chi quelle case ha fisicamente occupato.
 Del resto, i due testi appaiono molto diversi per il tono e per il passo adottato, e per la curvatura letteraria impressa alla scrittura: Sandra Petrignani procede per attente osservazioni e corpose analisi, finendo per creare delle storie di ampio respiro capaci di restituire un vero e proprio ritratto originale delle scrittrici incontrate; Mauro Novelli procede invece per suggestioni, che si concretizzano in una serie di affondi di tenore lirico - più che critico - nella vita e nell'opera degli autori trattati: il suo è dichiaratamente un "viaggio sentimentale" nelle case dei grandi scrittori italiani.
 Il libro è indubbiamente molto gustoso, sebbene disuguali per fascino appaiano i diversi capitoli (vi si distinguono le sezioni più articolate, che nascono da una visita e da una ricognizione approfondita agli ambienti un tempo occupati dagli scrittori su cui si focalizza l'obiettivo, e gli "intermezzi" in corsivo, che nascono semplicemente dal richiamo di una targa, di un'iscrizione, di un oggetto, di un ricordo).

Mauro Novelli

 Difficile raccontarli tutti: a me paiono molto riusciti quello dedicato alla casa di Alessandro Manzoni a Milano, capace di conservare l'incanto del "grigio ambrosiano" che rispecchia alla perfezione la sobrietà dell'autore dei Promessi Sposi; quello su "D'Annunzio d'acqua dolce e altri laghisti lombardi", dove l'ipnotica opulenza del Vittoriale, curiosamente scelto dallo scrittore pescarese all'apice della fama per il suo splendido isolamento, viene messa in relazione con il complesso rapporto che ebbero con altri specchi d'acqua dall'aspetto più o meno cupo, dislocati in terra di Lombardia, i vari Fogazzaro, Gadda, Parini, Piero Chiara; quello dedicato alla casa di Pasolini a Casarsa, dove Pier Paolo condivise col fratello Guidalberto una stanza con le pareti rossoblu, in onore dei colori sociali del Bologna, la squadra di calcio di cui era tifoso, dove nel dopoguerra lo scrittore si attrezzò per vivere una vita da piccolo intellettuale di provincia (progetto sbriciolato dal processo per corruzione di minorenne che, come è noto, piombò addosso a Pasolini alla fine del 1949), dove il padre rimase ad annegare i dispiaceri nell'alcol.
 Ho trovato inoltre particolarmente interessanti gli intermezzi su Ludovico Ariosto in Garfagnana (dove, per tre anni, l'autore del Furioso non smise di sognare la "dolce Emilia", mentre tra mille difficoltà gli toccava tentare di amministrare per conto del duca Alfonso I ottantatré comunità in continua e aperta discordia fra loro) e su Curzio Malaparte a Capri (dove lo scrittore fece costruire, durante il ventennio fascista, una splendida villa in un'area sotto tutela ambientale grazie ai buoni uffici dell'amico Galeazzo Ciano, per poi lasciarla, alla sua morte alla Repubblica Popolare Cinese - che peraltro non ne entrò mai in possesso perché il testamento fu impugnato dai familiari dello scrittore).
 I passi più intriganti, naturalmente, sono quelli in cui si riesce a creare uno speciale cortocircuito tra passato e presente - o comunque tra epoche diverse - che apre la via a considerazioni che esulano dalla pura e semplice biografia degli scrittori visitati; come quando, a Recanati, notando quanto spesso i personaggi delle poesie leopardiane cantano, fischiettano o improvvisano motivi ritmati, Novelli si chiede: "quando ha smesso di cantare l'Italia"? O come quando, trattando delle carceri da cui passarono numerosi scrittori italiani per i motivi più vari, nota la straordinaria attualità delle scritte lasciate sui muri delle celle dello Steri, a Palermo (dove per anni imperversò l'Inquisizione), dai tanti che passarono di lì, e ha quasi l'impressione di sentire le grida, gli sberleffi, le imprecazioni le risate, i lamenti, i pianti di coloro che quelle iscrizioni tracciarono. O ancora, come quando, presso la villa del Meleto, nel Canavese, per sottolineare come Gozzano se ne andò "nel momento giusto", si immagina l'assurdo del poeta sopravvissuto a se stesso, nel secondo dopoguerra, "mite vecchietto spaesato nella Torino gonfiata a dismisura dall'immigrazione". 
 Unico limite del libro, per me, quel pizzico di compiacimento accademico che di tanto in tanto si avverte nello stile dell'autore; cosa che, peraltro, non inficia il piacere della lettura.

Voto: 6,5