giovedì 18 luglio 2019

Jesmyn Ward, "Canta, spirito, canta", NN Editore


 Canta, spirito, canta è un romanzo di spettri, ma non è in alcun modo un romanzo gotico. La presenza di coloro che non ci sono più, infatti, non contribuisce a disegnare un profilo narrativo cupamente romantico, bensì piuttosto problematicamente esoterico: è come una marea montante di nostalgie e rimorsi che circonda, assedia e a poco a poco sommerge sia coloro che, in virtù di una naturale disposizione, di un'intima suggestione o di una abilità acquisita, riescono a comunicare con le entità soprannaturali, sia coloro che dai fantasmi sono attorniati senza rendersene conto. 
 La storia raccontata è ambientata nella regione del delta del Mississippi, il Bayou, che già era teatro delle vicende narrate in Salvare le ossa. Anche questa volta, al centro della narrazione, vi sono le difficoltà che attraversa una famiglia nera, povera e orgogliosa. 
 Il capo famiglia, Pop, è un vecchio ancora forte, saggio e laborioso, che alleva animali da quando, molti anni prima, nel penitenziario di Parchman - dove era stato ingiustamente rinchiuso per aver nascosto e protetto suo fratello dopo una rissa -, gli è stata affidata dai sorveglianti la cura dei cani che venivano sguinzagliati sulle tracce dei detenuti evasi. Dietro la sua pacatezza e il suo rigore, Pop nasconde un segreto che lo tormenta, risalente proprio al periodo di Parchman; un segreto a cui da tempo gira intorno con i suoi racconti al nipote prediletto, Jojo, senza avere ancora trovato il coraggio di rivelarlo.
 Jojo ha tredici anni, e da bambino sta per trasformarsi in un uomo. Per maturità e prestanza fisica ricorda molto il nonno, che lo ama senza riserve. D'altra parte, Pop e sua moglie Mama sono per il ragazzo gli unici veri punti di riferimento nel mondo degli adulti; infatti, sua madre Leonie - figlia di Pop e Mama - e suo padre Michael, un giovane bianco dai luminosi occhi verdi, sono sempre assenti, presi dal loro ardente amore reciproco o persi nei fumi della droga. Tanto che spesso tocca proprio a Jojo a prendersi cura di Kayla, la sorellina ancora piccola, l'altra figlia di Leonie e Michael. 
 A complicare la situazione vi sono inoltre due circostanze: in primo luogo Mama, la moglie di Pop - esperta di erbe e di sortilegi, impregnata della tradizione visionaria e animistica precristiana che viene dall'incontro della cultura africana con quella dei nativi americani -, è malata di cancro, non riesce più ad alzarsi dal letto, ed è ormai vicina alla fine.
 In secondo luogo, i rapporti fra la famiglia di Leonie e quella di Michael sono assai difficili: il padre di Michael è spudoratamente razzista, come tutti i suoi congiunti, e non vuole avere niente a che fare né con Leonie, né con i suoi figli; ma soprattutto suo nipote, il cugino di Michael, anni prima - certo da ubriaco, ma altrettanto sicuramente spinto dal proprio disprezzo per le persone di colore -, è stato responsabile dell'uccisione con un colpo di fucile di Given, il fratello maggiore di Leonie.

 Jesmyn Ward

 Il fantasma di Given, che senza parlare appare a Leonie ogni volta che questa è sotto l'effetto degli stupefacenti, è una delle due presenze soprannaturali che invadono l'esistenza quotidiana dei personaggi con il carico di ricordi dolorosi e lieti di cui si fanno portatori. 
 L'altro spettro, più indecifrabile (involontariamente "raccolto" da Jojo e da Leonie a Parchman, dove si erano recati per accogliere Michael al momento del suo rilascio dopo una detenzione per spaccio), appartiene a Richie, un fragile ragazzino che Pop aveva conosciuto, preso in simpatia e protetto quando era in carcere (dove un tempo con i grandi venivano rinchiusi anche i minorenni), e di cui spesso parla a Jojo mentre rigoverna i propri animali.
 I due fantasmi saranno gli agenti del dolorosissimo e definitivo passaggio di Jojo dall'infanzia all'età adulta: Given verrà a prendere Mama - che non ha smesso di invocarlo dal momento della sua uccisione - e la porterà con sé nel regno dei morti, per la disperazione di Leonie, che non ha mai imparato a fare a meno del fratello, e che ora deve separarsi anche dall'amata madre, e la costernazione di Jojo, che vedeva nella nonna una madre surrogata; Richie, invece, indurrà Jojo a costringere il nonno a raccontargli la sua storia.
 E il racconto è tale da suscitare orrore: Richie, fuggito da Parchman insieme a un altro detenuto - accusato di aver violentato e ucciso una ragazza bianca -, era stato sgozzato dal suo amico Pop per sottrarlo all'atroce supplizio a cui intendeva sottoporlo una torma di bianchi inferociti, che, nonostante fosse solo un bambino (e non fosse responsabile in alcun modo della sorte della ragazza assassinata), catturandolo lo avrebbe mutilato, scuoiato vivo e poi impiccato, come già toccato al suo compagno di fuga.
 La confessione da parte di Pop del suo pietoso crimine cementa ancora di più il rapporto fra nonno e nipote; quest'ultimo, ormai pienamente consapevole della durezza e dell'ingiustizia del vivere, dimostrerà di essere pronto a farsi carico da uomo del suo destino e di quello dei suoi cari, svincolandosi totalmente dalla tutela di una madre e di un padre che, ancora una volta, hanno dimostrato di non sapersi occupare di lui (dopo la morte di Mama, infatti, Leonie e Michael sono praticamente spariti). 
 A questa conclusione si approda attraverso un percorso narrativo tutt'altro che lineare. Nel continuo rimpallo dei punti di vista fra Jojo, Leonie e il fantasma di Richie, l'allucinazione diventa parte integrante della narrazione e porta a rappresentare una percezione della realtà in cui ogni distinzione tra presente e passato viene abolita; prende corpo così uno spazio onirico magico e tormentoso, in cui nulla di ciò che si ricorda viene mai veramente superato, e tutto quello che si è pensato, sperato e vissuto - e tutte le persone che si sono incontrate in epoche diverse - evocano una sorta di dimensione esistenziale supertemporale, che non esclude l'individualità, ma la complica e la moltiplica in un frenetico gioco di riflessi e rimandi.
 Cosa che è sicuramente affascinante, ma che nel contempo risulta anche piuttosto conturbante.

Voto: 6,5

martedì 16 luglio 2019

Colson Whitehead, "La ferrovia sotterranea", Edizioni Sur


 La ferrovia sotterranea è un libro per molti versi sconvolgente: il realismo descrittivo e la finezza psicologica con cui illustra ciò che era la schiavitù dei neri negli Stati Uniti d'America nella prima metà dell'Ottocento - utilizzando il punto di vista di una schiava fuggiasca che, a poco a poco, quando assapora la libertà, comprende la disumana perversione di chi vorrebbe continuare a considerarla alla stregua di un animale o di una cosa - toccano il lettore nel profondo. Gli elementi fantastici di cui la narrazione è tramata, poi, accentuano il pathos del racconto, perché ci aiutano a ricordare come, all'epoca, per quasi tutti gli uomini e le donne soggetti a quel barbaro regime, la prospettiva dell'emancipazione poteva essere solo un sogno.
 Protagonista del libro è Cora, una schiava nera che nasce e cresce in Georgia, nell'infernale piantagione dei Randall, figlia di una schiava, nipote di una schiava. 
 Sua nonna, Ajarry è nata in Africa, ed è stata deportata oltre l'Atlantico insieme a tutta la sua famiglia, della quale è la sola ad essere arrivata viva nelle Americhe sopravvivendo alla tremenda traversata (anche se ella non è mai venuta a conoscenza della sorte dei suoi cari, che ingenuamente pensa lontani e felici).
 Negli Stati Uniti, la donna è stata comprata e venduta molte volte, prima di approdare alla sua destinazione definitiva, la Georgia. Nella sua vita ha avuto tre mariti e molti figli, ma gli uni e gli altri o sono morti per le malattie e le percosse dei sorveglianti, o le sono stati sottratti per essere venduti a un nuovo padrone - come spesso avveniva nelle piantagioni del Sud, senza alcun riguardo per i legami di parentela.
 Ajarri ha dunque concluso la sua esistenza nei campi di cotone, lavorando fino all'ultimo respiro, dopo avere "interiorizzato" la condizione della schiava, rassegnandosi ad essa come fosse la sola possibile per gente con colore della pelle e origini simili alle sue.
 La madre di Cora, Mabel, invece, è rimasta nella storia della piantagione dei Randall perché è l'unica "proprietà" ad aver scelto la fuga senza essere stata poi riacciuffata o uccisa: infatti, ha lasciato la sua baracca nottetempo per attraversare la grande palude che circonda i terreni coltivati a cotone, e di lei non si è saputo più nulla, con grande scorno dei padroni e dei "cacciatori di schiavi"; innanzi a tutti il gigantesco, terribile Ridgeway, l'uomo - alto più di due metri - che tutti temono per la sua forza fisica, la sua violenza e la sua fredda determinazione nel perseguire le tracce degli schiavi fuggiaschi fino agli Stati abolizionisti del Nord, e alla cui perizia di segugio nessuno prima di Mabel era mai riuscito a sottrarsi.
 Il ricordo di Mabel è quindi una ineliminabile spina nel fianco degli schiavisti, perché la sua fuga infonde speranza a quegli schiavi che non si rassegnano ad essere povere cose in balia della volontà altrui.
 Eppure Cora odia sua madre: la odia perché, per tentare la fuga, l'ha abbandonata quando aveva soltanto dieci anni, e perché l'ha lasciata a tutto quello che nella piantagione dei Randall uno schiavo è costretto a subire, a tutto quello a cui è costretto ad assistere.
 A dieci anni, ogni bambino nero smette di essere tale, per diventare un raccoglitore di cotone; ogni piccola infrazione della disciplina, ogni rallentamento dei ritmi del lavoro - qualunque ne sia il motivo - è punito dal sorvegliante Connelly e dai suoi collaboratori di colore (veri e propri kapo ante litteram) con la frusta.
 Il sorvegliante deve anche badare che i ragazzini non imparino a leggere e a scrivere (cosa che i bianchi sentirebbero come una minaccia ai loro privilegi e una conquista capace di mettere in discussione la dottrina dell'inferiorità biologica della razza nera rispetto a quella bianca); qualunque schiavo sia sospettato di avere qualche familiarità con la parola scritta è punito con la morte.

Colson Whitehead

 Connelly, inoltre, è solito scegliere le sue concubine fra le ragazze più avvenenti della piantagione; le giovani non hanno facoltà di rifiutare i suoi approcci; i bambini che nascono dall'unione fra il sorvegliante e le sue amanti-schiave vengono sovente messi a loro volta in vendita.
 Nella piantagione dei Randall, uno schiavo non ha una data di nascita riconosciuta, e non possiede nessun vero diritto, nemmeno quello di coltivare i propri affetti. Il più giovane e il più crudele dei fratelli Randall, Terrence, si diverte spesso a violare le giovani schiave nel giorno stesso delle nozze di fronte ai loro consorti, per il semplice gusto di umiliarli mostrando loro "come si fa".
 E se uno schiavo fugge e poi viene catturato, lo aspettano atroci sevizie e una lenta agonia prima che gli sia concesso di morire, affinché gli altri schiavi, terrorizzati, siano scoraggiati dal tentare a loro volta la fuga. E' quello che accade, davanti agli occhi di Cora, a Big Anthony, che viene ridotto in ceppi e fustigato per un giorno intero col gatto a nove code - mentre i suoi padroni banchettano lentamente - prima di essere amputato del pene, che gli viene cucito in bocca affinché non possa urlare mentre viene arso vivo al cospetto di tutti i suoi compagni costretti ad assistere all'esecuzione.
 Cora, anno dopo anno, dal momento in cui è rimasta sola, ha modo di rendersi bene conto di tutte queste cose, e di sentire crescere in sé la voglia della fuga: quella voglia che forse sentiva anche sua madre, e che è connessa con il persistere del senso della propria umana dignità, con il bisogno di non lasciare che la propria "parte schiava" prenda il sopravvento narcotizzando l'anima.
 Così, quando Cesar - un giovane nero che è cresciuto in Virginia, in un contesto molto meno duro di quello della piantagione dei Randall, dove la sventura lo ha portato - le propone di fuggire, Cora accetta.
 I due ragazzi sfrutteranno la "ferrovia sotterranea"; quella Underground Railroad che, storicamente, era un'organizzazione segreta basata su una capillare trama di relazioni che gli abolizionisti avevano allestito negli Stati del Sud per offrire sostegno materiale e protezione agli schiavi fuggiaschi, ma che nella fantasia romanzesca di Colson Whitehead diventa una vera e propria rete di cunicoli sotterranei percorsi da treni sferraglianti capaci di condurre gli schiavi verso la libertà.
 Grazie all'aiuto di una serie di uomini bianchi disposti a spendersi per gli schiavi a rischio della vita, Cora intraprenderà un viaggio attraverso gli Stati Uniti alla ricerca di un luogo dove i germogli della tolleranza e dell'uguaglianza (teoricamente propugnata dalla Dichiarazione d'Indipendenza, atto fondativo del Paese, ma costantemente disattesa) possano trovare terreno fertile per mettere radici e crescere rigogliosi.
 Cora e Cesar giungeranno dapprima in Carolina del Sud, dove è stato varato un programma di emancipazione dei neri che, però, non prescinde dalla segregazione e dal razzismo (e anzi si basa sulla convinzione che i neri siano esseri inferiori, ai quali si dovrebbe impedire di perpetuare la propria stirpe attraverso un progetto di sterilizzazione forzata di donne e uomini di colore, da imporre progressivamente a tutti gli afroamericani).
 Poi, quando Ridgeway scoprirà il loro rifugio, mentre Cesar (accusato ingiustamente dell'omicidio di un ragazzino bianco) verrà linciato dalla folla, Cora riuscirà fortunosamente a riparare in Carolina del Nord, dove sarà costretta a nascondersi come una ladra, perché, beffardamente, l'abolizione formale della schiavitù (sostituita da una sorta di servitù debitoria dei lavoratori bianchi poveri, per lo più di origine irlandese) ha portato all'attuazione di un tentativo di sterminio di tutti i neri presenti sul territorio dello Stato.
 Nuovamente raggiunta da Ridgeway, catturata e di nuovo rocambolescamente liberata da un gruppo di neri armati al servizio dell'Underground Railroad, Cora sembrerà trovare pace e un nuovo amore nella fattoria dei Valentine, in Indiana; ma anche da lì sarà scacciata dopo gli scontri sanguinari seguiti all'incursione di un gruppo di schiavisti.
 Alla ragazza non resterà che affidarsi al destino, e cercare la salvezza e il miraggio di una vita migliore lungo le strade che portano a Ovest.
 Il romanzo è tutto giocato sull'alternarsi di dati crudemente realistici sulla condizione degli schiavi e della trasfigurazione onirica (condotta talvolta con mezzi quasi surrealistici) di quel complesso di ideali, di desideri e di impulsi generosi che consentirono di arrivare all'abolizione della schiavitù.
 Strutturalmente, la storia di Cora e della sua fantastica avventura alla ricerca della libertà viene interrotta e scandita dalla presentazione dei ritratti di alcuni dei protagonisti della narrazione, che ci consentono di mettere meglio a fuoco le dinamiche emotive, i meccanismi psicologici e gli interessi materiali che regolano l'agire di ciascuno di essi.
 Da tutto questo complesso di elementi contenutistici e di strumenti retorici viene fuori un gigantesco affresco di tenore decisamente espressionistico che ci permette di maturare una consapevolezza prima di tutto sentimentale di quello che fu la schiavitù e di quello che implicò in termini di degradazione dell'essere umano (certo delle vittime, ma in un certo senso anche dei carnefici).
 Tutto il dolore che si impara leggendo, infine, sfocia nell'impressione che troppo spesso ci sfugga la reale portata del fenomeno dello sfruttamento degli schiavi neri in America; di quello cioè che senz'altro si può annoverare tra i più gravi crimini consumati nella storia moderna dell'umanità.

Voto: 8

domenica 7 luglio 2019

Vladimir Nabokov, "Lolita", Adelphi


 In una fase storica in cui sembra affievolirsi la consapevolezza di cosa sia la letteratura e di quale sia il suo specifico valore, vorrei soffermarmi su uno dei romanzi in assoluto più rappresentativi dell'importanza della letterarietà; un romanzo di cui - fra l'altro - proprio in questi giorni cade il sessantesimo anniversario dell'uscita in Italia: Lolita di Vladimir Nabokov.
 Il contenuto del libro è noto a molti: la finzione narrativa si sviluppa attraverso la memoria difensiva redatta in carcere dal protagonista Humbert Humbert, in attesa di giudizio per l'omicidio del drammaturgo Clare Quilty.
 Humbert ha ucciso Quilty perché l'uomo gli aveva sottratto la figliastra adolescente Dolores Haze - Lolita -, che egli aveva fatto oggetto dei suoi appetiti pederotici para-incestuosi. Con il suo "rapimento" (al quale la ragazza, stanca della convivenza con Humbert, aveva collaborato attivamente), Quilty perseguiva scopi non meno turpi di quelli di Humbert medesimo: intendeva infatti rendere Lolita protagonista delle riprese di alcuni film pornografici che aveva progettato secondo l'estro della propria viziosa erotomania.
 La materia del racconto, come ognuno può vedere, è assai scabrosa, ai limiti della riprovevolezza; eppure la sostanza della narrazione concepita da Nabokov è quanto di più affascinante si possa trovare in un romanzo.
 Come si ottiene questo effetto? La scrittura è vivace, brillante, raffinata; lo stile fresco, elegante, sofisticato, ricercatamente proteiforme; la voce del narratore appare assai originale, pur estrinsecandosi entro i canoni di un perfetto realismo; i personaggi, nella loro incandescente umanità, sono lontanissimi dai più vieti luoghi comuni; l'intreccio è appassionante, movimentato e, nel contempo, armonicamente costruito. 
 Ma quello che appare miracoloso è l'effetto d'insieme che tutti questi elementi, fondendosi fra loro, riescono a ottenere: una confessione disperatamente sincera, onesta in maniera disarmante, da parte di un uomo che non rinnega nulla di ciò che ha fatto, non prova neppure a denunciare i suoi crimini come se non fossero parte di sé - magari per ingraziarsi coloro che lo dovranno giudicare -, e anzi li ricostruisce minuziosamente esibendo tutte le proprie perversioni e tutte le proprie contraddizioni, per cercare di penetrare lui per primo, e di far penetrare i suoi lettori, nel mistero insondabile della vita, nel mistero irrinunciabile dell'amore.

 Vladimir Nabokov

 Humbert Humbert è ostinatamente smarrito nell'universo solipsistico del proprio sogno, quel sogno bizzarro che in una determinata fase della sua esistenza, incoraggiato da contingenze del tutto casuali, ha voluto trasformare in realtà, imponendolo alla dodicenne Lolita - diventata sua figlia adottiva un po' per caso un po' per forza - senza che ella avesse la possibilità di scegliere se condividerlo o no; uno schema psicologico che, a ben vedere, è alla base di ogni forma di umana sopraffazione. 
 E tuttavia il protagonista trova una via per il riscatto dalla colpa di cui si è macchiato proprio nella sua capacità di mettersi finalmente nei panni di Lolita; pur amando ritornare col pensiero all'epoca della propria gioia per il possesso della ragazzina - alla fase della loro falsa relazione -, il protagonista si scopre realmente innamorato di Lolita quando comprende con dolore quanta parte della sua infanzia egli le ha rubato, e intimamente accetta di rinunciare a lei: tanto da decidere persino di impedire al suo avvocato l'utilizzo della propria articolata memoria difensiva nelle sedute pubbliche del processo, per evitare che Lolita - ormai adulta e trasferitasi in Alaska con il marito Dick - possa essere data in pasto all'opinione pubblica. 
 Con tutto ciò, al lettore non viene offerta una facile morale conclusiva: Humbert rimane un compiaciuto adoratore di "ninfette", un uomo che disprezza i buoni sentimenti che albergano nel cuore dei pacifici borghesi senza grandi pretese, e un assassino che non prova particolare rimorso per  la sorte inflitta all'uomo che ha ucciso.
 In questo libro, piuttosto, il lettore trova un biglietto di andata e ritorno per l'inferno, la garanzia di vivere in prima persona un'esperienza altrimenti non replicabile, e la possibilità di esplorare nelle pieghe del testo una verità irriducibile agli schemi euclidei delle tesi preconcette su cui si fonda il senso comune. Insomma, tutto quello che fa della letteratura una disciplina degna di essere coltivata.
 Mi piace chiudere questa breve ricognizione rievocando i passi del romanzo che, fra i molti celeberrimi e davvero notevoli, io preferisco. 
 Uno, assolutamente memorabile, è quello in cui viene descritto l'idillio in Costa Azzurra fra i giovane Humbert (allora nell'epoca della vita in cui era ancora possibile definirlo un "satiretto") e il suo primo amore Annabelle, la tredicenne che di Lolita diventa la prefigurazione.
 Il secondo, meno citato dagli esegeti, è quello in cui viene descritta Lolita mentre gioca a tennis: una visione di assoluta perfezione estetica, e forse il momento in cui Humbert, pur compreso nella sua ammirazione per la ragazza e la bellezza del suo stile, percepisce per la prima volta Lolita come entità distinta da sé, come individuo la cui autonomia merita di essere salvaguardata e valorizzata.
 Il terzo, il mio preferito in assoluto, è il brano finale del romanzo, quello in cui Humbert prende congedo da Lolita, le esprime tutto il suo amore finalmente disinteressato e purificato da ogni brama di possesso, e le augura ogni bene per il futuro.

"Sii fedele al tuo Dick. Non lasciarti toccare dagli altri. Non parlare con gli sconosciuti. Spero che vorrai bene al tuo bambino. Spero che sarà un maschio. Spero che quel tuo marito ti tratti sempre bene, altrimenti il mio spettro si avventerà su di lui come fumo nero, come un gigante forsennato, e lo dilanierà nervo per nervo. E non ti commuovere per la sorte di C.Q. Si doveva scegliere tra lui e H.H., e si doveva lasciar esistere H.H. per un altro paio di mesi almeno, in modo che egli potesse farti vivere nella coscienza delle generazioni successive. Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte. E questa è la sola immortalità che tu e io possiamo condividere, mia Lolita".

 Un passo che confesso di faticare sempre a rileggere senza commuovermi.

Voto: 10