martedì 29 ottobre 2019

David Szalay, "Turbolenza", Adelphi


 Tutti noi siamo spesso portati a collocare la globalizzazione - quel processo epocale per cui si definisce una realtà in cui esistono solide interconnessioni tra eventi che avvengono in parti del mondo diverse e tra loro lontanissime - a ridosso della contemporaneità, e a collegarla con la rivoluzione cibernetica o addirittura con la diffusione di internet e degli smartphone. 
 In verità, le origini di questa fase storica sono da collocare molto più indietro nel tempo, e uno degli strumenti tecnici e dei simboli della sua piena realizzazione si può senz'altro individuare nell'aeroplano, soprattutto da quando i voli di linea sono stati in grado di unire fra loro gli angoli più remoti del pianeta.
 Per questo sembra particolarmente appropriata la scelta di David Szalay di utilizzare una serie di voli aerei come anelli di congiunzione tra le vite di dodici personaggi assolutamente differenti per professione, provenienza, cultura, estrazione sociale, ma accomunati dal fatto di essere sospesi tra i legami al loro Paese d'origine e la necessità o le circostanze che li hanno portati lontani da esso, rendendoli, in un certo senso, "cittadini del mondo"; rappresentanti, ciascuno a suo modo, della cultura globalizzata, interpreti di un'uguaglianza fittizia, disorientati e terribilmente soli al cospetto di una realtà nella quale, in teoria, dovrebbero essere perfettamente integrati e della quale dovrebbero essere assolutamente padroni.
 Le gallerie di caratteri capaci di incarnare tipi umani rappresentativi di specifici - e in un certo senso archetipici - modi di essere sono senza dubbio nelle corde dello scrittore canadese: lo dimostra l'interessante Tutto quello che è un uomo, pubblicato pochi anni fa. Là si intercettava un momento specifico della traiettoria esistenziale di nove uomini di età diversa, analizzando il loro rapporto con la famiglia, con il sesso e con la morte; in questo caso i personaggi presi in considerazione sono dodici, ciascuno protagonista di un capitolo (il cui titolo è costituito dalla sigla del volo aereo che lo introduce) che consiste in una breve incursione nella sua vita. In ogni capitolo, il protagonista di turno sfiora un altro personaggio destinato a diventare, dopo un nuovo volo, il protagonista del capitolo successivo.
 Le vite dei dodici protagonisti, sebbene assai diverse fra loro, sono accomunate da un destrutturante senso di precarietà. Tale senso di precarietà può essere determinato dalla malattia o dall'incombere della morte, dal dramma di una tragedia improvvisa, dall'instabilità affettiva, dal deteriorarsi di un'amicizia, dal logorio dovuto a un trauma mai superato, dalle liti familiari, da un incoercibile senso di colpa, dalle difficoltà economiche, dal rimorso o dal tarlo di un pregiudizio.

David Szalay

  Si va dalla vecchia madre di un uomo in cura per un cancro alla prostata (volo Londra-Madrid), a un manager senegalese che ancora non sa di aver perso il figlio adolescente in un banale incidente stradale (Madrid-Dakar); dal pilota d'aereo in ansia per una storia d'amore lasciata in sospeso (Dakar-San Paolo), alla giornalista sentimentalmente fluida in procinto di intervistare una famosa scrittrice canadese (San Paolo-Toronto); dalla scrittrice stessa che accorre al capezzale della figlia che ha appena partorito un bambino cieco (Toronto-Seattle), alla sessantenne cinese che, ospite della figlia trasferitasi a Seattle, riflette sul suo amore clandestino con un medico indiano (Seattle-Hong Kong); dal medico indiano che incontra a Saigon il fratello che gli deve da tempo dei soldi (Hong Kong-Saigon), ad Abhijit, il fratello del medico che fra mille rimorsi deruba il padre infermo, già severissimo preside di un prestigioso istituto scolastico (Saigon-New Delhi); da Anita, la domestica del vecchio preside che fa visita alla sorella maltrattata dal marito (New Delhi-Kochi), a Shamgar, il cognato di Anita, giardiniere nella casa di una donna occidentale in Qatar, che nasconde la propria omosessualità dietro l'impazienza con cui tratta la moglie (Kochi-Doha); da Ursula, la "sponsor" di Shamgar, che si divide tra il Qatar e la figlia che vive a Budapest, e che è terribilmente infastidita dalla relazione che quest'ultima ha intrecciato con Moussa, un rifugiato siriano in Ungheria (Doha-Budapest), a Miranda, la figlia di Ursula e del suo ex marito, il personaggio da cui il libro è partito, l'uomo malato del primo racconto, il padre con cui la ragazza vorrebbe tanto un rapporto più profondo di quello che riesce concretamente a stabilire con lui (Budapest-Londra).
 Per molti versi il libro appare un po' troppo schematico, anche se la meccanicità del gioco sul quale è impostata la sua struttura trova una ragione di fondo nella labilità delle personalità individuali dei protagonisti per come vengono qui definite: pare infatti che, in una certa misura, tutti i personaggi siano intercambiabili, e che il loro statuto identitario dipenda da fattori del tutto incidentali, passibili di trasformazioni anche piuttosto rapide.
 Ogni uomo, nel mondo globalizzato, sembra insomma ridotto a una pedina su uno scacchiere gigantesco, mossa e agita da forze che l'individuo non può in alcun modo controllare, e che tendono a spogliarlo perfino dei suoi attributi essenziali, riducendolo al paradigma di un tipo caratteristico.
 Una visione della realtà radicalmente pessimistica, totalmente disincantata, ma forse nel contempo anche un po' troppo superficiale per apparire davvero convincente.

Voto: 6

giovedì 24 ottobre 2019

Emanuele Trevi, "Sogni e favole", Ponte alle Grazie


 Questo libro - vincitore del Premio Viareggio Répaci - sembra venire da un'altra epoca: non si può definire un romanzo (a dispetto del richiamo a questo genere in copertina), né un saggio, né una memoria autobiografica; è invece, si può dire, tutte queste cose insieme.
 Autobiografico è l'episodio dal quale la narrazione prende le mosse, l'incontro avvenuto nel 1983 in un Cineclub di Roma - dove era stato appena proiettato un film di Andrej Tarkovskij - fra l'autore allora giovanissimo e Arturo Patten, fotografo, americano d'origine ma romano d'adozione, uomo dalla caleidoscopica personalità e dalla squisita sensibilità, artista vero. L'incontro segnò l'inizio di una amicizia solida e profonda.
 Autobiografico è il vagabondaggio di Trevi per le vie di Roma, che consente di fluire e di precisarsi ai pensieri che nascono dall'osservazione dal vivo di luoghi e di opere d'arte, e dal dilagare fra di essi della memoria letteraria e della memoria tout court, sulla scorta delle quali il filo narrativo si dipana.
 I personaggi che via via entrano in scena, invece, sebbene sempre legati a ricordi personali dell'autore, assumono una rilevanza culturale che gli elementi biografici e la fantasia romanzesca possono nutrire, ma che va comunque oltre queste istanze. Così è per il già citato Arturo Patten, così è per la poetessa Amelia Rosselli, così è per il critico Cesare Garboli; così è, soprattutto, per Pietro Metastasio, che da parecchi punti di vista si può considerare il fulcro di tutto il meccanismo narrativo.
 Metastasio è innanzitutto l'autore del sonetto da cui viene tratto il titolo del libro; una poesia che, vista l'importanza di cui è investita nell'economia del testo e del suo sviluppo, vale la pena riportare integralmente:

Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m'inganna l'arte,
più saggio io sono? E' l'agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l'amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa' che trovi riposo in sen del vero.

 Emanuele Trevi

 Ora, il sonetto di Metastasio, scritto nella primavera del 1733 a Vienna - dove la carriera di uno dei più famosi scrittori del Settecento, di umilissime origini, aveva trovato coronamento nel servizio presso la famiglia imperiale degli Asburgo - viene considerato da Trevi sommamente rappresentativo di uno stato d'animo e di una visione del mondo che vedono la vita come un grande incantamento in cui la suggestione conta assai di più di quell'entità sfuggente e forse intrinsecamente ectoplasmatica che viene definita "realtà", "vero", "verità". Un sentimento sorprendente per la sua ambivalenza in un artista perfettamente integrato nella società del suo tempo, organico al sistema, inquadrato come poeta di corte e per questo disprezzato dall'Alfieri e da tutti coloro, che - nel solco del tragediografo - considerano un ribellismo di maniera consustanziale alla figura dello scrittore "autentico".
 Questo sentimento, in sostanza simile a un profondo, consapevole spaesamento, può portare paradossalmente a collegare Metastasio a poeti da lui lontanissimi, come Lope de Vega, Fernando Pessoa o la già considerata Amelia Rosselli.
 La cosa curiosa è che queste riflessioni, che permeano il tessuto filosofico di cui il libro è tramato, quasi a chiudere romanzescamente il cerchio dell'itinerario narrativo, tornano a saldarsi in diversi modi alla concreta esperienza esistenziale dell'autore da cui hanno avuto origine; la sua e quella di chi egli ha avuto modo di conoscere direttamente.
 Innanzitutto, infatti, il compito di pubblicare un testo che analizzasse il sonetto di Metastasio sopra riportato era stato affidato a Trevi da Cesare Garboli che, arrivato agli ultimi anni della sua vita, era solito "commissionare" ad amici e conoscenti i libri che sentiva di non avere il tempo di scrivere; in secondo luogo, la singolare temperie emotiva espressa dal componimento trova riscontro in qualche modo anche nei tratti essenziali che caratterizzarono l'opera, lo stile, il modo di essere in cui si incarnò il genio tanto di Amelia Rosselli quanto di Cesare Garboli e di Arturo Patten.
 Così, Sogni e favole giunge a realizzare un livello di integrazione tra il tema e il suo svolgimento - e tra la forma e il contenuto - degno di un'opera barocca o di un libro di Italo Calvino, perseguendo nel contempo la ricerca di quella naturalezza che deriva dalla sprezzatura delle simmetrie esibite.
 Il risultato è senz'altro notevole, e ammirevole da ogni punto di vista la padronanza con cui il gioco viene condotto fino in fondo, arrivando a far vibrare qualcosa di profondamente umano fra le pagine di questo testo.

Voto: 7,5

sabato 12 ottobre 2019

David Sedaris, "Calypso", Mondadori


 La scrittura di David Sedaris è umoristica nel senso più pieno, profondo e caleidoscopicamente articolato del termine. 
 L'approccio ai temi che vengono trattati - anche i più seri -, infatti, è sempre impostato all'insegna della comicità, di volta in volta declinata secondo i tipi dell'ironia sottile, del sarcasmo spietato, della frivola canzonatura, della battuta leggera o della burla bonaria; e tuttavia non manca mai il "sentimento del contrario", che interviene a illuminare quanto di triste, malinconico o francamente angosciante esiste dietro situazioni che, a tutta prima, sembrerebbero semplicemente muovere al riso.
 Però non ci si ferma mai qui: perché la penna dell'autore veleggia immediatamente verso un diverso approdo, una differente conclusione, che si tratti di un giudizio feroce nei confronti di un determinato individuo o di un determinato atteggiamento, della confessione di una colpa o di un'invincibile debolezza, di un'espressione di affetto verso un amico o un famigliare, di una manifestazione di magnanima tolleranza, della condivisione di un ricordo o di un pensiero intimo.
 Il libro è composto da 21 prose di argomento vario: si va dalla ricognizione delle proprie manie alle elucubrazioni sul proprio stato di salute, dall'acquisto di una casa di fronte all'Oceano per le vacanze di tutta la famiglia alla celebrazione di una mostruosa tartaruga azzannatrice, dalla sceneggiatura di situazioni bizzarre o ridicole a estemporanee riflessioni politiche sui diritti dei gay o sull'elezione di Trump, dal racconto del suicidio della sorella Tiffany alla ricostruzione del segreto alcolismo della madre, dal difficile rapporto col padre alla denuncia dei limiti della propria esibita eccentricità.
 Ad accomunare tutti questi pezzi, come detto, c'è l'utilizzo della leva umoristica, che viene impiegata in modo tale da togliere al racconto qualsiasi convenzionalità e problematizzare in maniera inconsueta la sostanza della narrazione attraverso lo sgretolamento di tutti i seriosi luoghi comuni che fioriscono intorno a situazioni che siamo abituati a ritenere tragiche; per slittare poi subito, a dispetto dell'adozione del registro comico (che si è soliti paradossalmente ritenere un'istanza di semplificazione), verso l'estemporanea scoperta di aspetti della questione trattata che neppure sospettavamo che esistessero.

David Sedaris

 Prendiamo la vicenda del suicidio della sorella Tiffany, che con David - come con tutto il resto della famiglia - aveva sempre avuto un rapporto assai difficile. Se guardiamo la cosa dall'esterno, tutto appare terribile: siamo di fronte alla drammatica conclusione della vicenda terrena di una donna che con il fratello maggiore non parlava più da quattro anni - in seguito a una lite - e che, a dispetto del benessere di tutti i suoi famigliari, viveva nella più completa indigenza; ce ne sarebbe abbastanza per una contrita geremiade.
 In realtà, Sedaris tratteggia il ritratto di Tiffany con mano leggerissima, come se si trattasse di un fumetto, pur senza nascondere nulla sul suo conto e sui rapporti che intratteneva con lei. In questo modo è come se rompesse la crosta di ostilità che costellava la loro relazione fraterna e donasse a Tiffany un profilo bizzarro che il lettore può guardare con maggiore benevolenza; il dolore per la sua scomparsa non viene meno, ma rimane sullo sfondo, e si trasforma in qualcosa di più intimo e vero.
 O ancora, prendiamo la rivelazione dell'alcolismo della madre: un grumo di dolore fatto di rabbia, rammarico e sensi di colpa dovrebbe verosimilmente giacere al cuore di questa vicenda. Sedaris in realtà la racconta come se solo precisando la natura di questo problema potesse poi tornare a scherzare sui ricordi che riguardano la madre, a descrivere un amore totalizzante che ingloba anche le debolezze e i difetti, e che di sicuro conta più di essi.
 Il tono umoristico non viene meno neppure nei passi in cui il discorso assume una piega in qualche modo macabra: quando si parla di bagnanti divorati dagli squali, ad esempio, o quando, trattando del proprio ingresso nella mezza età, preludio della vecchiaia, l'autore confessa di sentir incombere sopra di sé l'ombra della morte; noi ridiamo perché il tono è vivace e scanzonato, ma in filigrana continuiamo a percepire un timore affilatissimo, che torna a galla anche quando lo si sommerge con la propria vitalità.
 Le prose migliori, a mio parere sono quella intitolata Sorry, sulle cattiverie reciproche che ci si scambia fra famigliari, e Perché non ridi?, dove al termine di un lunghissimo e divagante percorso narrativo si arriva a raccontare - come detto - dell'alcolismo della madre. Ma il livello della scrittura è sempre alto, così come il tono è sempre assai brillante.

Voto: 7