lunedì 18 novembre 2019

Viola Ardone, "Il treno dei bambini", Einaudi


 Napoli, 1946. Nella città lasciata dalla guerra in condizioni drammatiche, con gran parte della popolazione che lotta per non sprofondare nella miseria più nera, il Partito Comunista - mostrando l'incisiva capacità di intervenire sul disagio sociale che possedeva nel secondo dopoguerra - organizza una grandiosa iniziativa di contrasto alla povertà infantile: ai bambini che vivono nei quartieri dove la situazione è più penosa viene data l'opportunità di trasferirsi per alcuni mesi in Emilia Romagna, dove vi sono famiglie vicine al Partito disposte ad accoglierli, ad ospitarli e ad accudirli.
 In questo modo, i genitori dei piccoli, con una bocca in meno da sfamare, potranno trovare il modo di fare fronte meglio alle difficoltà quotidiane, mentre i bambini per qualche tempo potranno stare al caldo, nutrirsi come si deve e ricevere un'istruzione migliore. I giovani beneficiari dell'imponente operazione partiranno da Napoli prima dell'arrivo dell'inverno su un lungo convoglio, presto ribattezzato "il treno dei bambini".
 A questa avventura si trova a partecipare anche Amerigo Speranza. Amerigo ha otto anni, e vive con la mamma Antonietta in uno dei tipici "bassi" napoletani, caldi d'estate e freddi d'inverno; un padre non l'ha mai avuto (la madre gli ha raccontato che il marito è partito tempo prima per l'America e che un giorno tornerà, ma forse si tratta solo una pietosa bugia) e suo fratello Luigi è morto prima che lui nascesse.
 Antonietta, che non sa leggere né scrivere, sbarca a fatica il lunario grazie a piccoli lavori di cucito e facendo da basista per un losco individuo che traffica nella borsa nera e che forse è anche il suo amante. Amerigo, dopo aver abbandonato la scuola - dove non imparava nulla e veniva maltrattato dagli insegnanti - la aiuta raccogliendo pezze usate per uno straccivendolo insieme al suo amico Tommasino, e talvolta si ingegna con piccole truffe per arrotondare l'esile bilancio familiare (come quando ha colorato il pelo grigio di alcuni grossi topi prima di venderli alle signore borghesi che frequentano il mercato settimanale facendoli passare per criceti).
 Antonietta, in verità, esita non poco di fronte alla prospettiva di separarsi da Amerigo, anche se il mantenimento del figlio è fonte per lei di continue preoccupazioni. In più la Pachiochia, fascista (o meglio, "monarchica") dichiarata e "opinion leader" del vicolo in cui Antonietta e Amerigo vivono, sostiene che i bambini, in realtà, verranno spediti in Russia e fatti lavorare come schiavi, o peggio.
 Solo la determinazione e la dolcezza di Maddalena Criscuolo, giovane militante comunista, riusciranno infine a vincere le residue resistenze della madre e a convincerla a lasciar partire il figlio per il suo bene.

 Viola Ardone

 Ma davvero la trasferta nel Nord Italia è destinata a fare del bene al bambino? L'esperienza di Amerigo in un villaggio vicino a Modena, da esule costretto a vivere della carità dei suoi ospiti, non sarà facile; certo i Benvenuti - la signora Derna con la sorella Rosa, il marito di quest'ultima Alcide e i loro tre figli (curiosamente chiamati, con fantasia tipicamente emiliana, Rivo, Luzio e Nario) - riusciranno a farlo sentire come a casa. Non solo: in Emilia, nel laboratorio da liutaio di Alcide, Amerigo scoprirà di avere un particolare talento e una innata passione per la musica; comincerà così a studiare il violino, e questo darà un indirizzo inatteso a tutta la sua vita.
 E tuttavia, al momento del ritorno casa, Amerigo sarà costretto a fare i conti con il disincanto di chi ha conosciuto un'altra realtà rispetto alla propria: di nuovo a contatto con la miseria del vicolo, con la ristrettezza di vedute di mamma Antonietta, con la tirannia delle necessità quotidiane, comincerà a rimpiangere i Benvenuti, le mattinate a scuola, l'affetto di Derna, le lezioni di violino. E quando la sua angoscia diverrà davvero intollerabile - dopo la vendita da parte di Antonietta del violino che Alcide gli aveva regalato -, pur con la morte del cuore, il bambino fuggirà, allontanandosi di nuovo dalla madre su un treno diretto a Nord: Amerigo, così, diventerà padrone della sua vita, sacrificando però per sempre il rapporto magico ed esclusivo che nell'infanzia lo aveva legato alla mamma.
 Il libro è bello e nasce da uno spunto piuttosto originale, anche se - ed è un peccato - a mio parere soffre di uno squilibrio di fondo: infatti, mentre le prime tre parti paiono molto coinvolgenti e stilisticamente efficaci, e presentano una scrittura "impura" che, con i suoi solecismi, incorpora alla perfezione il punto di vista del piccolo protagonista, la quarta parte, in cui un Amerigo adulto, diventato un violinista di successo, torna a Napoli nel 1994 per partecipare al funerale della madre Antonietta improvvisamente venuta a mancare, sembra un pezzo di un altro libro, meno fresco, meno genuino, meno riuscito.
 L'impressione che ho ricavato dalla lettura dell'ultima sezione, così, è simile a quella che mi dà la visione della parte finale di un film peraltro gradevole come Nuovo cinema Paradiso ogni volta che mi capita di imbattermi in esso: qualcosa di ridondante, didascalico e insopportabilmente melenso, anche se per certi versi utile al "compimento" della storia. E' come se il cambio di registro richiesto dalla trama non fosse nelle corde là del regista Giuseppe Tornatore, qui della scrittrice Viola Ardone.
 Detto ciò, Il treno dei bambini rimane uno dei romanzi più interessanti pubblicati in Italia negli ultimi mesi: la vicenda raccontata è appassionante, l'avventura del protagonista riesce ad accendere l'immaginazione, l'immersione in un'Italia martoriata, ma più semplice, più autentica e più capace di solidarietà di quella di oggi è come una boccata d'aria fresca.
 Insomma, vale dunque senza dubbio la pena di dedicarsi a questo libro che, utilizzando con grande naturalezza e senza eccessiva affettazione la chiave narrativa, porta all'attenzione del pubblico un episodio della nostra Storia piccolo ma significativo e glorioso, e a molti ancora sconosciuto.

Voto: 7

venerdì 8 novembre 2019

Stendhal, "Il rosso e il nero", Garzanti


 Negli ultimi tempi ho deciso di tornare su alcuni dei grandi classici della nostra civiltà letteraria, che una volta facevano parte del bagaglio delle letture "obbligatorie" per qualsiasi persona di media cultura, mentre oggi, sebbene li si continui a citare con frequenza e si riconosca teoricamente il loro valore, per una ragione o per l'altra sono poco frequentati e in concreto poco conosciuti anche dai lettori abituali.
 Oggi prendo in considerazione uno dei migliori romanzi mai scritti: Le rouge et le noir di Stendhal.
 Pare superfluo ricapitolare la vasta trama del libro; basti dire che del protagonista unico Julien Sorel - prototipo del giovane brillante ma dagli scarsi mezzi che cerca di ritagliarsi un proprio spazio nella Francia della Restaurazione - vengono focalizzati, sviluppati e analizzati i diversi aspetti del carattere in differenti fasi della sua evoluzione al cospetto di varie situazioni: Julien, così, viene via via rappresentato come ragazzo timido e amante della lettura e del latino, e per questo disprezzato dal padre - rozzo proprietario di una segheria a Verrières - e dai fratelli; come scrupoloso precettore dei figli del Sindaco della sua graziosa cittadina nella Franca Contea; come amante appassionato di madame de Renal, la moglie del Sindaco; come guardingo seminarista a Besançon - dopo la fuga conseguente alla scoperta della sua tresca con madame de Renal -, attirato dal prestigio e dalle ricche prebende che gli garantirebbe la carriera ecclesiastica; come segretario particolare del marchese de la Mole, assunto grazie all'intercessione del giansenista direttore del seminario; come abile diplomatico incaricato di una delicata missione oltremanica; come cinico seduttore di Mathilde, la graziosa figlia del marchese - promessa sposa di un duca -, presto incinta del giovane dipendente del padre; come vendicativo difensore della propria dignità offesa, dopo essere stato calunniato da madame de Renal, gelosa della sua relazione con Mathilde; come imputato in un processo clamoroso, in seguito al ferimento della sua ex amante; come condannato a morte - a causa della grettezza dei suoi nemici - capace di affrontare impavidamente il patibolo, al pari di un eroe dei tempi antichi.

 Stendhal

 Tante sono le ragioni per le quali il libro si può considerare ancora oggi esemplare. Secondo me le principali sono tre. La prima è quella che potremmo chiamare la "naturalezza" del tono di Stendhal, vale a dire l'affabilità con la quale vengono raccontati gli accadimenti e riportati i pensieri dei personaggi, e - nello stesso tempo - la disinvoltura con cui, talvolta, si esce dal meccanismo della finzione narrativa per dichiararne a chiare lettere i presupposti teorici: Stendhal vede il suo romanzo come una sorta di specchio fedele della realtà, capace di riprodurne gli aspetti sublimi così come la sordidezza, rifuggendo consapevolmente da ogni manierismo; un'idea forse un po' ingenua, ma chiara e indubbiamente potente.
 La seconda è la capacità di sfuggire alla logica del romanzo a tesi, tanto nella costruzione dei personaggi (e in particolare del protagonista, Julien Sorel) quanto nello sviluppo della trama: lo scrittore francese esce dalla trappola della stabilità tipologica dei caratteri che affligge tanti romanzieri, evita ogni eccessivo schematismo e, in generale, non teme la contraddizione. L'effetto realistico che ne deriva è a tratti addirittura sorprendente.
 La terza è la scelta di non prescindere mai dal contesto socio politico in cui le vicende raccontate sono immerse, da cui sono ovviamente influenzate o da cui perfino dipendono: infatti, non si capirebbero molte delle scelte di Julien Sorel se si trascurasse il mondo in cui vive e agisce.
 Sono tutti elementi all'apparenza semplici; ma in quanti testi si possono dire davvero realizzati? In fondo la cristallina linearità è una degli obiettivi più difficili da perseguire per un romanziere.

Voto: 10