lunedì 30 dicembre 2019

Olga Tokarczuk, "I vagabondi", Bompiani


 Questo libro della scrittrice polacca a cui è stato recentemente assegnato il premio Nobel per la Letteratura è uno strano oggetto: non lo si può considerare un romanzo, pur essendo percorso da una cospicua vena narrativa; assomiglia piuttosto a un trattato o a un manifesto, anche se è troppo asistematico per appartenere alla prima categoria e troppo svagato per rientrare nella seconda.
 Vi si analizza la dimensione del viaggio, con un approccio che talvolta è dichiaratamente autobiografico, talvolta sistematicamente filosofico, talaltra suggestivamente metaforico, talaltra ancora distesamente diegetico. Il concetto di viaggio ora implode in se stesso, ora esplode fino ad assorbire temi ed esperienze in apparenza appartenenti ad altri ambiti del sapere e dell'agire umano.
 Troppo facile, persino banale e in fondo impreciso sarebbe dire che il presupposto da cui la Tokarczuk parte è che la vita umana è un viaggio. Più giusto affermare che ferma convinzione dell'autrice è che l'uomo stesso sia un viaggio; anzi, una serie di viaggi sprofondati uno dentro l'altro, capaci di rimandare continuamente uno all'altro come in un infinito gioco di specchi che implica diversi livelli di consapevolezza e, addirittura, di "consistenza ontologica": un individuo può viaggiare nello spazio o nel tempo, può viaggiare fuori dalla propria coscienza o dentro di essa, può trasformare in un viaggio ciascuna interpretazione di ogni singolo aspetto della realtà o farsi trasportare come dentro una nave corazzata dalle più viete consuetudini del gruppo a cui appartiene.
 Possiamo viaggiare grazie alla nostra fantasia e a quella di chi ci sta vicino, con il nostro corpo o dentro di esso; il corpo, infatti, è la condizione fondamentale del viaggio, il suo limite (le restrizioni al movimento poste dai confini nazionali alle migrazioni riguardano specificamente i corpi delle persone) e, nella sua inevitabile provvisorietà, anche il suo fine (mai come quando siamo in movimento noi "diventiamo" in tutto e per tutto il nostro corpo).
 La meta di ogni viaggio, inoltre, è sempre qualcosa di parziale o perfino di ingannevole: dato che non si arriva mai dove si credeva di arrivare nel modo in cui si credeva di arrivare, il vagabondaggio è parte di ogni viaggio.
 Il caleidoscopio fenomenico che deriva da tutti questi assunti si traduce in una serie di aneddoti e di racconti diversissimi, che si riversano gli uni dentro gli altri - o lasciano posto gli uni agli altri - attraverso una serie di associazioni che, a tutta prima, sembrano assai peregrine, e solo a posteriori acquistano un senso. 

Olga Tokarczuk

 Si può così passare dalla descrizione di un treno carico di commessi viaggiatori alla storia di un uomo che, durante una vacanza in Grecia, vive la traumatica esperienza dell'improvvisa e inspiegabile scomparsa della moglie e del figlio; si va da una conferenza tenuta da alcuni specialisti in aeroporto sulla psicologia del viaggiatore al racconto di una donna ormai cinquantenne che dopo trent'anni ritorna in Polonia - abbandonata insieme ai genitori ai tempi del comunismo - solo per somministrare l'eutanasia al suo fidanzato di un tempo, mai più rivisto da allora.
 Ci si focalizza ora sulla vita di Philip Verheyen, anatomista allievo del celebre Frederik Ruysch, che vide nascere la sua vocazione nel momento in cui gli amputarono una gamba, ora sulla rappresentazione del sacchetto di plastica come una nuova specie vivente capace di colonizzare tutta la terra; ora sui viaggi in Europa dello zar Pietro il Grande, desideroso di apprendere quanto gli sarebbe servito per modernizzare il suo Paese, ora sulla capacità di un vecchio professore ormai prossimo alla fine di ritrovare forza e ispirazione per immergersi nella grecità classica oggetto dei suoi studi di una vita, ricreando in maniera geniale, a beneficio del suo uditorio, l'atmosfera di quel mondo scomparso.
 La supplica  all'imperatore d'Austria di Josephine von Feuchtersleben, figlia dell'unico consigliere di colore di Giuseppe II - imbalsamato dopo la morte per allestire insieme ad altre curiosità una Wunderkammer per il diletto dei frequentatori della corte - affinché il padre possa ricevere cristiana sepoltura, viene collegata alla consuetudine Maori di imbalsamare e conservare le teste dei membri della famiglia deceduti; la tentazione del dottor Blau, anatomopatologo, di concedersi all'anziana vedova di un suo prestigioso concorrente da poco scomparso nella speranza di sfruttarne le ricerche per ottenerne vantaggi accademici viene associata al viaggio in aereo di un gruppo di gonfi europei di mezza età verso un paradiso caraibico per comprare favori sessuali che sarebbe impensabile avere altrove. 
 Il testo, nel suo insieme è senz'altro molto originale e degno del massimo interesse; certo il lettore, anche quando trova belli e significativi i singoli racconti, può essere disorientato dalla logica con la quale il libro è costruito, e trovare artificiosamente e inutilmente complesse, per quanto suggestive, determinate correlazioni.

Voto: 6,5

giovedì 26 dicembre 2019

Israel Joshua Singer, "La famiglia Karnowski", Adelphi


 La famiglia Karnowski è uno di quei libri il cui potere di fascinazione deriva dalla straordinaria capacità di creare un mondo, di arredarlo in tutti i particolari, di trasportarvi il lettore e di dargli la sensazione di essere, in prima persona, testimone di tutto quanto vi viene rappresentato.
 Il romanzo, scritto in yiddish, uscito negli Stati Uniti nel 1943 e pubblicato per la prima volta in traduzione italiana pochi anni fa, ha il respiro di un classico d'altri tempi: si presenta infatti come una grandiosa saga familiare che, raccontando le vicende di tre generazioni diverse di una famiglia ebraica di origine polacca, scandaglia una porzione importante di quella che gli specialisti chiamano Storia contemporanea, tra la fine dell'Ottocento e gli anni trenta del Novecento.
 La narrazione è, per l'appunto, divisa in tre parti: la prima si sviluppa sotto il segno di David Karnowski, commerciante di legname polacco elevatosi con lo studio al rango di intellettuale. Seguace di Moses Mendelsson, interprete della tradizione ebraica di matrice illuminista, David - stabilitosi a Melnitz insieme alla moglie Lia - entra presto in contrasto con i notabili del suo shtetl di appartenenza per via del loro approccio oscurantista alle cose della religione. Trasferitosi quindi a Berlino, adotta immediatamente un atteggiamento modernamente laico, decidendo di essere ebreo nella propria casa, tedesco nella vita pubblica: impadronitosi velocemente della nuova lingua, riesce a integrarsi alla perfezione nell'eclettica classe dirigente della sua nuova città, diventandone un membro di riconosciuto prestigio.
 La seconda parte del libro gravita attorno a Georg Karnowski, figlio maggiore di David e Lia, cresciuto all'insegna dei valori del padre e, tuttavia, poco incline a seguire il solco per lui tracciato da genitori che finiscono per apparire troppo metodici, disciplinati e tradizionalisti per la sua indole ribelle e la sua esuberante personalità. 
 L'estraneità di Georg nei confronti del mondo ebraico appare subito molto marcata; la sua inquietudine esistenziale si traduce in una carriera scolastica quantomai tormentata, che non gli impedisce, dopo aver incontrato casualmente il dottor Landau - comunista e al servizio dei poveri di un quartiere operaio - e sua figlia Elsa, di intraprendere la carriera di medico.   

Israel Joshua Singer

 Affinata la sua abilità di chirurgo al fronte, in occasione del terribile bagno di sangue della Prima guerra mondiale, Georg si trasforma nel dopoguerra in un ginecologo fra i più ricercati, arrivando a possedere una sua rinomatissima clinica. Non riesce però a coronare con le nozze il suo amore per Elsa Landau, completamente assorbita dalla militanza politica nelle file della sinistra, e si unisce in matrimonio a Teresa Holbeck, tedesca "di sangue ariano", il cui scioperato fratello Hugo, reduce di guerra, compendia tutto l'egoismo, la dabbenaggine, l'incultura e la grettezza della piccola borghesia colpita dalla sconfitta nella Grande Guerra, impoverita dalla crisi economica e pronta a gettarsi nelle braccia del nascente nazionalsocialismo.
 La terza parte del romanzo è focalizzata sulla figura di Jegor Karnowski, figlio di Georg e Teresa, la cui fragilità caratteriale viene esasperata proprio nel corso della delicata fase dell'adolescenza dalle indicibili umiliazioni che, a scuola, è costretto a sopportare dal momento dell'avvento al potere degli "uomini con gli stivali": i nazisti di Adolf Hitler. 
 Del resto, tutti gli ebrei subiscono le conseguenze delle leggi razziali; i Karnowski, più fortunati di altri nella tragedia, riescono a trovare il modo di lasciare la Germania prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell'avvio della "soluzione finale", emigrando negli Stati Uniti.
 Ciò nonostante, la vita a New York non sarà facile per nessuno di loro: David, riscoperta l'importanza della religione e dell'unità dei figli di Israele, si adatterà a fare da umile scaccino nella sinagoga da lui frequentata; Georg, impossibilitato a esercitare la professione medica nella nuova patria, dovrà tornare al mestiere di commesso viaggiatore dei suoi avi; Jegor, più spesato che mai, vagheggerà un impossibile ritorno in una Germania che lo rifiuta e, avendo interiorizzato gli assurdi pregiudizi dei nazisti, spingerà il disprezzo della parte ebraica di sé fino a un disperato tentativo di suicidio.
 Il libro non appare straordinariamente originale dal punto di vista tecnico, ma si presenta come un affresco ampio, articolato ed estremamente suggestivo dell'epopea degli ebrei della diaspora in Europa nei cinquant'anni che precedono la Seconda guerra mondiale. 
 Il suo principale punto di forza sta nella finissima caratterizzazione dei personaggi. Memorabili, infatti, risultano non solo i tre personaggi principali (David, Georg e Jegor Karnowski), ma anche molte altre figure che, a turno, occupano il centro della scena assurgendo al rango di coprotagonisti.
 Fra di loro spiccano senz'altro il dottor Landau (salutista e naturista, coriaceo e generoso, disposto a curare gratuitamente i suoi poveri clienti), Solomon Burack (il commerciante ebreo tutto battute e proverbi, fiero delle proprie tradizioni - e per questo in apertamente avverso allo snobismo di un David Karnowski - e dotato di una presenza di spirito che gli consente di affrontare con coraggio anche le peggiori situazioni) e il miserabile Hugo Holbeck (per mentalità e visione del mondo prototipo del nazista mediocre, vile, stolido e feroce).
 Tutti questi caratteri (e molti altri che qui è impossibile citare) subiscono nel corso del romanzo un'evoluzione che rende il loro profilo umano quantomai realistico, assolutamente credibile.
 Dal punto di vista della definizione degli ambienti e del tratteggio delle geometrie del racconto, invece, brillantissime risultano le prime due parti, un po' meno efficace l'ultima, afflitta dalla pretesa insistita di conferire un rilievo simbolico ad ambienti e situazioni. Un difetto però trascurabile al cospetto della consistenza della macchina narrativa nel suo complesso.

Voto: 7,5

mercoledì 18 dicembre 2019

Annie Ernaux, "L'evento", L'Orma


 Comunque la si pensi, quello dell'aborto è un tema che non si può affrontare con leggerezza. Esso implica infatti, da una parte, la questione del riconoscimento del diritto all'autodeterminazione della donna e della piena giurisdizione dell'essere femminile sul proprio corpo; dall'altra, il problema di una precisa definizione dell'essere umano: che cos'è un uomo? In quale momento un individuo appartenente alla nostra specie comincia a essere tale?
 C'è chi crede che un essere umano cominci nell'istante stesso del suo concepimento, e chi pensa che un feto diventi un uomo solo con la sua venuta al mondo, al momento del parto. C'è chi ritiene che l'embrione debba avere diritti perfettamente equivalenti a quelli di un uomo fatto, e che tali diritti facciano premio sulla facoltà della donna di decidere in assoluta autonomia dell'uso del proprio corpo; e chi - al contrario - reputa esclusiva ed inviolabile la libertà della donna di gestire da sola tutto quello che è pertinente alle funzioni del proprio essere femminile.
 In diversi Paesi, gli orientamenti giuridici in merito a tali questioni sono differenti, ma la legge - forse saggiamente, certo con un po' di vaghezza filosofica - tende sempre a imporre una soluzione che si pone tra questi due estremi.
 Personalmente sono convinto che un essere umano possa essere individuato dall'intreccio del suo corredo cromosomico e delle relazioni che stabilisce con i suoi simili nel corso dell'esistenza. Così, se il corredo cromosomico viene definito nell'istante stesso del concepimento, il principio della vita di relazione dell'individuo si può riconoscere nel frangente che vede l'annidamento dell'ovulo fecondato nell'utero materno.
 Basta questo per dire che è quello il momento in cui un essere umano ha inizio (e per trarne, dal punto di vista etico, conseguenze cogenti, come quella che vorrebbe lecita la cosiddetta "pillola del giorno dopo", che impedisce l'annidamento dell'ovulo fecondato, e illeciti altri mezzi abortivi)? Forse no, visto che il concetto stesso di vita di relazione è piuttosto complesso e fotografa una realtà che prende forma, si sviluppa e si consolida nel tempo.
 Inoltre la pretesa di stabilire ciò che è lecito e ciò che non lo è incrocia la questione ineludibile dell'autodeterminazione femminile: si può obbligare una donna a serbare dentro di sé suo malgrado un essere che la costringe a piegare il suo corpo alle proprie improcrastinabili esigenze?
 Al cospetto di questo groviglio quasi inestricabile di dilemmi irrisolti, i libri che trattano narrativamente il problema dell'aborto non possono che contemplare le questioni filosofiche senza indugiare su di esse, insistendo piuttosto sugli aspetto storici e sociologici di questo difficile tema; affidandosi magari alla capacità quasi magica del racconto di suggerire spesso verità che sanno andare oltre le tesi preconcette da cui esso prende le mosse.

Annie Ernaux

 Così è senz'altro per L'evento di Annie Ernaux, che rievoca l'esperienza sconvolgente dell'aborto clandestino con cui l'autrice, nel gennaio del 1964, quando era una studentessa universitaria di soli 23 anni, decise volontariamente di interrompere una gravidanza inattesa e indesiderata.
 L'aborto, allora, in Francia, era una pratica illegale; e tuttavia molte giovani vi ricorrevano, poiché fortissimo era lo stigma sociale per le sventurate che concepivano un figlio fuori dal matrimonio.
 Per di più, per Annie, dare seguito alla propria gravidanza avrebbe significato riconoscere la fondatezza di quei pregiudizi classisti che volevano le ragazze di estrazione popolare naturalmente inclini a "rovinarsi", e quindi accettare di essere ricacciata come in una prigione nel mondo piccolo borghese ed operaio dal quale proveniva, senza più possibilità di uscirne.
 Il testo si giova di un efficacissimo effetto di "presentificazione" degli avvenimenti del 1963-64: Annie accoglie la notizia della sua gravidanza con incredulità più che con sgomento, e all'incredulità fa seguito un curioso senso di inerzia che la ragazza fatica a scrollarsi di dosso. Del resto, nessuno di coloro che le sono intorno la aiuta minimamente a rendersi conto della sua condizione e a riflettere su di essa: confidarsi con i genitori è fuori discussione; le compagne a cui rivela il proprio segreto la guardano con indifferenza o commiserazione; i ragazzi la osservano con morbosa curiosità, come la protagonista di una storia piccante che si vuole sapere come andrà a finire.
 Il senso di abbandono di Annie è totale, e si combina con un torpore irreale. Solo quando il rischio di restare impigliata in una situazione ormai senza rimedio si fa concreto, la ragazza decide di agire: grazie a una conoscente che ha vissuto la propria medesima esperienza, la protagonista si rivolge a una "fabbricante d'angeli" di Parigi che, con un duplice intervento non privo di qualche complicazione, la libera del suo imbarazzante fardello.
 Il libro è bello perché la ricostruzione della temperie emotiva che definì il periodo compreso tra l'ottobre del 1963 e il gennaio del 1964 è estremamente coscienziosa.
 Dal punto di vista formale, vale forse la pena di notare un elemento significativo. In tutti i libri della Ernaux si fa ampio uso di parentesi che racchiudono i pensieri riferibili a un livello di coscienza più profondo rispetto a quello che asseconda il flusso narrativo, quasi a un piano meta-narrativo e meta-normativo (capace di andare oltre i punti fermi del buon senso, del senso comune e, addirittura, della perfetta coerenza logico-razionale). Ebbene, le caratteristiche parentesi della Ernaux non sono mai state numerose come in questo testo: segno probabilmente che l'autrice si ritrova a maneggiare una materia ancora incandescente, con aspetti di cui è difficile parlare e che è persino difficile affrontare.
 Tocca al lettore - se ne ha la forza - varcare il confine filosofico in prossimità del quale la Ernaux si ferma, decidendo di riversare nel fedele racconto degli avvenimenti e degli stati d'animo di allora tutta la propria onestà intellettuale.
 Una scelta, questa, che pone il testo della scrittrice francese molte spanne sopra quell'insopportabile esercizio di retorica che è la "Lettera a un bambino mai nato" di Oriana Fallaci, l'opera che forse per prima ha affrontato narrativamente in Italia la questione dell'aborto.

Voto: 7