domenica 27 dicembre 2020

Louise Glück, "L'iris selvatico", il Saggiatore


 The Wild Iris, pubblicato per la prima volta nel 1992, è forse il libro più famoso di Louise Glück. I motivi principali dei consensi riscossi da questa raccolta sono la notevole potenza espressiva dei singoli componimenti e la perfetta integrazione dei diversi livelli di lettura possibili delle poesie ivi contenute: quello lirico-simbolico, quello narrativo-biografico, quello esistenziale-teologico.
 Il sottotesto culturale dal quale nasce l'idea del libro è l'antefatto allegorico che il pensiero ebraico-cristiano pone come premessa per eccellenza dell'attuale condizione umana, cioè il peccato originale, con la conseguenza della cacciata dal paradiso terrestre. 
 Dal momento della Caduta, ogni tentativo di ricostituire la mitica, originaria armonia senza ombre che regnava nel giardino dell'Eden sembra destinato a sfociare nella frustrazione e in un continuo attrito, in una faticosa dialettica tra la scintilla divina che è in noi e la nostra problematica sostanza di esseri senzienti e cogitanti; questo vale sia per il tentativo di ricreare sulla terra un ambiente adatto all'uomo quanto quello a cui era inizialmente destinato - e in cui egli possa sentirsi veramente a casa -, sia per la pretesa di stabilire fra l'uomo e la donna una comunione in tutto e per tutto duratura e appagante, sia per il bisogno di intrecciare con Dio il colloquio interrotto, facendo breccia nel suo ostinato silenzio e ricevendone le risposte a cui aneliamo. 
 Il giardino adiacente all'abitazione della poetessa nel Vermont, alla cui cura ella si dedica amorevolmente e tenacemente, oltre ad essere un luogo reale, diventa così metafora dei diversi aspetti di tale agonistico corpo a corpo con i limiti della nostra condizione: nella piantumazione del giardino si sperimenta la fatica di piegare la natura ai nostri desideri e la difficoltà di ottenere la bellezza alla quale aspiriamo; nella mutua collaborazione alla coltivazione del giardino, l'uomo e la donna toccano con mano il logorio al quale il tempo espone il loro rapporto, nonostante la loro buona volontà e l'amore che li unisce (e Louise in effetti si separò da suo marito John); nella contemplazione del giardino si può constatare l'illusorietà della pretesa che Dio ci sia prossimo o che ci tratti come figli, e la sua sordità di fronte ai pensieri e alle preghiere che gli rivolgiamo.
 Il vero colpo di genio di Louise Glück è quello di far "parlare" i fiori che, facendosi carico della funzione dell'io lirico, diventano di volta in volta muti testimoni delle vicende degli uomini ("Fianco a fianco, non / mano nella mano: vi guardo / camminare nel giardino estivo - le cose / che non si muovono / imparano a vedere; non mi occorre / inseguirvi attraverso / il giardino; gli esseri umani lasciano / segni di sentimento / dovunque...", Il biancospino), emblemi della sofferenza, della limitatezza e delle contraddizioni umane ("Imprigionato nella terra, / non vorresti anche tu andare / in cielo? Io vivo / nel giardino di una signora. Perdonami signora; / la smania mi ha tolto la grazia...", Polemonio), replica - nel loro rivolgersi agli uomini - dell'anelito, dei dubbi, dei sensi di colpa che gli uomini nutrono nei confronti dell'idea di Dio ("Qual è stato il mio delitto in un'altra vita, / come in questa vita il mio delitto / è il dolore, che non mi sarà / permesso di salire mai più, / mai in alcun senso / permesso di ripetere la mia vita...", Ipomea; "Quel che è disperso / fra noi, che chiamate / segno di beatitudine / anche se è, come noi, / un'erba selvatica, da sradicare...", Trifoglio).
 
Louise Glück
 
 Ai componimenti in cui parlano i fiori si alternano quelli in cui la voce della poetessa si esprime direttamente (assumendo talora un tono personale, talora un tono "universale") - spesso rivolgendosi a Dio - e quelli, ancora più significativi, in cui prende la parola Dio Padre in persona. 
 Nei primi si manifestano lo sgomento, la disperazione, le allucinazioni o la rassegnazione dell'essere umano ("Proprio come apparisti a Mosè, poiché / ho bisogno di te, mi appari, non / spesso però. Vivo essenzialmente / all'oscuro..."; "La tua voce ora è sparita; quasi non ti sento. / La tua voce stellare ora tutta ombra / e la terra di nuovo oscura..." "...perché / cominciare qualcosa / tanto vicini alla fine? / Pomodori che non matureranno mai, gigli / che l'inverno ucciderà, che non / torneranno in primavera..."); negli altri Dio appare solo per scostare l'uomo da sè, per schermirsi, per manifestare la propria aridità, la propria scontentezza, il proprio pentimento per aver creato l'uomo e il mondo ("Non siete stati pensati / per essere unici. Eravate / mia incarnazione, tutti diversi // non quel che pensate di vedere / scrutando il cielo chiaro sopra il campo"; "Mie povere ispirate / creazioni, siete / fastidi, in fondo / mera limitazione..."; "Se quel che temete nella morte / è una pena maggiore di questa, non avete / da temere la morte: // quante volte devo distruggere la mia creazione / per insegnarvi / che questa è la vostra punizione...").
 Prende forma così una sorta di confronto serrato in cui Dio e l'uomo si cercano, si attraggono, si respingono e, nello stesso tempo, Dio sembra a tratti rifiutare la propria essenza, riducendosi, dal rango di Padre Onnipotente, a quello di entità superiore ma "altra", di interlocutore estraneo, ramingo, imperfetto e capriccioso; mentre l'uomo perde a sua volta le proprie prerogative di essere plasmato a immagine e somiglianza di Dio, culmine e scopo dell'opera divina, figlio prediletto del Padre Celeste, per ridursi a creatura priva di qualsiasi speciale attributo, misera, provvisoria e destinata all'estinzione.
 La domanda essenziale che pare prendere forma è: il nostro modo di esistere è forse lo stesso, inebriante ma effimero, dei fiori di campo?
 Per questo la poesia più significativa dell'intera raccolta, per me, è proprio quella intitolata Field Flowers (Fiori di campo):

What are you saying? That you want
eternal life? Are your thoughts really
as compelling as all that? Certainly
you don'y look at us, don't listen to us,
on your skin
stain of sun, dust
of yellow buttercups; I'm talking
to you, you staring through
bars of high grass shaking
your little rattle - O
the soul! the soul! Is it enough
only to look inward? Contempt
for humanity is one thing, but why
disdain the expansive
field, your gaze rising over the clear heads
of the wild buttercups into what? Your poor
idea of heaven: absence
of change. Better then earth? How
would you know, who are neither
here nor there, standing in our midst?

(Cosa stai dicendo? che vuoi / vita eterna? I tuoi pensieri sono / davvero tanto importanti? Certo / non ci guardi, non ci ascolti, / sulla tua pelle / macchie di sole, polvere / di ranuncoli gialli: sto parlando / a te, te che fissi fra / sbarre di erbe alte scuotendo / il tuo sonaglietto - Oh / l'anima! l'anima! E' abbastanza / solo guardare dentro? Disprezzo / dell'umanità è una cosa, ma perché / disprezzare il campo / espanso, il tuo sguardo alzandosi sopra le teste chiare / dei ranuncoli selvatici verso cosa? La tua povera / idea del cielo: assenza / di mutamento. Meglio della terra? Come / puoi saperlo, tu che non sei né / qui né lì, fermo in mezzo a noi?).
 
In poche parole: in quello che è il suo libro più famoso, Louise Glück traspone metaforicamente in un giardino reale il dramma della condizione dell'uomo, che si affanna nel vano tentativo di ricostruire sulla terra un'armonia per la quale egli crede di essere stato creato in un'altra dimensione da un Dio che - forse per sua colpa - lo ha poi ripudiato. Ma non vi è un'armonia duratura possibile in questo mondo, né fra l'uomo e la natura, né fra l'uomo e la donna, né fra l'uomo e la sfuggente idea di Dio. Il dubbio teologico che sorge allora è: al di là del dilemma dell'effettiva esistenza di Dio e della nostra isterica pretesa di eternità, non potrebbe essere che la vita a cui siamo destinati sia quella inebriante ma effimera dei fiori di campo? A suggerirlo, insinuandosi nel rude corpo a corpo fra l'uomo e Dio, paiono essere i fiori stessi, che prendono la parola per dire la loro. 

Voto: 8