domenica 5 gennaio 2020

Filippo Valoti Alebardi, "Vite siberiane", Rizzoli


 Vite siberiane è il reportage di un viaggio (anzi, di una serie di viaggi) in terre estreme, quali senz'altro sono le vaste regioni che per migliaia di chilometri si estendono nell'entroterra di Magadan, la città portuale affacciata sul mare di Ochotsk che, in epoca staliniana - e, ancora prima, in epoca zarista -, costituiva il punto di approdo per i bastimenti che trasportavano i prigionieri condannati dal regime ai lavori forzati nei campi siberiani della Kolyma. 
 Territori oggi semi-disabitati a causa delle proibitive condizioni climatiche (durante il lunghissimo inverno le temperature possono scendere sotto i 60 C° sotto lo zero, mentre nel corso della breve, torrida estate raggiungono anche i +40 C°), ma ai tempi dell'URSS assai più popolati: vi vivevano infatti tanto i reduci dei campi di prigionia rimasti in Siberia anche dopo la fine delle purghe staliniane, quanto i lavoratori delle compagnie minerarie che tentavano di sfruttare, a beneficio dello Stato, i ricchi giacimenti d'oro e di altri metalli presenti nel sottosuolo. Si tenga conto che sullo sfruttamento delle miniere siberiane le autorità contavano per il sostentamento dell'intera macchina amministrativa sovietica.
 Alebardi, che è nato e cresciuto a Mosca, figlio di una donna russa e di un imprenditore bergamasco, si reca nella Kolyma in tre diversi momenti: prima come inviato dell'agenzia TASS; poi come guida e interprete degli alpinisti Simone Moro e Tamara Lunger, venuti in Siberia per scalare il Pik Pobeda; infine come giornalista free lance, ormai stregato dal fascino particolarissimo di questi luoghi gelidi, impervi e selvaggi.
 Oggetto della sua curiosità sono di volta in volta: gli autotrasportatori che d'inverno percorrono con i loro giganteschi camion le rotte degli zimnik, i fiumi ghiacciati che si trasformano nelle strade più veloci per raggiungere i villaggi minerari del nord, perfettamente piane ma non prive di terribili insidie.
 I pastori di renne, che passano lunghi, gelidi e solitari mesi nelle loro tende, conducendo gli animali sulle alture rocciose che il vento ha sgomberato dalla neve, e dove crescono i gialli licheni di cui le greggi si nutrono.
 I tecnici di una stazione meteorologica, che da anni, insieme alle loro famiglie, vivono isolati in suggestive abitazioni di legno lontane centinaia di chilometri dal villaggio più vicino.
 Ivan Panikarov, un ex idraulico di Jagodnoe (l'ex centro amministrativo dei lager staliniani) trasformatosi in uno storico della dimensione del Gulag siberiano, ricostruita in un rustico museo allestito con oggetti e documenti di quell'infausta esperienza.

L'orizzonte siberiano da cui si alzano le caratteristiche nuvole arancioni dovute alle esplosioni con cui i cercatori d'oro sbriciolano il terreno gelato

 Neksikan, un centro urbano che fino a un paio di decenni fa contava più di cinquemila abitanti e che, in seguito, le compagnie minerarie hanno raso al suolo per setacciare il terreno ricco d'oro che giaceva al di sotto delle abitazioni, e dove oggi è rimasto un solo, nostalgico cittadino. Costui, con la scusa della manutenzione della sottostazione elettrica che sorge fra le rovine del vecchio comune, è diventato il custode dei ricordi di tutti coloro che se ne sono andati.
 La vita solitaria di un "predatore", ovvero un cercatore d'oro clandestino privo di un braccio, che ha eletto a sua dimora un villaggio minerario abbandonato, e vive pericolosamente cercando di aggirare i controllo delle autorità e degli emissari delle grandi compagnie detentrici dei diritti di estrazione dei metalli.
 Nella loro elementare concezione, libri così a me sono sempre piaciuti, perché proiettano in un mondo totalmente alieno alle gabbie della vita borghese; eppure Vite siberiane non sarebbe più originale di tanti altri (e quindi non risulterebbe particolarmente interessante) se non fosse per due ragioni: la prima è che l'irresistibile attrazione che Alebardi prova per questi territori immensi e semideserti, in cui è tanto arduo vivere, è alimentata da un desiderio di fuga da Mosca, dal bisogno di cercare una Russia capace di sottrarsi al giogo putiniano, così evidente nella capitale e così simile a quello che schiacciò il Paese negli anni peggiori del realismo socialista.
 La seconda è che l'autore arriva a rendersi conto che neppure in quelle terre remote è possibile astrarsi del tutto dalle brutture e dai conflitti del presente e dissipare definitivamente le ombre del passato: Ivan Panikarov, l'ex idraulico che ha creato il museo dedicato alla memoria dei lager della Kolyma, nonostante abbia conosciuto personalmente alcuni ex prigionieri e abbia constatato l'ingiustizia di cui sono stati vittime, nonostante abbia raccolto documenti che certificano la disumanità e la brutalità delle purghe staliniane, arriva a giustificare la creazione del sistema Gulag perché allestire un esercito di prigionieri-schiavi costretti a lavorare in condizioni impossibili era forse l'unico modo di sfruttare le risorse siberiane a beneficio della potenza dell'Unione Sovietica e del benessere della maggioranza dei suoi cittadini. Non solo: Sasha, uno dei migliori amici di Vladimir Kuklin, "l'ultimo dei neksikani", mostra con orgoglio all'autore una foto del figlio poliziotto impegnato, manganello alla mano e in assetto antisommossa, a disperdere i pacifici manifestanti di un corteo contro l'autoritarismo di Putin a Mosca.
 La lezione che da tutto questo deriva è che l'impegno di coltivare dentro di sé i valori della libertà, della civiltà e della solidarietà e di lottare per essi non può mai venire meno, perché non c'è luogo della terra nel quale sia possibile lasciarsi alle spalle le proprie responsabilità di uomini probi.

Voto: 6   

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