domenica 12 gennaio 2020

Luca Ricolfi, "Sinistra e popolo", Longanesi


 Questo saggio (dono di un amico di idee politiche opposte alle mie), pubblicato un paio di anni fa dal sociologo torinese Ricolfi, ma più che mai attuale come tentativo di interpretazione delle tendenze politiche in atto, si presenta come una lettura critica del fenomeno (tipico dell'Europa e dei Paesi occidentali sviluppati) dell'emergere prepotente di forze politiche che cercano di svincolarsi dalle geometrie della tradizionale dialettica ideologica tra destra e sinistra e che - secondo me con eccessiva approssimazione -, pur nella loro diversità, vengono ricondotte tutte alla comoda etichetta del populismo.
 Il titolo, invero suggestivo, è un poco fuorviante: buona parte del libro è infatti dedicata alla ricostruzione delle origini filosofiche dell'attuale contrapposizione tra destra e sinistra in Italia e fuori dall'Italia, al giudizio sulla legittimità dei sottintesi concettuali che animano questa contrapposizione, ai motivi (indagati anche con metodi statistici) che spingono fette sempre più consistenti dell'elettorato nei Paesi occidentali a rivolgersi alle forze cosiddette populiste.
 Semplificando un po', per Ricolfi, il dibattito pubblico italiano sarebbe incatenato allo schema ideato da Norberto Bobbio nei primi anni novanta del Novecento, secondo il quale caratteristica essenziale della sinistra sarebbe lottare per l'uguaglianza, mentre caratteristica della destra sarebbe lottare in difesa delle disuguaglianze. Il valore della libertà, invece, non è in sé e per sé consustanziale né alla destra né alla sinistra, e può essere fatto proprio da ciascuno dei due schieramenti.
 Più raffinato dello schema di Bobbio, perché meno partigiano, secondo Ricolfi, sarebbe quello tripartito messo a punto dal pensatore liberale Friedrich von Hayek, che distingue socialisti, liberali e conservatori: i primi hanno nel proprio dna l'uguaglianza ma non la libertà; i secondi la libertà ma non l'uguaglianza; gli ultimi né la libertà né l'uguaglianza. In questo modo, la libertà diventa un motivo discriminante tra posizioni di destra e posizioni di sinistra, mentre i conservatori - che a questo punto possono appartenere tanto alla destra quanto alla sinistra - incarnano una tipologia antropologica a sé stante.
 Pare che la preoccupazione principale di Ricolfi sia quella di rigettare la visione asimmetricamente positiva di una sinistra capace di contemperare in sé i valori dell'uguaglianza e della libertà; nell'argomentazione che - sulla scorta di Hayek - egli costruisce, se la sinistra si richiama ai valori del socialismo, non può farsi portatrice di libertà, mentre se si appella alla libertà non è più sinistra, e dunque non può dirsi dalla parte del popolo.
 Questo gli dà modo di legittimare, senza addentrarsi in analisi socio-politiche troppo dettagliate, i partiti populisti come interpreti dei primari bisogni del "popolo": il bisogno del riconoscimento identitario (da qui la difesa delle tradizioni, quelle nazionali in primis) e quello della protezione (protezione al cospetto dell'insicurezza fisica, dovuta alla paura del terrorismo, e protezione al cospetto dell'insicurezza economica, dovuta alla globalizzazione e al persistere di una crisi che mina alle fondamenta il paradigma della crescita continua come presupposto alla possibilità di una redistribuzione della ricchezza dai ceti più abbienti a quelli meno abbienti).     
 Solo nella parte finale del libro, sulla scorta del portato della narrazione precedente, si passa all'analisi del presunto smarrimento, da parte della sinistra, della capacità di pensare e di parlare al popolo, dopo la "mutazione genetica" verificatasi all'interno dei partiti post-marxisti negli ultimi decenni (Ricolfi fa risalire l'origine di questa "mutazione" a un'epoca precedente il crollo del muro di Berlino: agli anni settanta del Novecento, vale a dire all'epoca che in Italia vide in Pci aderire al cosiddetto compromesso storico).
 In seguito a questa trasformazione, aprendosi all'economia di mercato e assumendo una mentalità "globalista", la sinistra, per Ricolfi, avrebbe avrebbe divorziato dai ceti "bassi" (che però non vengono mai definiti con una precisione anche solo accettabile) per riscoprire la propria base elettorale nei "ceti medi riflessivi". In questa prospettiva, l'attenzione alle sorti dei migranti costituirebbe soltanto una specie di "coperta di Linus" perfetta per permettere ai reduci delle lotte per il proletariato di sentirsi in qualche modo ancora vicini agli "ultimi"; e tuttavia, l'incisività e la concretezza delle generose battaglie di un tempo sarebbe completamente svanita, sostituita dalla molesta ossessione per il politicamente corretto

Luca Ricolfi

 Il libro è interessante e tocca parecchie questioni complesse; qui vorrei fare qualche osservazione distinguendo gli assunti di Ricolfi che hanno senz'altro fondamento da quelli che, secondo me, suscitano parecchie perplessità.
 Innanzitutto, è vero che il dibattito pubblico italiano è schiavo di eccessivi schematismi, e che gli atavici pregiudizi e l'eccessiva partigianeria che lo avvelenano non permettono di riconoscere il fondamento razionale di modi diversi di affrontare i problemi e la legittimità di scelte di militanza contrapposte. Lo spettro delle diverse posizioni ideologiche, d'altra parte, è più continuo e meno discreto di quanto normalmente si pensi, tanto che, tutto sommato, sia il modello di Bobbio, sia quello di Hayek - per quanto suggestivi nella loro semplicità - fotografano le differenze fra gli schieramenti opposti con eccessiva rigidità.
 Estremamente efficace mi sembra poi il riconoscimento e la definizione del bisogno di protezione per individuare una delle principali esigenze che attraversano l'elettorato (non solo quello "popolare", direi) e che faticano a trovare in tutti gli schieramenti politici risposte che non siano puramente demagogiche. La paura della povertà, il senso di insicurezza fisica, lo spaesamento al cospetto di un orizzonte socio-demografico in continua trasformazione potranno talvolta apparirci sentimenti ingenui o immotivati, ma creano un disagio concreto e meritano di essere presi seriamente in considerazione.
 Da ultimo, concordo sull'ottusa pervicacia con cui viene perseguito da tanti esponenti della sinistra il politicamente corretto, che fa il paio con la grettezza con cui tanti esponenti della destra non si peritano di riproporre gratuitamente pregiudizi stupidi e offensivi. Forse, da sinistra, sarebbe il caso di rilanciare piuttosto il nobile valore della tolleranza, e di rendersi conto che questo contempla la capacità di mettersi nei panni del proprio interlocutore, e di riconoscerne le buone intenzioni quando utilizza formule o espressioni che possiamo ritenere improprie, ma che non hanno alcun intento offensivo.
 Vi sono poi diversi aspetti della trattazione su cui non concordo per nulla con Ricolfi. In primo luogo, la sua definizione di "popolo" è estremamente superficiale: come si può parlare genericamente di ceti "bassi" (con cui il "popolo" coinciderebbe) e "alti" senza precisarne almeno collocazione geografica, consistenza socio-demografica, riferimenti culturali e valoriali, orizzonte professionale e patrimoniale? 
 Del resto, capisco questa difficoltà: viviamo tempi in cui i confini fra le diverse classi sociali sono diventati molto più labili di un tempo, in cui, per effetto della crisi economica, parte del ceto medio si è "proletarizzato" e in cui, il "classico" proletariato ha totalmente smarrito una specifica coscienza di classe facendo propri valori, cultura, aspirazioni un tempo caratteristici della piccola borghesia.
 Se si assumono queste nozioni, diventa difficile individuare nel "populismo" (peraltro sommariamente descritto) l'erede della sinistra di un tempo, come, con un semplicismo disarmante, pretende di fare Ricolfi. Si dovrebbe invece riconoscere che, sotto la maschera del "populismo" - e di quella ancora più ambigua del "sovranismo" - si nascondono le nuove destre, che sfruttano le inquietudini di larghi strati della popolazione (molto diffuse fra borghesi e "aspiranti borghesi") per proporre demagogicamente come nuove tendenze e brillanti risposte a problemi reali ingannevoli ricette vetero-nazionaliste.
 Ugualmente discutibili sono molti dei giudizi formulati da Ricolfi a proposito della sinistra. Se la vocazione della sinistra è solidaristica ed egualitaria non si può dire che sia stata fallimentare la scelta - operata da gran parte delle sinistre europee negli anni novanta - di sposare le opzioni dell'economia di mercato e della globalizzazione, visto che, come anche l'autore riconosce, la globalizzazione ha complessivamente diminuito il numero di poveri a livello mondiale (anche se probabilmente a sinistra molti ritengono - con ragione - che la globalizzazione avrebbe potuto essere governata diversamente). Allo stesso modo, non si può definire puramente pretestuosa l'attenzione delle sinistre nei confronti dei migranti, che il un mondo di interdipendenze sono molto più vicini a noi di quanto comunemente si creda, e - quando approdano in Occidente o quando cercano di approdare in Occidente - spesso incarnano realmente gli "ultimi", fra coloro che ci sono prossimi.
 Senza approfondire questi aspetti, alcune delle conclusioni a cui pretende di giungere Ricolfi mi sembrano davvero poco utili per capire le dinamiche della politica europea contemporanea. 

Voto: 6,5

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