domenica 29 agosto 2021

Antonio Pennacchi, "Fascio e martello", Laterza

 

 Per onorare la memoria di Antonio Pennacchi, recentemente scomparso, ho deciso di riprendere in mano uno dei suoi libri meno noti ma più significativi, che ho acquistato molti anni fa leggendone qua e là, nel corso del tempo, solo alcuni singoli passi tutte le volte che mi sono imbattuto in un tema o sono capitato in un luogo a cui il testo riserva uno specifico approfondimento, ma senza mai applicarmi ad esso sistematicamente. Non si tratta di un romanzo ma di un saggio, anzi di una raccolta di saggi (alcuni dei quali pubblicati in passato sulla rivista Limes) dedicati ai centri urbani fondati ex novo in epoca fascista, alle loro caratteristiche architettoniche, alla concezione urbanistica a cui rispondono, ai diversi scopi con cui sono stati creati, all'orientamento ideologico - non sempre univoco - ad essi sotteso. Si intitola (un po' provocatoriamente, come era costume di Pennacchi) Fascio e martello
 Il fascino del libro è accresciuto dal fatto che Pennacchi non parla solo da scrittore lucido e curioso, e da storico amatoriale teso a riscoprire (magari con qualche evidente parzialità) alcuni tratti del fascismo rivoluzionario "di sinistra", che la degenerazione autoritaria del movimento, l'opzione militarista, l'allenza col nazismo tedesco, le Leggi razziali e poi la conseguente, disastrosa scelta di entrare in guerra a fianco di Hitler hanno completamente obliterato; Pennacchi parla da tecnico, geometra per formazione e studioso di urbanistica. Questo rende le tesi che via via espone e argomenta ficcanti e particolarmente convincenti, le ricerche di cui comunica gli esiti originali e razionalmente fondate.
 Innanzitutto Pennacchi afferma che le "città del duce" non sono soltanto 12 (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Guidonia, Aprilia, Pomezia, Mussolinia, Fertilia, Carbonia, Arsia, Torviscosa, Pozzo Littorio) come sostiene la storiografia ufficiale: sono molte di più, soprattutto se si riconosce - come è giusto - la validità dell'assunto secondo cui si può definire città di fondazione qualsiasi insediamento umano nato dove prima insediamento non c'era, sulla base di una precisa volontà progettuale (cioè non come accampamento provvisorio, ma come centro strutturato con una serie di servizi pensati per rispondere stabilmente alle esigenze della vita associata di una comunità di persone). Tutto questo indipendentemente dalle dimensioni dell'insediamento, che può essere un borgo concepito per poche centinaia o poche migliaia di abitanti, o una città come Carbonia, creata per ospitare da subito 30mila anime.
 Sulla base di questi criteri, in Italia si possono individuare almeno 147 città di fondazione nate in epoca fascista (comprendendo anche Arsia e Pozzo Littorio, oggi in territorio croato, ma costruite lungo le coste dell'Istria, in luoghi che all'epoca erano integralmente abitate da italiani). Il dato è sorprendente se si tiene conto della vocazione "strapaesana", dichiaratamente anti-urbana che caratterizzò il fascismo delle origini e dei primi anni dopo la presa del potere.
 
Antonio Pennacchi
 
 Poi varie circostanze concorsero a determinare un deciso cambio di passo. La spinta che favorì la nascita delle nuove città non fu sempre e ovunque la stessa: vi furono città nate per favorire la colonizzazione di zone bonificate (non solo i principali centri urbani dell'agro pontino ma, ad esempio, anche Arborea - già Mussolinia di Sardegna - in provincia di Oristano); città nate come villaggi operai in luoghi in cui si voleva promuovere l'industria estrattiva dopo la guerra d'Abissinia e l'isolamento dell'Italia in seguito alle sanzioni internazionali (come Carbonia, nel Sulcis); città nate per cercare di introdurre un modello di sfruttamento del suolo agricolo diverso da quello dell'agricoltura estensiva caratteristica del latifondo (è il caso dei centri agricoli creati negli anni trenta nella Capitanata, in provincia di Foggia, come ad esempio Segezia).
 Pennacchi individua anche tre momenti diversi nell'urbanesimo di fondazione fascista. In un primo periodo, coincidente con l'inizio della bonifica dell'agro pontino, il processo di urbanizzazione è guidato dai proprietari terrieri parte del Consorzio di bonifica, per i quali il centro urbano è un necessario luogo di residenza per gli appartenenti alla classe dirigente, i borghesi, i professionisti che non lavorano personalmente la terra. 
 In un secondo momento, la fondazione di nuovi centri è pianificata dall'Opera Nazionale Combattenti (Onc), che seguendo una concezione molto più populisticamente "integrata" della società fascista concepisce città in cui tutto ruota intorno al potere politico, in cui tutte le classi sociali trovano posto allo stesso titolo in nome della medesima ideologia, in cui il legame fra il centro urbano e la campagna circostante è molto più stretto. 
 C'è infine una terza fase, che non vede mai piena realizzazione, dato che viene bruscamente interrotta dalla guerra, in cui Pennacchi vede - forse arbitrariamente - una sorta di bolscevizzazione del fascismo, e in cui l'Onc, soprattutto nel sud Italia, opererebbe per l'istituzione di villaggi contadini simili a kolchoz, con lo scopo di spezzare l'antico dominio del latifondo; processo desolatamente abortito nel dopoguerra dopo la presa del potere da parte della Democrazia Cristiana.
 Anche i messaggi impliciti lanciati con le loro costruzioni e i loro piani urbanistici dai principali architetti protagonisti di questa epopea cambiano nel tempo. Si prenda Concezio Petrucci, che ad Aprila e a Pomezia dona un'enfasi particolare alla torre littoria, vero riferimento di tutta la cittadinanza secondo il modello delle torri civiche medioevali; mentre più tardi, a Segezia ad esempio, dopo le leggi razziali restituisce al campanile della chiesa la sua tradizionale centralità, in sottile polemica con le stesse istituzioni fasciste, dato che aveva sposato una donna ebrea.
 Pennacchi si lascia andare spesso all'esplicitazione delle sue predilezioni estetiche, che escludono la citatissima Sabaudia e comprendono invece Aprilia e Segezia; che esaltano la modernità di talune soluzioni stilistiche adottate, ad esempio, per il campanile del duomo di Segezia, per la Casa del fascio di Borgo Cervaro, per il chiostro della piazza principale di Borgo Giardinetto, per i quartieri residenziali di Arsia; che si soffermano sulla scelta geniale di "spezzare" il decumano, ponendolo, in alcuni progetti, fuori asse in prossimità della piazza principale, così da raddoppiare la funzione della piazza stessa, religiosa e civile, e da disegnare, attraverso il tracciato delle vie cittadine visto dall'alto, una specie di baionetta.
 Il libro è molto godibile, grazie anche alla disinvoltura stilistica dell'autore, che scrive come se parlasse a un amico, senza preoccuparsi di qualche solecismo, prendendosi più di una licenza poetica, utilizzando d'abitudine una certa sprezzatura che gli consente di mischiare gergo tecnico e vernacolo.
 Detto questo, certe interpretazioni risultano discutibili; ma è una cosa che fa parte del gioco, visto il tema e il personaggio che il gioco lo conduce.
 
In poche parole: Fascio e martello è un saggio, anzi una raccolta di saggi dedicati ai centri urbani fondati ex novo in epoca fascista, alle loro caratteristiche architettoniche, alla concezione urbanistica a cui rispondono, ai diversi scopi con cui sono stati creati, all'orientamento ideologico - non sempre univoco - ad essi sotteso. In Italia si possono individuare 147 città di fondazione edificate durante il Ventennio, e distinguere diverse tipologie progettuali e diversi modi di pensare una comunità, che consentono forse di tracciare un'evoluzione dell'approccio al problema dell'urbanizzazione in cui in filigrana si può ancora leggere la lotta fra le diverse anime del fascismo. 
 
Voto: 7

domenica 22 agosto 2021

Matteo Codignola, "Cose da fare a Francoforte quando sei morto", Adelphi

 Inevitabilmente, a poco tempo dalla scomparsa di Roberto Calasso, la recensione di un libro di Matteo Codignola - cugino di secondo grado ed editor al servizio della casa editrice del nume tutelare e direttore di Adelphi - non può che diventare l'occasione per commemorare uno dei personaggi più importanti dell'editoria italiana degli ultimi cinquant'anni. Tanto più se questo libro è un fantasioso memoriale delle esperienze accumulate dall'autore frequentando la Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, il più importante avvenimento "diplomatico-commerciale" per gli specialisti del settore.
  Come Codignola confessa, il libro avrebbe potuto intitolarsi Avventure nel commercio della carta, dietro la suggestione delle Adventures in the Skin Trade di Dylan Thomas. Il registro scanzonato e l'ironica (e autoironica) sprezzatura che improntano il racconto hanno poi suggerito una soluzione diversa e comicamente surreale.
 Il libro si compone di due divaganti pezzi narrativi e da una (malinconica) conclusione. Tutti gli aneddoti rievocati sono tessuti sul telaio di un umorismo colto ed elegante, e vengono sviluppati con l'informale, digressiva naturalezza di una chiacchierata. Fra i personaggi che vengono chiamati in causa - molti dei quali citati attraverso perifrasi, ma ben riconoscibili a chi abbia un minimo di familiarità con l'editoria italiana - quello comicamente più efficace è senz'altro Basso: fotografo di scrittori, amico del protagonista-narratore, e inseparabile compagno dei suoi viaggi in auto verso Francoforte attraverso la Svizzera, Basso svolge sempre la funzione dell'eroe anticonformista che, con la sua tendenza a non rispettare le regole e le buone abitudini, mette in moto la macchina di piccole grandi avventure. 
 Come quando, maldestramente, cerca di convincere - usando un inglese approssimativo e degli ammicchi classicamente mediterranei - due severi gendarmi dall'aspetto tutt'altro che rassicurante (i "cetnici") a chiudere un occhio di fronte alla patente sventuratamente scaduta dell'autista-narratore.
 O come quando, in piena Buchmesse, contravvenendo all'etichetta delle trattative fra agenti letterari e case editrici per l'acquisto dei diritti dei libri di un autore "nuovo", irrompe nello stand di un'importante casa editrice tedesca per cercare di sapere quanto è stato offerto per l'ultimo titolo di uno scrittore che anche Adelphi sta pensando di mettere sotto contratto. 
 O, ancora, come quando, in chiusura di rassegna, convince il narratiore ad accompagnarlo presso lo stand di una casa editrice specializzata in testi fotografici per fare incetta, senza dare troppo nell'occhio, di saggi gratuiti.
 Lo strano titolo deriva da un episodio bizzarro capitato alcuni anni fa, quando alla Fiera si presentò un piccolo editore di cui i giornali avevano erroneamente diffuso la notizia della morte; la sua epifania generò un generale sconcerto fra coloro che lo conoscevano (o credevano di averlo conosciuto...). 

Matteo Codignola

Nel libro Calasso compare semplicemente come l'Editore: figura autorevole dotata di un sano pragmatismo e di un intuito notevole, votato a riconoscere e ad aggiudicarsi il libro che non si può perdere (memorabile la scena in cui conduce le trattative per mettere sotto contratto un importante scrittore emergente - riconoscibile in Emmanuel Carrère - rinchiuso in uno sgabuzzino per formulare la giusta offerta).
 In una recente intervista, Codignola descrive Roberto Calasso come un personaggio assai meno snob di come la stampa lo ha sempre dipinto, interamente votato al libro come indispensabile strumento di riflessione sulla realtà e di approfondimento delle sue possibili interpretazioni. Per ogni argomento di attualità culturale o di interesse generale, la sua domanda era: "abbiamo il libro?".
 Questo ritratto aggiunge malinconia a malinconia, laddove la conclusione del testo (intitolata significativamente Addio a tutto questo) suona un po' come un congedo da un modo di fare editoria che va scomparendo, soprattutto dopo le incertezze instillate dalla pandemia e dai suoi strascichi nella nostra economia e, un poco, nel nostro stesso modo di intendere la vita associata.
 
In poche parole: a poco tempo dalla scomparsa di Roberto Calasso, il libro di Matteo Codignola - editor e cugino di secondo grado del nume titolare di Adelphi - non può che diventare l'occasione per commemorare uno dei personaggi più importanti dell'editoria italiana degli ultimi cinquant'anni. Tanto più visto che questo libro è un fantasioso memoriale delle esperienze accumulate dall'autore frequentando la Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, il più importante avvenimento "diplomatico-commerciale" per gli specialisti del settore. Una sfumatura malinconica finisce così per colorare il testo, laddove la sua conclusione suona un po' come un congedo da un modo di fare editoria che rischia di scomparire.
 
Voto: 6,5