mercoledì 29 giugno 2022

Marco Amerighi, "Randagi", Bollati Boringhieri


 Ponderoso romanzo generazionale ambientato a Pisa all'inizio degli anni 2000, Randagi racconta gli anni della formazione di Pietro Benati, che cresce cercando la sua strada all'ombra del fratello maggiore, Tommaso detto T - più dotato di lui in tutto -, e con la paura di soffrire delle stesse battute d'arresto che hanno reso avventurosa, ambigua, amara e miserabile l'esitenza del nonno e del padre: il primo, Furio, dato per disperso in Abissinia durante la guerra del 1936, si è lasciato alle spalle in terra d'Africa una figlia illegittima avuta da un'indigena; il secondo, Berto, con Pietro ancora bambino, nel 1988 è sparito misteriosamente per ben quattro settimane, inghiottito da uno dei suoi loschi traffici, per ricomparire poi in perfetta forma ma privo del dito mignolo della mano destra, guadagnandosi così il soprannome di Mutilo.
 Se, nei confronti del nonno, Pietro prova un sentimento di pietà mista a perplessità, verso il padre il protagonista sviluppa una vera e propria idiosincrasia, che diventa odio conclamato quando Berto finisce in carcere per una truffa, gettando discredito e vergogna su tutta la sua famiglia. 
 Unico suo faro negli anni difficili dell'adolescenza è T, diventato ricercatore universitario negli Usa dopo aver dovuto abbandonare una promettente carriera da calciatore (impreziosita dal debutto in serie A nelle file della squadra del Pisa) a causa di un infortunio casualmente provocato proprio dalla goffaggine di Pietro durante una seduta di pesca notturna sugli scogli. 
 Via via sempre più forte, però, è l'esigenza di Pietro di smarcarsi da T, perseguita dapprima attraverso l'amore per la musica e la chitarra classica, coltivati con l'obiettivo inverosimile di diventare il miglior chitarrista al mondo; poi, dopo una serie di frustranti esperienze da musicista in erba e un provino sostenuto e fallito a Londra con la star del flamenco Paco de Lucia, attraverso gli studi di filologia e letteratura ispanica.
 Sono proprio gli studi a portare Pietro a Madrid, per un anno di Erasmus, affrontato con una cupa concentrazione sui propri obiettivi accademici che stride con la propensione spensierata, ludica e voluttuaria della maggior parte dei suoi compagni impegnati nella stessa esperienza.  
 Tuttavia, a Madrid, nei giorni convulsi degli sconvolgenti attentati terroristici alla stazione ferroviaria di Atocha, Pietro conosce due persone destinate ad avere un peso decisivo nell'economia dei suoi affetti negli anni a venire: l'ex surfista francese Laurent, suo coinquilino, e l'affascinante Dora, una scostante ragazza italo-spagnola la cui scontrosità maschera un disagio esistenziale che, dopo il suicidio del padre, non è mai riuscita a superare.
 Innamoratosi di Dora, che sembra però tenerlo a distanza e nei confronti della quale concepisce un vero e proprio inferiority complex, Pietro comincia un percorso di maturazione estremamente tortuoso, il cui snodo principale è la tragica morte del fratello T, alla vigilia delle nozze, in un terribile incidente stradale.
 
Marco Amerighi
 
 Ferito egli stesso in modo estremamente serio, il protagonista impiegherà mesi a fare pace con la propria sorte, con il padre (proprio alla vigilia della morte del Mutilo) e con il mondo intero; decisiva sarà l'assunzione della consapevolezza che le fragilità di tutti coloro che gli sono attorno, e che egli ha sempre considerato dotati di una autostima e di una sicurezza superiori (primo fra tutti Laurent), non sono diverse dalle sue.
 La stessa Dora, che Pietro ha sempre guardato come una sorta di miraggio inafferrabile, si dimostra tutt'altro che fuori dalla sua portata, specialmente dopo che un esaurimento nervoso l'ha costretta al ricovero in una struttura per la cura del disagio psichico.
 Il libro può contare su una distesa vena narrativa, e finisce per essere una miniera inesauribile di situazioni e aneddoti che incrociano il disorientamento di una generazione - quella dei ventenni dell'inizio del XXI secolo - priva di incontestabili parole d'ordine morali e filosofiche, orfana di solidi punti di riferimento gnoseologici, costantemente esposta alla sensazione di una vaga minaccia incombente. Del resto, fu in quegli anni che si insinuò nella mentalità occidentale la cosiddetta "retorica del declino", alimentata dai dubbi sulla bontà del modello di sviluppo ciecamente perseguito fino a quel momento, dal crescere della pressione migratoria sull'Europa e dalle incertezze di un periodo storico funestato dagli attentati terroristici di matrice islamica. 
 E' come se il tenore del romanzo assecondasse questo stato emotivo e lo declinasse in quell'oscillazione tra pretenziosità e spaesamento che caratterizza il protagonista e i suoi amici. E tuttavia alla sostanza del testo manca qualcosa perché questa storia possa risultare davvero rappresentativa di un'epoca e della sua atmosfera dominante: sembra quasi che la forza del racconto si disperda nel compiaciuto resoconto di una serie di situazioni a cui si vuole ostentatamente attribuire un rilievo emblematico ma che restano spesso fini a se stesse; e, nello stesso tempo, che la vicenda principale non acquisisca mai quell'amalgama capace di accendere l'immaginazione del lettore e di entrare in sisonanza con la sua coscienza e la sua memoria.
 La lingua del romanzo, poi, scorrevole e resa più concreta dall'utilizzo di alcuni significativi toscanismi, fatica a trasformarsi in quel sottile strumento analitico della realtà che un'opera come questa - senz'altro ambiziosa nella sua concezione di fondo - richiederebbe.  
 
In poche parole: ponderoso romanzo generazionale ambientato a Pisa all'inizio degli anni 2000, Randagi racconta gli anni della formazione di Pietro Benati, che cresce cercando la sua strada all'ombra del fratello maggiore, Tommaso detto T - più dotato di lui in tutto -, e con la paura di soffrire delle stesse battute d'arresto che hanno reso avventurosa, ambigua, amara e miserabile l'esitenza del nonno e del padre. Il libro può contare su una distesa vena narrativa, e finisce per essere una miniera inesauribile di situazioni e aneddoti che incrociano il disorientamento di una generazione - quella dei ventenni dell'inizio del XXI secolo - priva di incontestabili parole d'ordine morali e filosofiche, orfana di solidi punti di riferimento gnoseologici, costantemente esposta alla sensazione di una vaga minaccia incombente. Del resto, fu in quegli anni che si insinuò nella mentalità occidentale la cosiddetta "retorica del declino", alimentata dai dubbi sulla bontà del modello di sviluppo ciecamente perseguito fino a quel momento, dal crescere della pressione migratoria sull'Europa e dalle incertezze di un periodo storico funestato dagli attentati terroristici di matrice islamica. 
Anche se, alla fine, alla sostanza letteraria del testo manca forse qualcosa perché questa storia possa diventare veramente rappresentativa di un'epoca e della sua atmosfera dominante.

Voto: 6
  

sabato 11 giugno 2022

Jana Karsaiova, "Divorzio di velluto", Feltrinelli


 Bratislava, dicembre 2005: Katarina è una ragazza slovacca di 27 anni, laureata in lingua e letteratura italiana, che è tornata a casa a passare il Natale con i genitori. Rivedere le strade, i palazzi, i locali della sua città, in cui è stata bambina e adolescente, e attraverso l'ottica della quale ha vissuto tutti i profondi cambiamenti che hanno investito il suo Paese all'inizio degli anni novanta (lo sgretolarsi del regime socialista cecoslovacco prima e la scissione fra Repubblica Ceca e Slovacchia poi), la riempie di una malinconia dolceamara.
 I motivi di questo contrastato sentimento sono molteplici: Katarina, che ora - dopo il matrimonio con il ceco Eugen - vive a Praga, dove tiene un corso di italiano all'Università, rimpiange l'equilibrio che aveva trovato negli anni del liceo e dell'università, quando lo studio appassionato della lingua italiana - utilizzata come un gergo per iniziati - le permetteva, insieme al suo piccolo gruppo di compagne di scuola e amiche, di neutralizzare l'asprezza invadente dell'insorgente nazionalismo slovacco e, nel contempo, di coltivare sobriamente il senso della propria appartenenza nazionale senza dare peso al provinciale disprezzo dei cechi verso gli ex compatrioti. 
 Ora quell'equilibrio è rotto: Katarina, a Praga, è la "moglie slovacca" di Eugen, e deve spesso sorbirsi il greve umorismo degli amici del marito sulla goffaggine dei suoi connazionali, e il gruppo delle sue amiche italianiste si è disperso: qualcuna è diventata mamma, qualcun'altra ha abbandonato lo studio della lingua di Dante, mentre Viera, l'amica del cuore e principale confidente di Katarina, si è trasferita in Italia, all'Università di Verona, dopo avere vinto una borsa di studio.
 La vittoria della borsa di studio è stata motivo di attrito tra Viera e Katarina, che sospetta che l'amica abbia ricevuto una dritta per aggiudicarsi il bando da Barbara D'Angelo, la loro ammiratissima professoressa di italiano, con cui Viera aveva iniziato una segreta relazione omoerotica.
 Ci sono però anche altre due ragioni per le quali Katarina annega nella malinconia: una è la profonda crisi che sta attraversando il suo matrimonio con Eugen, che da alcune settimane ha abbandonato la loro casa per una "pausa di riflessione", e che in realtà ha forse già un'altra donna. L'altra è la lontananza della sorella maggiore Dora - da sempre un punto di riferimento per Katarina - che sette anni prima si è trasferita negli Stati Uniti dopo aver tagliato i ponti con la famiglia di origine, e che da alcuni mesi ha smesso anche di inviare le laconiche email con cui dava telegraficamente a Katarina notizie di sé.
 La crisi con Eugen viene da lontano; infatti, non è che l'uomo fosse sempre presente per la moglie, prima della separazione: il lavoro lo portava spesso a Londra, e d'altra parte non erano mancati contrasti nel rapporto di Katarina con la famiglia di lui, molto benestante, molto borghese, molto praghese, assai lontana dalle radici culturali della ragazza; ma fra i due giovani c'era un amore autentico e reciproco, e Katarina sentiva la sicurezza di essere stata scelta da Eugen in piena autonomia.
 Il silenzio di Dora, invece, è come se sottraesse a Katarina una parte di sé: il suo sguardo e la sua felicità semplice di bambina, la sensazione di sentirsi protetta anche quando i genitori non la capivano o non si dimostravano all'altezza del proprio compito.
 
Jana Karsaiova
 
  In più, nei giorni in cui si svolge la storia, è come se la placidità del Natale facesse venire a galla tutte le questioni irrisolte fra la protagonista e la sua famiglia: la vena polemica e perbenistica della madre, che sembra sempre rimproverare alle figlie femmine di non essersi volute adeguare al modello di donna tradizionale da lei rappresentato; l'inettitudine del padre, ex professore di Storia in un istituto tecnico, incapace di superare il trauma del crollo del Socialismo reale, maldestro nel cercare di nascondere la sua predilezione per la figlia Dora, incline ad affogare le sue delusioni nell'alcol.
 Solo il ritrovamento di Viera e il riaccendersi dell'antica confidenza fra le due amiche sembra offrire a Katarina un appiglio per uscire dal pantano in cui si sente sprofondare. Viera le racconta la sua esperienza bella ma non facile dell'Italia e la sua tormentata relazione con la D'Angelo, e ascolta da Katarina la storia del lento spegnersi del suo amore con Eugen. L'affiatamento riscoperto è tale che Viera invita Katarina a passare il Capodanno con lei in Italia.
 La vacanza italiana di Katarina, conclusa dalla tragica notizia della morte di un amico comune suo e di Eugen, convincerà la protagonista della necessità di prendere atto - dolorosamente ma coraggiosamente - della fine ineluttabile della sua storia con Eugen con tutta la dignità e il buon senso possibili, per riprendere in mano la sua vita, ricucire i fili spezzati di tutti i suoi affetti antichi e accettare di aprirsi fiduciosa al mondo, come anche il suo Paese dovrebbe fare.
 Il suo sarà insomma un "divorzio di velluto", un trauma attutito capace di proiettarla verso un futuro complicato e affascinante, esattamente come la rivoluzione dalla quale la sua patria è nata.
 Il romanzo è interessante, perché come pochi riesce a sposare la grande storia - ancora piuttosto recente - della fine del Comunismo nei Paesi dell'est, e la storia particolare ed esemplare di una ragazza la cui adolescenza e giovinezza sono state anche frutto di quell'evento epocale e che, sulla scorta di quel bagaglio culturale, si trova ad affrontare le sfide e i problemi dell'età adulta.   
 Lo stile è semplice e piacevole, e la narrazione in terza persona risulta perfettamente funzionale tanto a quei mutamenti del punto di vista che consentono di spostarsi da un luogo a un altro o da una situazione a un'altra, quanto al bisogno di frapporre al racconto quelle precisazioni didascaliche talvolta necessarie in un'opera così articolata.
 Manca forse solo quel guizzo che rende un libro capace di "salarti il sangue".

In poche parole: Katarina è una ragazza di Bratislava, divenuta una studiosa di lingua e letteratura italiana che, cresciuta negli anni del crollo del Socialismo Reale e della dissoluzione della Cecoslovacchia, nel cuore degli anni Duemila vive i propri problemi di adulta sulla scorta del bagaglio culturale che quel trauma attutito e, insieme, l'amore coltivato sui libri nei confronti del nostro Paese le hanno lasciato. Il libro vive di fascinazioni sottili e di intriganti cortocircuiti: è bello, si legge tutto d'un fiato e offre uno sguardo sull'Italia e sugli italiani decisamente diverso da quelli a cui siamo abituati; anche se, forse, non è capace di quel guizzo tipico delle opere che sanno "salare il sangue" al lettore. 
 
Voto: 6,5

domenica 5 giugno 2022

Veronica Galletta, "Nina sull'argine", Minimum Fax

 

  Caterina Formica è una giovane donna che vive a Milano e lavora come ingegnere presso un ente pubblico che si occupa di contrastare il dissesto idrogeologico in tutto il Nord Italia. Per la sua ottima preparazione, la sua precisione e il suo rigore professionale e morale è sempre stata ritenuta idonea, dai dirigenti del suo ufficio, a occuparsi di questioni teoriche e dell'elaborazione di progetti di massima; meno alla pratica concreta della gestione sul campo dei cantieri che all'ufficio fanno capo.
 Quando però un'inchiesta della magistratura porta in carcere con l'accusa di corruzione gran parte dei suoi colleghi più considerati, Caterina si trova catapultata improvvisamente in prima linea, a seguire in qualità di Direttore dei lavori un'opera particolarmente difficile che nessuno vuole sobbarcarsi: la costruzione di un grande argine - e delle strutture annesse - lungo un fiume (verosimilmente la Dora Baltea) responsabile di alluvioni disastrose per la frazione di Spina, nel comune di Fulchré, nel canavese, non lontano dal lago di Viverone.
 I lavori  per la costruzione dell'argine abbracciano un anno intero - fra l'estate del 2005 e quella del 2006 - e coincidono con un periodo particolarmente delicato della vita di Caterina, che è stata  da poco abbandonata da Pietro, suo storico fidanzato, ed è spesso preda di quella sensazione di profondo disorientamento, al limite del disagio psichico, che già ha sperimentato durante alcune fasi della sua carriera universitaria.
 L'opera ingegneristica finisce così per diventare quasi una metafora di una necessaria ristrutturazione della personalità della protagonista, capace di regolare le piene impetuose della sua emotività e di convogliare e contenere le sue aspirazioni, i suoi sogni, i suoi progetti e i suoi sentimenti entro l'alveo di una consapevole fedeltà a se stessa e al suo modo di essere.
 Nello stesso tempo, concretamente, Nina (questo il diminutivo affettuoso con cui è sempre stata chiamata in famiglia Caterina) impiega nella direzione del cantiere tutte le proprie energie, aggrappandosi alle solide competenze accumulate negli anni degli studi, superando con pazienza e forza di volontà le sue paure, imparando a smussare gli spigoli del suo carattere a contatto diretto con tutti i professionisti, gli attivisti, i politici con cui è chiamata a collaborare, e anche con i fantasmi che le suggestioni della sua fervida fantasia le presentano di volta in volta.
 Così, la protagonista deve abituarsi ad avere a che fare con Bernini, geometra dall'apprezzabile professionalità e dalla dedizione quasi calvinista al lavoro, ma dalla mentalità vagamente misogina, che lo porta a sentirsi a disagio quando deve rendere conto del suo operato a un ingegnere donna; deve dare retta all'Assessore, persona gentile, dall'indole accomodante e dotata di una notevole conoscenza del proprio territorio, ma talvolta un po' troppo evasiva, tendente a stornare i problemi portando sempre il discorso sul suo amore per la buona cucina; è costretta a confrontarsi con il signor Musso, ex medico condotto, estremista dell'ambientalismo, che vede qualsiasi intervento sul letto del fiume come un'indebita interferenza dell'uomo in un contesto naturalistico di cui la flora e la fauna locali dovrebbero essere gli unici padroni; è chiamata a imparare a sopportare Lovecchio, funzionario della Provincia, incarnazione del grigiore burocratico; deve blandire la signora Bola, l'unica proprietaria che ostinatamente si rifiuta di vendere la porzione del proprio terreno necessaria al rafforzamento delle difese di sponda dell'argine.
 
Veronica Galletta
 
 Contemporaneamente, però, nei momenti in cui rimane sola a contemplare l'avanzamento dei lavori nella campagna eporediese, la sera, quando tutti se ne sono andati, Caterina intavola un dialogo segreto con un anziano operaio, che si palesa sempre laddove non dovrebbe essere, e indossa una vecchia felpa con il logo di Italia 90 e un gilet da pescatore pieno di tasche; un operaio singolarmente esperto, che forse è solo un fantasma, perché ricorda tanto Antonio Belfiore - siciliano come Nina - morto 15 anni prima proprio durante i precedenti lavori di sistemazione dell'argine, a pochi giorni di distanza dal suo amico Ferdinando Bola, marito della proprietaria riluttante alla vendita.
 Antonio - la fantasia di Antonio -, con la sua dolcezza e il suo buon senso fuori dal tempo, trasfigura magicamente la realtà della vita di cantiere, delle piccole gioie che sa regalare e dei suoi ordinari squallori, e aiuta Caterina a entrare in contatto con il proprio sentire più autentico, con le motivazioni profonde che l'hanno condotta a compiere studi ingegneristici, con l'amore per il proprio mestiere e per il lavoro ben fatto: la conduce a trovare il proprio equilibrio, insomma.
 E il sintomo dell'equilibrio ritrovato, dopo un anno di lavoro intenso - alla chiusura del cantiere dopo il collaudo dei manufatti - è per Caterina proprio la mancata apparizione di Antonio: la storia antica degli operai morti (numi tutelari dell'argine del fiume) le ha infine insegnato a fare pace coi vivi.
 Il libro è appassionante e davvero molto ben scritto: la scelta di sposare rigorosamente lungo tutto l'arco della narrazione il punto di vista della protagonista, quella di utilizzare la terza persona e quella di adottare il tempo presente concorrono nel modellare un racconto che riesce a indurre nel lettore una piena partecipazione alla storia narrata e a favorire nel contempo una presa di distanza critica dal personaggio di Caterina e dalle vicende che lo riguardano.
 Inoltre questo è un romanzo che non ha timore di parlare del lavoro - del lavoro manuale - con un linguaggio tecnicamente appropriato e una notevole originalità di approccio; ed è bello che più numerosi di un tempo siano i libri che, ponedosi nel solco del Primo Levi di La chiave a stella e del Paolo Volponi di Memoriale (esplicitamente citati nel libro, insieme ad altri scrittori di riferimento per l'autrice quali Italo Calvino e Michele Mari), lo sappiano fare offrendo narrazioni vere, sostanziose e appassionanti.
 Infine, assolutamente rimarchevole è il fatto che la protagonista del libro sia una donna che svolge un mestiere - nell'ambito delle discipline definite, con acronimo inglese, STEM - ancora oggi considerato da troppi, chissà perché, poco femminile.

In poche parole: Caterina Formica, giovane ingegnere alle prese con il complesso cantiere per la costruzione di un argine imponente lungo un corso d'acqua nel Canavese - volto a scongiurare le disastrose alluvioni che si fanno di anno in anno più frequenti nella zona - si rende conto a poco a poco di come l'opera che dirige, e che la mette a dura prova, sia in un certo senso l'emblema dell'impegno e della resistenza a lei necessari affinché il corso della sua stessa vita non abbandoni l'alveo naturale entro il quale ella ha cercato sempre di mantenerlo con tutta la sua buona volontà, a dispetto degli ostacoli e delle disavventure disseminate lungo il suo cammino, e dei fantasmi e delle paure che popolano la sua mente.
Il romanzo è appassionante e molto ben scritto: il fatto che il libro parli di lavoro, e che la protagonista sia una donna che svolge un mestiere di tipo tecnico (descritto con grande precisione e dovizia di particolari) basterebbero di per sé a farlo apparire notevole nel panorama della nostra letteratura contemporanea; a renderlo ancora più interessante è però la raffinata tessitura narrativa, che riesce a guidare con sicurezza il lettore entro un mondo che non necessariamente gli è familiare, senza rinunciare a stimolare di continuo la sua coscienza critica. 
 
Voto: 7,5