domenica 11 settembre 2022

Alessandra Carati, "E poi saremo salvi", Mondadori


 Fra le tragedie umane collettive la guerra è la più sconvolgente per via della sua consustanziale assurdità, che rende particolarmente difficile dimenticare il dolore che causa, ricomporre i danni che provoca e trovare una formula efficace che ne scongiuri il ripetersi. Lo vediamo oggi con la voragine che si è aperta nel cuore dell'Europa in seguito all'aggressione russa all'Ucraina; quelli della mia generazione se ne resero conto trent'anni fa con evidenza ancora maggiore quando, poco lontano dai nostri confini, scoppiò il più bestiale dei conflitti, quello in cui si dissolse la Jugoslavia creata da Tito.
 Il romanzo di Alessandra Carati affonda le radici in quegli anni e in quegli orrori. La storia, raccontata in prima persona dalla protagonista, è quella di Aida, una ragazzina bosniaca che, quando i cetnici puntano sul suo villaggio costringendola ad una fuga precipitosa con la madre incinta, ha solo 6 anni. Compiendo un avventuroso percorso non privo di pericoli attraverso i territori dell'ormai ex Jugoslavia, madre e figlia approdano prima in Slovenia e poi in Italia, dove le attende il padre di Aida e dove comincerà per loro una nuova vita.
 Naturalmente il pensiero della patria, improvvisamente abbandonata e poi sconvolta dalla guerra a tal punto da risultare quasi irriconoscibile, continua a ossessionare i genitori di Aida; ma la ragazza, crescendo, matura sentimenti contraddittori nei confronti della sua identità bosniaca. La presenza di Emilia, un'italiana che diventa per lei quasi una seconda madre, favorisce il sorgere in Aida del desiderio di dimenticare tutto quanto è legato al suo vecchio Paese per costruirsi una nuova idea di sé, aderente alla terra che l'ha accolta e alla città, Milano, alla quale sente ormai di appartenere.
 Aida frequenterà il liceo classico e poi, grazie al sostegno di Emilia e di suo marito - che in sostanza decidono di adottarla - la facoltà di medicina. Ma la sua famiglia di origine resterà come un monito a ricordarle che c'è anche un'altra realtà al di là di quella, più facile, alla quale la giovane ha voluto consegnarsi tutta. 
 Sopratutto, in maniera un po' paradossale, a rammentare ad Aida da dove proviene è il fratello Ibro che, sebbene sia nato in Italia, appare radicato alla terra dei suoi avi molto più di lei: non solo ha imparato il bosniaco, infatti, ma sente anche su di sé tutto il disagio per le inaudite violenze delle quali il suo popolo è stato fatto oggetto, e dalle quali il Paese dei suoi genitori e dei suoi nonni è stato insanguinato.
 
Alessandra Carati
 
 Ibro, quasi sentendo su di sé il peso della storia irriferibile dalla quale proviene, cresce come un ragazzo estremamente problematico: incapace di autodisciplina e di concentrazione, non è in grado di tradurre le sue idubbie qualità in un rendimento scolastico anche solo sufficiente; e poi, con l'adolescenza comincia a essere disturbato da nevrosi che l'abuso di stupefacenti a un certo punto trasforma in una vera e propria psicosi, una sorta di malattia autoimmune di un anima intrisa di orrore.
 Il tentativo di curare Ibro grazie anche al supporto di una psichiatra - restia però a calarsi davvero nei drammi del ragazzo - diventa per Aida una vera e propria discesa agli inferi, che la costringerà a fare finalmente i conti, oltre che col buio che ottenebra la mente del fratello, anche con quello che ha ottenebrato tutta una fase della storia della sua patria d'origine.
 Ibro non sopravviverà ai propri drammi interiori, ma lascerà in eredità ad Aida la consapevolezza della necessità di ricucire il tessuto strappato della propria identità, della propria storia e di quelle dei suoi genitori.
 Il libro è bello, e trova nella sua linearità e nella semplicità della scrittura la condizione ideale per invitare a una riflessione su un frammento particolarmente indigesto della storia recente con cui non si sono fatti i conti in maniera definitiva, formulando una condanna irrevocabile del nazionalismo da cui tutto quel male ha avuto origine.
 L'ordinata scansione temporale del romanzo, poi, ci ricorda quanto poco lontani siano quegli eventi che la nostra coscienza tende a confinare in una dimensione remota, quasi a esorcizzarli.
 
In poche parole: fra le tragedie umane collettive, la guerra è la più sconvolgente per via della sua consustanziale assurdità, che rende particolarmente difficile dimenticare il dolore che causa, ricomporre i danni che provoca e trovare una formula efficace che ne scongiuri il ripetersi. Lo vediamo oggi con la voragine che si è aperta nel cuore dell'Europa in seguito all'aggressione russa all'Ucraina; quelli della mia generazione se ne resero conto trent'anni fa con evidenza ancora maggiore quando, poco lontano dai nostri confini, scoppiò il più bestiale dei conflitti, quello in cui si dissolse la Jugoslavia creata da Tito.
Il romanzo di Alessandra Carati affonda le radici in quegli anni e in quegli orrori. La storia, raccontata in prima persona dalla protagonista, è quella di Aida, una ragazzina bosniaca che, quando i cetnici puntano sul suo villaggio costringendola ad una fuga precipitosa con la madre incinta, ha solo 6 anni. Compiendo un avventuroso percorso non privo di pericoli attraverso i territori dell'ormai ex Jugoslavia, madre e figlia approdano prima in Slovenia e poi in Italia, dove le attende il padre di Aida e dove comincerà per loro una nuova vita.

Voto: 6,5

venerdì 19 agosto 2022

Mario Desiati, "Spatriati", Einaudi


 Cos'è uno "spatriato"? Nel dialetto di Martina Franca - ma più in generale nel gergo dell'autore - è un individuo irrisolto, spaesato, geograficamente, sentimentalmente e moralmente disperso o incapace di raggiungere il proprio centro di equilibrio.
 Il romanzo di Mario Desiati è pieno di persone così. Lo sono di certo i genitori del protagonista-narratore Francesco Veleno, Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, nel loro matrimonio segnato dall'incompatibilità reciproca, che porta lei a diventare l'amante di un medico dell'ospedale presso il quale presta servizio come infermiera (che è anche il padre di Claudia, la ragazza da cui Francesco è da sempre attratto), e lui (professore di educazione fisica nel locale liceo) un inconcludente ignavo, velleitario e frustrato.
 Lo sono poi tanti dei personaggi di contorno in cui ci si imbatte seguendo lo sviluppo della trama: da Etta, la madre di Caludia, dibattuta tra il suo perbenismo meridional-borghese, la rabbia per il tradimento del marito e il desiderio di rompere a sua volta le catene delle convenzioni sociali, all'avvocato Curcio, stagionato viveur, che prima si fidanza con Claudia e poi sposa sua madre rimasta vedova; dal georgiano Andria, con cui Francesco intreccia in Germania una irrisolta relazione omoerotica, alla ragazza madre Erika, con cui invece è Claudia a creare un legame complesso vissuto sul filo dell'ambiguità emotiva.  
 Ma lo sono soprattutto i due personaggi principali, Francesco stesso e Claudia Fanelli appunto, l'originale ragazza dai capelli rossi, figlia dell'amante della madre, di cui egli ancora studente si innamora, e che come una chimera rimane fino all'età adulta e alla maturità il suo sogno inappagato e il suo eterno tormento. Francesco è "sfuocato" nel suo affetto nei confronti della madre, la cui intensa femminilizzazione al momento della sua fuga d'amore con il dottor Fanelli lo spiazza; è sfuocato nel suo rapporto con la religione, che oscilla da una incorporazione acritica di tutto l'apparato simbolico del cattolicesimo, nell'illusione di una fede autentica (che porta il protagonista a pensare di farsi prete), a un declassamento delle tradizioni cristiane a puro folklore utile per supportare l'ipocrisia corrente; è sfuocato nella sua identità sessuale, interpretata con una fluidità un po' isterica, nella quale l'attrazione per gli uomini sembra quasi essere una reazione condizionata dalla frustrazione del desiderio continuamente inappagato nei confronti di Claudia.
 Claudia, dal canto suo, è l'emblema stesso dell'inafferrabilità, se non proprio dell'instabilità vera e propria: nel lavoro, negli affetti, nel modo stesso di apparire e di essere ella trascorre quasi senza soluzione di continuità da una versione di sé all'altra, forse alla ricerca di un assestamento che non trova mai, senza peraltro che la fedele dedizione - ma sarebbe meglio dire adorazione - di Francesco nei suoi confronti venga mai meno. Può essere così rampolla dell'altezzosa borghesia pugliese a Martina Franca, studentessa ingenua e vivace in cerca di nuove esperienze a Londra, giovane laureata in economia drogata di lavoro a Milano, professionista in crisi affascinata dalla cultura underground e alternativa a Berlino; e, nello stesso tempo, frivola adolescente attratta dai ragazzi più belli e superficiali, e poi fidanzata dell'attempato avvocato Curcio, e poi ragazza ormai matura che guarda al lesbismo senza preclusioni...
 
Mario Desiati

 Tutte queste figure e queste varie inclinazioni si incastonano in un impianto diegetico assai complesso e articolato, la cui caratteristica principale è quella di essere composto a mosaico: le singole tessere narrative formano un disegno univoco, ma tra l'una e l'altra c'è un piccolo spazio vuoto, una fessura che sottolinea il continuo shock emotivo del protagonista al cospetto dei piccoli salti di un destino che - senza che comporti sconvolgimenti apocalittici - egli non riesce a controllare e a prevedere, e che lo lascia sempre in qualche modo un po' spiazzato, in affanno, stupito.
 L'intenzione abbastanza scoperta dell'autore è quella di creare un vasto affresco generazionale, con al centro i trenta-quarantenni di oggi come attori principali della transizione da una mentalità tradizionale sclerotica e piena di difetti a una modernità in cui la sfida a ridefinire i parametri dell'identità individuale e le regole dei rapporti sociali non viene vinta completamente, e rischia di lasciare dietro di sé molti naufraghi, con una società in gran parte ancora non in grado di accettare nuovi modelli, e molti ex ragazzi privi di un centro di gravità permanente intorno al quale organizzare una personalità responsabile e definita.
 Il tema è molto interessante ma, nonostante il romanzo sia stato gratificato dalla vittoria del Premio Strega, ho l'impressione che l'obiettivo non venga pienamente raggiunto: da una parte per una ragione estrinseca rispetto alla sostanza del racconto, e cioè il fatto che le contraddizioni dei quarantenni di oggi sono molto più accentuate di quanto appaiano nel ritratto che di essi fa Desiati (e molto più forte è la loro dipensenza da logiche che affondano le loro radici nella mentalità tradizionale); dall'altra per una ragione strutturale, e cioè il fatto che l'impianto narrativo, nella seconda parte, tende a sfilacciarsi un po', a diventare talvolta poco conseguente, talvolta inutilmente ripetitivo.
 Così, un romanzo che inizia con un piglio veramente ammirevole, dando prova a tutti i livelli di un'efficacia espressiva rara e promettendo moltissimo, nel suo sviluppo perde progressivamente vigore fino a diventare assai meno convincente; quasi noioso, non esiterei a dire.
 
In poche parole:  Cos'è uno "spatriato"? Nel dialetto di Martina Franca - ma più in generale nel gergo dell'autore - è un individuo irrisolto, spaesato, geograficamente, sentimentalmente e moralmente disperso o incapace di raggiungere il proprio centro di equilibrio. Spatriati sono sicuramente i personaggi principali del libro, il protagonista-narratore Francesco Veleno e Claudia Fanelli, la ragazza di cui egli è innamorato fin dai tempi della scuola: emblemi di una intera generazione, quella dei quarantenni di oggi - specie quelli nati e cresciuti nell'Italia meridionale -, che cresce cercando di prendere le distanze dalla sclerotica mentalità tradizionale, di ridefinire i parametri dell'identità individuale e le regole dei rapporti sociali; e che non ci riesce del tutto, rimanendo, per così dire, a metà del guado.

Voto: 6,5

venerdì 29 luglio 2022

Claudio Piersanti, "Quel maledetto Vronskij", Rizzoli

 

 La gelosia altro non è, in fondo, che timore di vedere intimamente lacerata la propria identità; in questo senso la sua parentela con la paura della morte è strettissima. 
 Se ne rende conto, nella sua avventura coniugale con la splendida moglie Giulia, Giovanni, un piccolo tipografo di Milano, non particolarmente colto, non particolarmente intraprendente, non particolarmente brillante, e tuttavia sensibilissimo al cospetto dei sentimenti e dei turbamenti della donna, che ama teneramente e con la quale vorrebbe vivere quasi in simbiosi.
 Ma Giulia è stata malata, forse lo è ancora, e la malattia ha depositato dentro di lei aridità, solitudine e un senso di disperazione difficile da fronteggiare. 
 Una sera, tornado a casa dal suo laboratorio, Giovanni trova nella cucina della propria casa un biglietto con cui Giulia lo lascia e gli intima di non cercarla. Il pover'uomo si interroga su quella decisione inattesa senza riuscire a spiegarsela: che cosa l'ha spinta a questo passo? Il suo sguardo corre sugli scaffali della libreria della moglie, lettrice molto più solida e costante di lui, fino a cadere su un volume decisamente ponderoso, che le ha visto spesso fra le mani e che certamente ella amava:  Anna Karenina di Lev Tolstoj.
 Giovanni non ha mai letto il romanzo, ma ora pensa che proprio lì dentro ci possa essere il motivo segreto dell'abbandono che ha subito. Comincia allora a compulsarlo furiosamente, e poi a leggerene interi brani, entrandone a poco a poco nella trama; si sofferma in particolare sul personaggio di Vronskij, colui che porta via Anna a suo marito, e che egli vede come un fatuo bellimbusto indegno di stima.
 Ecco allora farsi strada in lui un'idea insidiosa e prepotente: Giulia gli è stata portata via da qualcuno capace di essere più attraente ai suoi occhi di quanto egli non sia mai stato; con ogni probabilità un volgare seduttore, ma armato di un fascino di cui Giovanni è totalmente sprovvisto. Vronskij assume a poco a poco nella mente di Giovanni una fisionomia mostruosa: è colui che, macchiatosi di ogni nefandezza, ha conquistato con l'inganno la sua donna, e ora la possiede furiosamente; Vronskij ride alle sue spalle; Vronskij è il nemico giurato che egli non sapeva di avere, ma che ha sempre tramato alle sue spalle.
 L'ossessione di Giovanni si sublima infine in un'impresa che ha a che fare con la sua abilità professionale: egli preparerà un'edizione preziosa di Anna Karenina in onore di Giulia perduta, ripercorrendo il testo parola per parola, in maniera tale che il rovello della gelosia scavi in profondità in lui fino a portare alla luce le sue colpe nascoste nei confronti della moglie.
 L'umore di Giovanni si fa sempre più cupo, anche in considerazione del fatto che gli amici gli riportano la notizia che Giulia è in città, sta bene, conduce una vita lontana da lui ma, evidentemente, non ha nessuna intenzione di rivederlo.
 Anche le donne che chi gli è più vicino tenta di presentagli non lo interessano; il pensidero di Giulia perduta lo occupa tutto e, sotto la superficie tranquilla della sua consueta urbanità, lo sconvolge completamente.
 
Claudio Piersanti
 
 
 Il fatto è che Giulia non si è allontanata per amore di un altro uomo; si è allontanata invece per paura di essere ghermita dalla morte, per timore della malattia che crede di continuare a covare in lei. In realtà voleva uccidersi, per far soffrire meno il suo Giovanni: aveva organizzato tutto, ma non ha avuto il coraggio di gettarsi sotto un treno, come la protagonista del romanzo di Tolstoj.
 Quando torna, molti mesi dopo la sua partenza da casa, confessa al marito la sua disperata debolezza, gli chiede di riprenderla con sé e dichiara la propria inermità di fronte alla morte. E Vronskij, lo spettro di Vronskij non scompare dalla vita dei due coniugi; si trasforma invece nell'ombra della morte, sempre incombente e minacciosa, sempre furtivamente presente come infausta ipotesi, tragica opzione futura.
 Molti anni vivranno ancora insieme Giovanni e Giulia, in armonia quasi perfetta, in invidiabile confidenza, in assoluto accordo.
 Eppure Vronskij, il maledetto Vronskij, alla fine inesorabilmente arriverà, a ghermire la preda che gli spetta di diritto, a spazzare via ogni traccia di felicità, che di sicuro c'è stata, ma che allora sembra poco più di un'illusione.
 Il mal d'amore per eccellenza, l'orrida gelosia, si trasforma così - tragicamente - in mal di morte, in invidia per l'eterno e per la letizia inscalfibile degli dei.
 Il libro, tutto impostato su uno stile narrativo pacato e su ritmi morbidi e isocroni, è decisamente bello; la sua linearità non impedisce di leggerlo con piacere e insieme con emozione. E poi, la trovata di trasfigurare un famosissimo e sommamente ambiguo personaggio letterario, trasformandolo nell'emblema di tutte le nostre peggiori paure, a mio parere, è strepitosa.
 
In poche patrole: il libro si basa sulla trovata strepitosa di trasfigurare uno dei personaggi letterari più conosciuti e dalla fama più dubbia, il Vronskij di Anna Karenina, trasformandolo nell'emblema di tutte le nostre peggiori paure. In fondo, la gelosia che all'azione di un personaggio come Vronskij è indissolubilmente legata, altro non è che il timore di vedere lacerata in modo irrimediabile la nostra identità; e non è questo che più ci spaventa, nella morte?
 
Voto: 7

sabato 9 luglio 2022

Veronica Raimo, "Niente di vero", Einaudi


 "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
 Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
 L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. Veronica (Verika per la madre, Oca per il padre, Veronika per se stessa quando sogna di diventare una rockstar) è una ragazza nata nel 1978, che cresce insieme ai genitori (madre insegnate, padre dirigente d'azienda) e al dotatissimo fratello maggiore in un appartamento non troppo grande nel quartiere romano di Rebibbia. 
 Nell'intento di permettere a ciascuno dei componenti del nucleo familiare di conservare la propria autonomia e di salvaguardare la propria privacy, il padre suddivide con dei tramezzi in cartongesso l'appartamento in una serie di microscopici stanzini, che trasformano la casa in una sorta di alveare dalle cui cellette è possibile origliare le pseudo-solitudini degli altri, interiorizzarne le nevrosi, abituarsi alle loro idiosincrasie. L'appantamento parcellizzato diventa un po' il simbolo dell'angustia delle relazioni familiari di Veronica: quella con la madre Francesca ansiosa e leggermente sessuofobica, ossessionata dai figli non avuti, capace di telefonare sempre nel momento meno opportuno; quella con il padre premuroso e collerico insieme, patofobico e malato di lavoro, famoso per la sua espressione deprecativa "siamo arrivati al paradosso"; quella con il fratello devoto e prodigiosamente intelligente, destinato a diventare un politico e uno scrittore.
 Lo stile con cui vengono ricostruiti numerosi episodi dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, e alcuni snodi essenziali della vita della protagonista è contemporaneamente analitico e svagato, divagante e capzioso: si può passare dalle visite in Puglia a nonna Muccia alla scoperta del sesso, dalla morte del padre alla carriera scolastica di Veronica, dalle sue avventure con la storica amica Cecilia al sentimento religioso da cui vengono conquistati il fratello o il suo ex fidanzato.
 
Veronica Raimo
 
 Ciò che a poco a poco emerge con nettezza, però, è innanzitutto l'impossibilità di fissare quello che effettivamente è stato con assoluta certezza. Emblema di questo assioma è la constatazione che il falso diario concepito da ragazzina da Veronica per ingannare e tranquillizare sua madre (che - ella sapeva - di certo l'avrebbe letto di nascosto) sembra, riletto con gli occhi di oggi, più che plausibile: perfettamente, addirittura sentimentalmente attendibile.
 L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino. Al contrario, mi sembra che si ostenti una sorta di compiaciuta eccentricità, un soslipsismo estetizzante, che evidentemente si ritiene possa nobilitare il sostanziale disinteresse per punti di vista diversi dal nostro. Certe sinuosità stilistiche, certe ricercate immagini, così, più che impreziosire il dettato acuendo la sua acribia analitica, finiscono per esaltarne la piega narcisistica. Temo che tutto questo configuri un modo di apparire alternativi e anticonformisti un po' troppo a buon mercato.
 
In poche parole: "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. 
L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino.

Voto: 6,5

mercoledì 29 giugno 2022

Marco Amerighi, "Randagi", Bollati Boringhieri


 Ponderoso romanzo generazionale ambientato a Pisa all'inizio degli anni 2000, Randagi racconta gli anni della formazione di Pietro Benati, che cresce cercando la sua strada all'ombra del fratello maggiore, Tommaso detto T - più dotato di lui in tutto -, e con la paura di soffrire delle stesse battute d'arresto che hanno reso avventurosa, ambigua, amara e miserabile l'esitenza del nonno e del padre: il primo, Furio, dato per disperso in Abissinia durante la guerra del 1936, si è lasciato alle spalle in terra d'Africa una figlia illegittima avuta da un'indigena; il secondo, Berto, con Pietro ancora bambino, nel 1988 è sparito misteriosamente per ben quattro settimane, inghiottito da uno dei suoi loschi traffici, per ricomparire poi in perfetta forma ma privo del dito mignolo della mano destra, guadagnandosi così il soprannome di Mutilo.
 Se, nei confronti del nonno, Pietro prova un sentimento di pietà mista a perplessità, verso il padre il protagonista sviluppa una vera e propria idiosincrasia, che diventa odio conclamato quando Berto finisce in carcere per una truffa, gettando discredito e vergogna su tutta la sua famiglia. 
 Unico suo faro negli anni difficili dell'adolescenza è T, diventato ricercatore universitario negli Usa dopo aver dovuto abbandonare una promettente carriera da calciatore (impreziosita dal debutto in serie A nelle file della squadra del Pisa) a causa di un infortunio casualmente provocato proprio dalla goffaggine di Pietro durante una seduta di pesca notturna sugli scogli. 
 Via via sempre più forte, però, è l'esigenza di Pietro di smarcarsi da T, perseguita dapprima attraverso l'amore per la musica e la chitarra classica, coltivati con l'obiettivo inverosimile di diventare il miglior chitarrista al mondo; poi, dopo una serie di frustranti esperienze da musicista in erba e un provino sostenuto e fallito a Londra con la star del flamenco Paco de Lucia, attraverso gli studi di filologia e letteratura ispanica.
 Sono proprio gli studi a portare Pietro a Madrid, per un anno di Erasmus, affrontato con una cupa concentrazione sui propri obiettivi accademici che stride con la propensione spensierata, ludica e voluttuaria della maggior parte dei suoi compagni impegnati nella stessa esperienza.  
 Tuttavia, a Madrid, nei giorni convulsi degli sconvolgenti attentati terroristici alla stazione ferroviaria di Atocha, Pietro conosce due persone destinate ad avere un peso decisivo nell'economia dei suoi affetti negli anni a venire: l'ex surfista francese Laurent, suo coinquilino, e l'affascinante Dora, una scostante ragazza italo-spagnola la cui scontrosità maschera un disagio esistenziale che, dopo il suicidio del padre, non è mai riuscita a superare.
 Innamoratosi di Dora, che sembra però tenerlo a distanza e nei confronti della quale concepisce un vero e proprio inferiority complex, Pietro comincia un percorso di maturazione estremamente tortuoso, il cui snodo principale è la tragica morte del fratello T, alla vigilia delle nozze, in un terribile incidente stradale.
 
Marco Amerighi
 
 Ferito egli stesso in modo estremamente serio, il protagonista impiegherà mesi a fare pace con la propria sorte, con il padre (proprio alla vigilia della morte del Mutilo) e con il mondo intero; decisiva sarà l'assunzione della consapevolezza che le fragilità di tutti coloro che gli sono attorno, e che egli ha sempre considerato dotati di una autostima e di una sicurezza superiori (primo fra tutti Laurent), non sono diverse dalle sue.
 La stessa Dora, che Pietro ha sempre guardato come una sorta di miraggio inafferrabile, si dimostra tutt'altro che fuori dalla sua portata, specialmente dopo che un esaurimento nervoso l'ha costretta al ricovero in una struttura per la cura del disagio psichico.
 Il libro può contare su una distesa vena narrativa, e finisce per essere una miniera inesauribile di situazioni e aneddoti che incrociano il disorientamento di una generazione - quella dei ventenni dell'inizio del XXI secolo - priva di incontestabili parole d'ordine morali e filosofiche, orfana di solidi punti di riferimento gnoseologici, costantemente esposta alla sensazione di una vaga minaccia incombente. Del resto, fu in quegli anni che si insinuò nella mentalità occidentale la cosiddetta "retorica del declino", alimentata dai dubbi sulla bontà del modello di sviluppo ciecamente perseguito fino a quel momento, dal crescere della pressione migratoria sull'Europa e dalle incertezze di un periodo storico funestato dagli attentati terroristici di matrice islamica. 
 E' come se il tenore del romanzo assecondasse questo stato emotivo e lo declinasse in quell'oscillazione tra pretenziosità e spaesamento che caratterizza il protagonista e i suoi amici. E tuttavia alla sostanza del testo manca qualcosa perché questa storia possa risultare davvero rappresentativa di un'epoca e della sua atmosfera dominante: sembra quasi che la forza del racconto si disperda nel compiaciuto resoconto di una serie di situazioni a cui si vuole ostentatamente attribuire un rilievo emblematico ma che restano spesso fini a se stesse; e, nello stesso tempo, che la vicenda principale non acquisisca mai quell'amalgama capace di accendere l'immaginazione del lettore e di entrare in sisonanza con la sua coscienza e la sua memoria.
 La lingua del romanzo, poi, scorrevole e resa più concreta dall'utilizzo di alcuni significativi toscanismi, fatica a trasformarsi in quel sottile strumento analitico della realtà che un'opera come questa - senz'altro ambiziosa nella sua concezione di fondo - richiederebbe.  
 
In poche parole: ponderoso romanzo generazionale ambientato a Pisa all'inizio degli anni 2000, Randagi racconta gli anni della formazione di Pietro Benati, che cresce cercando la sua strada all'ombra del fratello maggiore, Tommaso detto T - più dotato di lui in tutto -, e con la paura di soffrire delle stesse battute d'arresto che hanno reso avventurosa, ambigua, amara e miserabile l'esitenza del nonno e del padre. Il libro può contare su una distesa vena narrativa, e finisce per essere una miniera inesauribile di situazioni e aneddoti che incrociano il disorientamento di una generazione - quella dei ventenni dell'inizio del XXI secolo - priva di incontestabili parole d'ordine morali e filosofiche, orfana di solidi punti di riferimento gnoseologici, costantemente esposta alla sensazione di una vaga minaccia incombente. Del resto, fu in quegli anni che si insinuò nella mentalità occidentale la cosiddetta "retorica del declino", alimentata dai dubbi sulla bontà del modello di sviluppo ciecamente perseguito fino a quel momento, dal crescere della pressione migratoria sull'Europa e dalle incertezze di un periodo storico funestato dagli attentati terroristici di matrice islamica. 
Anche se, alla fine, alla sostanza letteraria del testo manca forse qualcosa perché questa storia possa diventare veramente rappresentativa di un'epoca e della sua atmosfera dominante.

Voto: 6
  

sabato 11 giugno 2022

Jana Karsaiova, "Divorzio di velluto", Feltrinelli


 Bratislava, dicembre 2005: Katarina è una ragazza slovacca di 27 anni, laureata in lingua e letteratura italiana, che è tornata a casa a passare il Natale con i genitori. Rivedere le strade, i palazzi, i locali della sua città, in cui è stata bambina e adolescente, e attraverso l'ottica della quale ha vissuto tutti i profondi cambiamenti che hanno investito il suo Paese all'inizio degli anni novanta (lo sgretolarsi del regime socialista cecoslovacco prima e la scissione fra Repubblica Ceca e Slovacchia poi), la riempie di una malinconia dolceamara.
 I motivi di questo contrastato sentimento sono molteplici: Katarina, che ora - dopo il matrimonio con il ceco Eugen - vive a Praga, dove tiene un corso di italiano all'Università, rimpiange l'equilibrio che aveva trovato negli anni del liceo e dell'università, quando lo studio appassionato della lingua italiana - utilizzata come un gergo per iniziati - le permetteva, insieme al suo piccolo gruppo di compagne di scuola e amiche, di neutralizzare l'asprezza invadente dell'insorgente nazionalismo slovacco e, nel contempo, di coltivare sobriamente il senso della propria appartenenza nazionale senza dare peso al provinciale disprezzo dei cechi verso gli ex compatrioti. 
 Ora quell'equilibrio è rotto: Katarina, a Praga, è la "moglie slovacca" di Eugen, e deve spesso sorbirsi il greve umorismo degli amici del marito sulla goffaggine dei suoi connazionali, e il gruppo delle sue amiche italianiste si è disperso: qualcuna è diventata mamma, qualcun'altra ha abbandonato lo studio della lingua di Dante, mentre Viera, l'amica del cuore e principale confidente di Katarina, si è trasferita in Italia, all'Università di Verona, dopo avere vinto una borsa di studio.
 La vittoria della borsa di studio è stata motivo di attrito tra Viera e Katarina, che sospetta che l'amica abbia ricevuto una dritta per aggiudicarsi il bando da Barbara D'Angelo, la loro ammiratissima professoressa di italiano, con cui Viera aveva iniziato una segreta relazione omoerotica.
 Ci sono però anche altre due ragioni per le quali Katarina annega nella malinconia: una è la profonda crisi che sta attraversando il suo matrimonio con Eugen, che da alcune settimane ha abbandonato la loro casa per una "pausa di riflessione", e che in realtà ha forse già un'altra donna. L'altra è la lontananza della sorella maggiore Dora - da sempre un punto di riferimento per Katarina - che sette anni prima si è trasferita negli Stati Uniti dopo aver tagliato i ponti con la famiglia di origine, e che da alcuni mesi ha smesso anche di inviare le laconiche email con cui dava telegraficamente a Katarina notizie di sé.
 La crisi con Eugen viene da lontano; infatti, non è che l'uomo fosse sempre presente per la moglie, prima della separazione: il lavoro lo portava spesso a Londra, e d'altra parte non erano mancati contrasti nel rapporto di Katarina con la famiglia di lui, molto benestante, molto borghese, molto praghese, assai lontana dalle radici culturali della ragazza; ma fra i due giovani c'era un amore autentico e reciproco, e Katarina sentiva la sicurezza di essere stata scelta da Eugen in piena autonomia.
 Il silenzio di Dora, invece, è come se sottraesse a Katarina una parte di sé: il suo sguardo e la sua felicità semplice di bambina, la sensazione di sentirsi protetta anche quando i genitori non la capivano o non si dimostravano all'altezza del proprio compito.
 
Jana Karsaiova
 
  In più, nei giorni in cui si svolge la storia, è come se la placidità del Natale facesse venire a galla tutte le questioni irrisolte fra la protagonista e la sua famiglia: la vena polemica e perbenistica della madre, che sembra sempre rimproverare alle figlie femmine di non essersi volute adeguare al modello di donna tradizionale da lei rappresentato; l'inettitudine del padre, ex professore di Storia in un istituto tecnico, incapace di superare il trauma del crollo del Socialismo reale, maldestro nel cercare di nascondere la sua predilezione per la figlia Dora, incline ad affogare le sue delusioni nell'alcol.
 Solo il ritrovamento di Viera e il riaccendersi dell'antica confidenza fra le due amiche sembra offrire a Katarina un appiglio per uscire dal pantano in cui si sente sprofondare. Viera le racconta la sua esperienza bella ma non facile dell'Italia e la sua tormentata relazione con la D'Angelo, e ascolta da Katarina la storia del lento spegnersi del suo amore con Eugen. L'affiatamento riscoperto è tale che Viera invita Katarina a passare il Capodanno con lei in Italia.
 La vacanza italiana di Katarina, conclusa dalla tragica notizia della morte di un amico comune suo e di Eugen, convincerà la protagonista della necessità di prendere atto - dolorosamente ma coraggiosamente - della fine ineluttabile della sua storia con Eugen con tutta la dignità e il buon senso possibili, per riprendere in mano la sua vita, ricucire i fili spezzati di tutti i suoi affetti antichi e accettare di aprirsi fiduciosa al mondo, come anche il suo Paese dovrebbe fare.
 Il suo sarà insomma un "divorzio di velluto", un trauma attutito capace di proiettarla verso un futuro complicato e affascinante, esattamente come la rivoluzione dalla quale la sua patria è nata.
 Il romanzo è interessante, perché come pochi riesce a sposare la grande storia - ancora piuttosto recente - della fine del Comunismo nei Paesi dell'est, e la storia particolare ed esemplare di una ragazza la cui adolescenza e giovinezza sono state anche frutto di quell'evento epocale e che, sulla scorta di quel bagaglio culturale, si trova ad affrontare le sfide e i problemi dell'età adulta.   
 Lo stile è semplice e piacevole, e la narrazione in terza persona risulta perfettamente funzionale tanto a quei mutamenti del punto di vista che consentono di spostarsi da un luogo a un altro o da una situazione a un'altra, quanto al bisogno di frapporre al racconto quelle precisazioni didascaliche talvolta necessarie in un'opera così articolata.
 Manca forse solo quel guizzo che rende un libro capace di "salarti il sangue".

In poche parole: Katarina è una ragazza di Bratislava, divenuta una studiosa di lingua e letteratura italiana che, cresciuta negli anni del crollo del Socialismo Reale e della dissoluzione della Cecoslovacchia, nel cuore degli anni Duemila vive i propri problemi di adulta sulla scorta del bagaglio culturale che quel trauma attutito e, insieme, l'amore coltivato sui libri nei confronti del nostro Paese le hanno lasciato. Il libro vive di fascinazioni sottili e di intriganti cortocircuiti: è bello, si legge tutto d'un fiato e offre uno sguardo sull'Italia e sugli italiani decisamente diverso da quelli a cui siamo abituati; anche se, forse, non è capace di quel guizzo tipico delle opere che sanno "salare il sangue" al lettore. 
 
Voto: 6,5

domenica 5 giugno 2022

Veronica Galletta, "Nina sull'argine", Minimum Fax

 

  Caterina Formica è una giovane donna che vive a Milano e lavora come ingegnere presso un ente pubblico che si occupa di contrastare il dissesto idrogeologico in tutto il Nord Italia. Per la sua ottima preparazione, la sua precisione e il suo rigore professionale e morale è sempre stata ritenuta idonea, dai dirigenti del suo ufficio, a occuparsi di questioni teoriche e dell'elaborazione di progetti di massima; meno alla pratica concreta della gestione sul campo dei cantieri che all'ufficio fanno capo.
 Quando però un'inchiesta della magistratura porta in carcere con l'accusa di corruzione gran parte dei suoi colleghi più considerati, Caterina si trova catapultata improvvisamente in prima linea, a seguire in qualità di Direttore dei lavori un'opera particolarmente difficile che nessuno vuole sobbarcarsi: la costruzione di un grande argine - e delle strutture annesse - lungo un fiume (verosimilmente la Dora Baltea) responsabile di alluvioni disastrose per la frazione di Spina, nel comune di Fulchré, nel canavese, non lontano dal lago di Viverone.
 I lavori  per la costruzione dell'argine abbracciano un anno intero - fra l'estate del 2005 e quella del 2006 - e coincidono con un periodo particolarmente delicato della vita di Caterina, che è stata  da poco abbandonata da Pietro, suo storico fidanzato, ed è spesso preda di quella sensazione di profondo disorientamento, al limite del disagio psichico, che già ha sperimentato durante alcune fasi della sua carriera universitaria.
 L'opera ingegneristica finisce così per diventare quasi una metafora di una necessaria ristrutturazione della personalità della protagonista, capace di regolare le piene impetuose della sua emotività e di convogliare e contenere le sue aspirazioni, i suoi sogni, i suoi progetti e i suoi sentimenti entro l'alveo di una consapevole fedeltà a se stessa e al suo modo di essere.
 Nello stesso tempo, concretamente, Nina (questo il diminutivo affettuoso con cui è sempre stata chiamata in famiglia Caterina) impiega nella direzione del cantiere tutte le proprie energie, aggrappandosi alle solide competenze accumulate negli anni degli studi, superando con pazienza e forza di volontà le sue paure, imparando a smussare gli spigoli del suo carattere a contatto diretto con tutti i professionisti, gli attivisti, i politici con cui è chiamata a collaborare, e anche con i fantasmi che le suggestioni della sua fervida fantasia le presentano di volta in volta.
 Così, la protagonista deve abituarsi ad avere a che fare con Bernini, geometra dall'apprezzabile professionalità e dalla dedizione quasi calvinista al lavoro, ma dalla mentalità vagamente misogina, che lo porta a sentirsi a disagio quando deve rendere conto del suo operato a un ingegnere donna; deve dare retta all'Assessore, persona gentile, dall'indole accomodante e dotata di una notevole conoscenza del proprio territorio, ma talvolta un po' troppo evasiva, tendente a stornare i problemi portando sempre il discorso sul suo amore per la buona cucina; è costretta a confrontarsi con il signor Musso, ex medico condotto, estremista dell'ambientalismo, che vede qualsiasi intervento sul letto del fiume come un'indebita interferenza dell'uomo in un contesto naturalistico di cui la flora e la fauna locali dovrebbero essere gli unici padroni; è chiamata a imparare a sopportare Lovecchio, funzionario della Provincia, incarnazione del grigiore burocratico; deve blandire la signora Bola, l'unica proprietaria che ostinatamente si rifiuta di vendere la porzione del proprio terreno necessaria al rafforzamento delle difese di sponda dell'argine.
 
Veronica Galletta
 
 Contemporaneamente, però, nei momenti in cui rimane sola a contemplare l'avanzamento dei lavori nella campagna eporediese, la sera, quando tutti se ne sono andati, Caterina intavola un dialogo segreto con un anziano operaio, che si palesa sempre laddove non dovrebbe essere, e indossa una vecchia felpa con il logo di Italia 90 e un gilet da pescatore pieno di tasche; un operaio singolarmente esperto, che forse è solo un fantasma, perché ricorda tanto Antonio Belfiore - siciliano come Nina - morto 15 anni prima proprio durante i precedenti lavori di sistemazione dell'argine, a pochi giorni di distanza dal suo amico Ferdinando Bola, marito della proprietaria riluttante alla vendita.
 Antonio - la fantasia di Antonio -, con la sua dolcezza e il suo buon senso fuori dal tempo, trasfigura magicamente la realtà della vita di cantiere, delle piccole gioie che sa regalare e dei suoi ordinari squallori, e aiuta Caterina a entrare in contatto con il proprio sentire più autentico, con le motivazioni profonde che l'hanno condotta a compiere studi ingegneristici, con l'amore per il proprio mestiere e per il lavoro ben fatto: la conduce a trovare il proprio equilibrio, insomma.
 E il sintomo dell'equilibrio ritrovato, dopo un anno di lavoro intenso - alla chiusura del cantiere dopo il collaudo dei manufatti - è per Caterina proprio la mancata apparizione di Antonio: la storia antica degli operai morti (numi tutelari dell'argine del fiume) le ha infine insegnato a fare pace coi vivi.
 Il libro è appassionante e davvero molto ben scritto: la scelta di sposare rigorosamente lungo tutto l'arco della narrazione il punto di vista della protagonista, quella di utilizzare la terza persona e quella di adottare il tempo presente concorrono nel modellare un racconto che riesce a indurre nel lettore una piena partecipazione alla storia narrata e a favorire nel contempo una presa di distanza critica dal personaggio di Caterina e dalle vicende che lo riguardano.
 Inoltre questo è un romanzo che non ha timore di parlare del lavoro - del lavoro manuale - con un linguaggio tecnicamente appropriato e una notevole originalità di approccio; ed è bello che più numerosi di un tempo siano i libri che, ponedosi nel solco del Primo Levi di La chiave a stella e del Paolo Volponi di Memoriale (esplicitamente citati nel libro, insieme ad altri scrittori di riferimento per l'autrice quali Italo Calvino e Michele Mari), lo sappiano fare offrendo narrazioni vere, sostanziose e appassionanti.
 Infine, assolutamente rimarchevole è il fatto che la protagonista del libro sia una donna che svolge un mestiere - nell'ambito delle discipline definite, con acronimo inglese, STEM - ancora oggi considerato da troppi, chissà perché, poco femminile.

In poche parole: Caterina Formica, giovane ingegnere alle prese con il complesso cantiere per la costruzione di un argine imponente lungo un corso d'acqua nel Canavese - volto a scongiurare le disastrose alluvioni che si fanno di anno in anno più frequenti nella zona - si rende conto a poco a poco di come l'opera che dirige, e che la mette a dura prova, sia in un certo senso l'emblema dell'impegno e della resistenza a lei necessari affinché il corso della sua stessa vita non abbandoni l'alveo naturale entro il quale ella ha cercato sempre di mantenerlo con tutta la sua buona volontà, a dispetto degli ostacoli e delle disavventure disseminate lungo il suo cammino, e dei fantasmi e delle paure che popolano la sua mente.
Il romanzo è appassionante e molto ben scritto: il fatto che il libro parli di lavoro, e che la protagonista sia una donna che svolge un mestiere di tipo tecnico (descritto con grande precisione e dovizia di particolari) basterebbero di per sé a farlo apparire notevole nel panorama della nostra letteratura contemporanea; a renderlo ancora più interessante è però la raffinata tessitura narrativa, che riesce a guidare con sicurezza il lettore entro un mondo che non necessariamente gli è familiare, senza rinunciare a stimolare di continuo la sua coscienza critica. 
 
Voto: 7,5

domenica 15 maggio 2022

Alessandro Bertante, "Mordi e fuggi. Il romanzo delle Br", Baldini e Castoldi

 
 Ancora oggi non è semplice parlare in Italia in maniera equilibrata della parabola criminale delle Brigate Rosse partendo da quel complesso intreccio di fermenti ideologici, giuste rivendicazioni, rabbia compressa, presunzione intellettuale, giudizi distorti, folli astrazioni, assuefazione alla violenza, alienazione, superficialità e vanità, che - scaturito dalle generose e vaghe aspirazioni libertarie e palingenetiche del Sessantotto - condusse agli anni acri e agli accessi cruenti del terrorismo rosso.
 Ci prova con il suo documentatissimo romanzo storico Alessandro Bertante, concentrandosi sul periodo che va dal 1969 al 1972: la fase in cui si precisarono fin nei dettagli gli obiettivi, le modalità operative, la struttura organizzativa e il retroterra sociale e filosofico dei brigatisti, ma che precedette le brutalità omicide della deriva degli anni successivi. 
 Protagonista e voce narrante del racconto che viene fatto è Alberto Boscolo, giovane studente universitario e membro fondatore delle Br; una Nota per il lettore posta in chiusura del libro avverte che dietro questo nome si nasconde realmente un componente del nucleo storico della formazione terroristica che, seppur individuato fin dai primi processi, non fu mai incriminato, avendo abbandonato la lotta armata prima della sua degenerazione cruenta.
 Alberto proviene da una onesta famiglia piccolo borghese di Milano, ed è figlio di un quadro dell'Alfa Romeo che politicamente si riconosce nell'area del riformismo progressista; è sempre stato un ottimo studente e, dopo il liceo, si è iscritto all'Università con la prospettiva di compiere una brillante carriera accademica. Dagli studi universitari e dalla dimensione familiare si è tuttavia staccato con il crescere del suo impegno politico nell'ambito della sinistra extraparlamentare: nell'autunno del 1969, ormai, sono mesi che non vede più i genitori e la sorella minore, né frequenta più alcun corso alla facoltà di Lettere della Statale. Insieme ad Anita, la sua fidanzata - giovane e affascinante ribelle di estrazione altoborghese - si è spostato dalla comune in piazza Fontana, dove i due si erano sistemati, in un piccolo appartamento di ringhiera in corso Garibaldi, dentro un vecchio caseggiato acquistato dal padre di lei per una speculazione immobiliare.
 Sebbene Alberto sia innamorato di Anita, il loro rapporto sta entrando in crisi a causa delle posizioni via via più radicali che il ragazzo sta assumendo, per influenza con un gruppo che si va distinguendo all'interno del Collettivo Politico Metropolitano - formazione democratico-rivoluzionaria capace di unire studenti e operai in una comune militanza -, per iniziativa di Renato (Curcio) e Margherita (Cagol), due giovani sociologi di area cattolica provenienti dall'Università di Trento, che hanno cominciato a parlare apertamente della necessità di alzare il livello dello scontro con la borghesia padronale e a teorizzare la lotta armata.
 A fare da detonatore all'esplosiva miscela che si è venuta a creare all'interno dell'estrema sinistra milanese, nei collettivi studenteschi, nelle fabbriche e in alcuni quartieri operai sono due eventi che si susseguono a breve distanza a Milano nel cupo dicembre del 1969: la strage provocata da una bomba collocata all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, e la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, a cui la polizia tentava di attribuire la responsabilità dell'esplosione, misteriosamente caduto durante un interrogatorio da una finestra del terzo piano della Questura. La Strage, di chiara matrice fascista, e il probabile omicidio di Pinelli contribuiscono a diffondere nelle file della sinistra extraparlamentare la convinzione granitica che fra gruppi neofascisti, borghesia padronale e istituzioni non esista alcuna differenza, che i tre mondi costituiscano senza sfumature un unico blocco di "nemici del popolo" al lavoro per abbattere con un colpo di Stato ogni residuo di garanzia costituzionale in Italia.
 
Alessandro Bertante
 
 Da lì al convegno di Costaferrata, organizzato in Emilia, nell'agosto del 1970, da un figlio e nipote di partigiani chiamato il Mega (dietro cui si cela Alberto Franceschini), in cui il gruppo di Sinistra Proletaria di Renato e Margherita (ribattezzatasi Mara) si risolve finalmente ad abbracciare la lotta armata, il passo è breve.
 Il nome Brigata Rossa (declinato al plurale solo in seguito alla creazione di diverse cellule) verrà dopo, al rientro a Milano, mentre già si pianificano le prime azioni dimostrative, che si susseguono in un crescendo prima esaltante, poi folle con il passare dei mesi: l'incendio dell'automobile di Giuseppe Leoni, un dirigente della Sit-Siemens considerato dagli operai "uno stronzo e un farabutto", seguito dai roghi delle macchine del capo del servizio di sorveglianza della Pirelli-Bicocca e di quella del capo del personale della stessa fabbrica; l'attentato alla pista prove della Pirelli a Lainate, durente il quale vanno a fuoco otto camion; le rapine di autofinanziamento in alcune filiali bancarie di provincia; il sequestro a scopo dimostrativo di Idalgo Macchiarini, responsabile della ristrutturazione aziendale alla Sit-Siemens e fascista dichiarato; il programmato sequestro - a scopo di interrogatorio - di Massimo De Carolis, giovane e rampante politico della destra democristiana.
 Alberto partecipa alla pianificazione e all'esecuzione di tutti questi colpi - a cui presto si unisce in qualità di brillante organizzatore anche Mario (Moretti) -, e contribuisce a redigere i comunicati di rivendicazione, che nella loro grezza brutalità creano uno stile capace di arrivare al cuore di molti operai sposandone frustrazioni e spirito di rivalsa, e guadagnando alle Brigate Rosse delle origini un largo consenso nei ceti proletari: ne sono testimonianza gli striscioni a sostegno delle Br esposti in occasione del 25 aprile 1971 per tutto il quartiere del Giambellino.
 In tutto questo, il protagonista non si rende conto di aver dichiarato una "guerra immaginaria" - basata sul falso presupposto che nel mondo di quelli che egli considera avversari non vi siano differenze e articolazioni, e che la violenza costituisca l'unica via per far prevalere le motivazioni dei proletari - come gli fa notare il suo amico Arturo, un vecchio libraio antiquario reduce dalla guerra di Spagna, combattuta a fianco dei Repubblicani antifranchisti nelle Brigate Internazionali.
 Una guerra immaginaria che, però, come è facile prevedere, avrà conseguenze quantomai tragiche: ne sono avvisaglie la morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli (nome di battaglia Osvaldo) - sostenitore e finanziatore delle Br e teorico di una forma diversa di lotta armata, ispirata alle forme di resistenza antipadronale dell'America Latina e perseguita con i suoi Gap -, rimasto ucciso in un incidente durante il tentato sabotaggio un traliccio dell'alta tensione a Segrate che avrebbe potuto causare un black out in mezza Milano; e l'assassinio del commissario Luigi Calabresi, maturato nelle file dell'estrema sinistra non brigatista, ma influenzata dai metodi spicci delle Br, capaci di infiammare l'orgoglio di ampi strati dell'universo proletario.
 A mettere fine all'avventura eversiva di Alberto ci pensa la prima vera retata condotta dalle forze dell'ordine contro le Brigate Rosse il 2 maggio 1972 nel covo di via Boiardo; molti dei capi del nucleo storico riescono a sfuggire all'arresto, ma il protagonista, rimasto isolato e senza più appoggi, ha modo di riflettere e di rendersi conto dell'assurdità di ciò che si sta consumando, del fatto che la strada imboccata è una strada senza uscita.
 Aiutato dal suo amico Arturo, il protagonista-narratore lascerà Milano, si rifugerà nelle campagne piemontesi e abbandonerà per sempre l'opzione terroristica.
 Il libro è bello e appassionante: in primo luogo, lo sviluppo della trama consente un'immersione totale nella Milano oscura e affascinante di quel periodo; in secondo luogo il testo, scritto in uno stile semplice, che però riecheggia linguisticamente molti dei luoghi comuni specchio della mentalità dei primi anni settanta, permette al lettore di esplorare "dal vivo" la tragica parabola del terrorismo rosso in Italia nei suoi prodromi, grazie a un punto di vista interno che svincola l'autore dalle prudenti, preliminari prese di distanza di prassi quando si trattano temi così delicati; prese di distanza comprensibilissime, ma che rischiano sempre di stemperare l'acribia analitica nella fiacchezza di un moralismo di maniera.
 
In poche parole: ancora oggi non è semplice parlare in Italia in maniera equilibrata della parabola criminale delle Brigate Rosse partendo da quel complesso intreccio di fermenti ideologici, giuste rivendicazioni, rabbia compressa, presunzione intellettuale, giudizi distorti, folli astrazioni, assuefazione alla violenza, alienazione, superficialità e vanità, che - scaturito dalle generose e vaghe aspirazioni libertarie e palingenetiche del Sessantotto - condusse agli anni acri e agli accessi cruenti del terrorismo rosso.
Ci prova con il suo documentatissimo romanzo storico Alessandro Bertante, concentrandosi sul periodo che va dal 1969 al 1972: la fase in cui si precisarono fin nei dettagli gli obiettivi, le modalità operative, la struttura organizzativa e il retroterra sociale e filosofico dei brigatisti, ma che precedette le brutalità omicide della deriva degli anni successivi. 
Protagonista e voce narrante del racconto che viene fatto è Alberto Boscolo, giovane studente universitario e membro fondatore delle Br; una Nota per il lettore posta in chiusura del libro avverte che dietro questo nome si nasconde realmente un componente del nucleo storico della formazione terroristica che, seppur individuato fin dai primi processi, non fu mai incriminato, avendo abbandonato la lotta armata prima della sua degenerazione cruenta.
Il punto di vista interno, sostanziato da uno stile che riescheggia luoghi comuni e mentalità dei primi anni settanta, svincola l'autore dalle prudenti, preliminari prese di distanza di prassi quando si trattano temi così delicati; prese di distanza comprensibilissime, ma che rischiano sempre di stemperare l'acribia analitica nella fiacchezza di un moralismo di maniera.

Voto: 7

domenica 8 maggio 2022

Primo Levi, "La chiave a stella", Einaudi


  Nell'ambito della letteratura italiana del Novecento, i libri che sanno rappresentare il mondo del lavoro non sono molti; per di più, sulla maggior parte di essi grava un'ipoteca ideologica molto forte che, per quanto perfettamente pertinente, sposta il fuoco della narrazione su quanto sta sopra e intorno al lavoro propriamente detto: pensiamo ai romanzi di Paolo Volponi e Ottiero Ottieri.
 Su questo sfondo, La chiave a stella di Primo Levi spicca nettamente, perché riesce a rappresentare la dignità del lavoro - e persino la felicità del lavoro - al di fuori di gabbie filosofiche o sovrastrutturali troppo incombenti. 
 L'idea centrale da cui Levi parte è espressa limpidamente da una considerazione del narratore che recita: "Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra"
 Questa verità precorre, scavalca e in parte oblitera i rapporti economici che sottostanno al mercato del lavoro, e alle distorsioni e alle ingiustizie che comportano; attinge, per così dire, direttamente all'agire umano in purezza, ai presupposti antropologici delle dinamiche sociali.
 Il personaggio attraverso il quale questo concetto cardine è illustrato è Libertino (detto Tino) Faussone, un operaio specializzato, di professione montatore, che incarna il narratore di secondo grado dalla cui voce viene raccontata la maggior parte delle storie che animano il testo, e che ci vengono riferite dal narratore "titolare". Quest'ultimo - chimico per un azienda di vernici industriali - è sostanzialmente coincidente con la figura dell'autore stesso, e incontra Faussone, torinese come lui, durante una trasferta di lavoro in terra russa.
 Di Faussone veniamo a sapere che ha trentacinque anni, è figlio di uno stagnino e ha lavorato in passato alla catena di montaggio della Lancia. Grazie alla sua abilità, alla sua intraprendenza e alla sua viva intelligenza ha in seguito trovato un impiego in un altro ambito, specializzandosi nel montaggio di grandi tralicci, gru e cavi di ponti sospesi, a volte di dimensioni colossali. 
 Faussone ha scelto il lavoro di montatore perché gli permette di veder crescere con soddisfazione i complicati manufatti che realizza - e che pochi riuscirebbero ad assemblare con la sua stessa perizia - e perché gli consente di girare il mondo: la sua opera può essere richiesta in Africa, in India, in Alaska, in Medio Oriente o in Russia. Tutto ciò, d'altra parte, gli impedisce di avere molti amici, e gli ha sconsigliato di crearsi una famiglia, che dovrebbe abbandonare per mesi durante le lunghe trasferte; ma queste cose sembra non rimpiangerle troppo. Durante i brevi periodi in cui torna a Torino, ospitato dalle sue vecchie zie, la stanzialità finisce per venirgli presto a noia.
 
Primo Levi sul posto di lavoro
 
 In ogni storia che Faussone racconta (che si tratti di un gigantesco derrik eretto presso un impianto di estrazione petrolifera da mettere in opera in mezzo al mare, di una gru capace di sollevare pesi di decine di tonnellate o dei cavi intrecciati tirati tra una campata e l'altra di un modernissimo ponte sospeso, a sostenerne la struttura) il gusto per il lavoro svolto e il ricordo delle difficoltà incontrate sono sempre associate ad emozioni autenticamente umane, ed esprimono una vitalità da homo faber che si avvicina molto a comporre il ritratto di un individuo pienamente realizzato.
 Il narratore di primo grado, a sua volta, non è un ascoltatore passivo: al di là della curiosità con cui pone domande che punteggiano e danno un ritmo alle storie del suo interlocutore, anch'egli interviene raccontando a Faussone le proprie vicende professionali; ne nasce un dialogo basato su un linguaggio tutto particolare, quello dell'impegno quotidiano a cui ognuno è chiamato per ricavare i propri mezzi di sostentamento e per acquisire la dignità propria dell'uomo utile a sé e ai suoi simili.
 Qualche considerazione merita lo stile adottato: perseguendo un effetto realistico, Levi fa di Faussone un narratore tutt'altro che brillante, con la sua tendenza a infarcire il proprio discorso di proverbi piuttosto banali, con la sua mancanza di fantasia nelle similitudini, con il suo linguaggio costellato di vernacolismi e solecismi. Nel complesso, il tentativo di connotare il racconto di una persona dalla modesta preparazione letteraria e dalla cultura umanistica limitata può dirsi riuscito, anche se talvolta si ha la sensazione di una eccessiva insistenza sugli aspetti popolari dell'idioletto di Faussone, con effetti sgradevolmente caricaturali.
 E tuttavia il libro, a più di quarant'anni dalla sua pubblicazione, si continua a leggere con enorme piacere: un testo in cui uno degli aspetti preponderanti della vita della maggior parte di noi trova il giusto spazio per essere trattato con il giusto tono. 
 
In poche parole: attraverso le storie raccontate da Tino Faussone, specialista nel montaggio e nella posa di tralicci, gru e ponti di enormi dimensioni in tutto il mondo, in La chiave a stella Primo Levi rende omaggio all'importanza e alla dignità del lavoro. L'idea centrale da cui l'autore parte è espressa limpidamente da una considerazione del narratore, che recita: "Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra"
Questa verità precorre, scavalca e in parte oblitera i rapporti economici che sottostanno al mercato del lavoro, e alle distorsioni e alle ingiustizie che comportano; attinge, per così dire, direttamente all'agire umano in purezza, ai presupposti antropologici delle dinamiche sociali.

Voto: 7

domenica 1 maggio 2022

Jean Amery, "Intellettuale a Auschwitz", Bollati Boringhieri

 
 
 Intellettuale a Auschwitz è tra i libri cardine che hanno segnato l'analisi della realtà dei campi di sterminio, in cui studiatamente ha preso forma compiuta quella inaudita perversione dell'umano che costituisce l'essenza dell'ideologia nazista. 
 Se il più grande testimone della ferocia dell'universo concentrazionario, Primo Levi, procede sempre dalla narrazione di ciò che ha vissuto in prima persona, per poi ricavarne verità generali, punti fermi teorici di natura, etica, storica e antropologica, Jean Amery parte al contrario da interrogativi o questioni generali di ordine teorico e filosofico, cercando poi le risposte a queste domande nell'esperienza del lager e della violenza subita dai nazisti.
 Il confronto fra i due approcci è in particolare pertinente perché Levi e Amery furono curiosamente richiusi entrambi, per un certo periodo, nello stesso Lager, quello di Buna-Monowitz, sottocampo di Auschwitz, in cui si trovavano come prigionieri ebrei: l'infimo livello gerarchico fra i detenuti-schiavi del campo, considerati sottouomini persino dai criminali comuni e dai prigionieri politici ugualmente confinati dietro il filo spinato, destinati prima o poi alla morte sicura per esaurimento delle forze, o all'eliminazione nelle camere a gas.
 La figura di Amery è assai particolare perché egli non si era mai considerato un ebreo, prima che i nazisti gli imponessero questa etichetta. Nato col nome di Hans Mayer nel 1912 a Vienna in una famiglia di origine ebraica, ma non più praticante da generazioni e perfettamente integrata nella società austriaca, tanto da farne proprie mentalità e tradizioni, era stato brutalmente costretto a prendere atto della strutturazione della società su basi razziste imposta dai nazionalsocialisti dopo l'Anschluss, ed era allora emigrato in Belgio dove, in seguito all'invasione delle truppe hitleriane, si era unito alla Resistenza.
 Torturato dalle SS dopo la cattura e rinchiuso per due anni in diversi campi di concentramento fino alla fine della guerra, scrisse Intellettuale a Auschwitz  solo parecchi anni dopo la Liberazione. 
 Diversi sono gli argomenti che vi vengono presi in considerazione: il primo è quello della disumanizzazione dell'individuo incarcerato che i nazisti scientemente perseguirono nei lager. Prima ancora dell'eliminazione fisica dei prigionieri, infatti, l'ideologia hitleriana contemplava la loro destituzione da tutto ciò che costituisce la ricchezza della condizione umana, vale a dire 1) la facoltà di ogni singolo uomo di percepirsi come individuo libero e pensante, 2) la capacità di elevarsi al di sopra delle proprie funzioni fisiche e del proprio materiale operare, 3) la possibilità di coltivare predilezioni e affetti. 
 I prigionieri-schiavi, così, erano tenuti in vita solo fintantoché erano in grado di svolgere un lavoro manuale a beneficio del Reich. Il tradizionale intellettuale umanista (in cui Amery si riconosce), privo di qualsiasi competenza tecnica, naturalmente, non rientrando in nessuna delle categorie ritenutie "utili" dai nazisti a guardia dei campi, e quindi impiegato perlopiù come bestia di fatica, aveva modo di rendersi conto di tutto ciò con inusitata chiarezza.
 
Jean Amery
 
 Un procedimento analogo a quello messo in atto nei Lager si può riconoscere anche nella pratica della tortura, largamente praticata dai nazisti sui loro nemici, ed esperita personalmente dallo stesso Amery. Un uomo torturato è, di fatto, spogliato di sé e ridotto a un animale dolente, a un corpo che sente e pena, senza più nulla di "spirituale"; perciò, secondo Amery, l'essenza del nazismo è riscontrabile nella tortura non meno che nell'istituzione dei campi di sterminio. 
 Alla luce di tutto ciò, le ingiurie perpetrate dal popolo tedesco nei confronti dei suoi nemici nei tragici anni della propria infatuazione hitleriana sono di tale gravità da legittimare un risentimento che determina l'incancellabilità dei terribili fatti del periodo 1933-45: le colpe accumulate non possono essere dimenticate dopo un generico pentimento o con un semplice colpo di spugna, e non possono passare in prescrizione a cuor leggero, dato che pochissimi furono i tedeschi "giusti", coloro che, anche senza opporsi apertamente al regime (cosa di fatto impossibile in alcuni frangenti), si dissociarono da esso e rifiutarono di sacrificare la propria umanità sull'altare dell'esaltazione nazionalista del luminoso e terribile destino del sangue germanico. Il risentimento - nell'ottica dell'autore - diventa insomma uno strumento per mantenere viva la consapevolezza della tremenda colpa collettiva di cui l'ubriacatura nazista portò il popolo tedesco a macchiarsi.
 Particolarmente interessanti - sia in chiave psicologica sia in chiave sociale - sono poi le questioni identitarie poste nel libro: il bisogno di ogni uomo di avere una patria e il singolare rapporto di Amery stesso con l'ebraismo. Posto che ciascuno ha bisogno di sentirsi legato a una patria, l'autore si trova nella particolarissima condizione di non potere più fare riferimento alla sua originaria identità nazionale tedesco-austriaca - rivelatasi ostile in maniera del tutto inattesa, quasi per reazione autoimmune -, e di doversi quindi paradossalmente cucire addosso nella maniera migliore possibile l'abito di quell'identità ebraica che i nazisti hanno voluto imporgli; senza però riuscirci fino in fondo. Da qui il disorientamento derivante dal fatto di essere un "non-non ebreo". 
 Un disorientamento tanto profondo da condurre Amery - insieme ad altre considerazioni sull'inevitabile processo di invecchiamento e sulla logica imperfetta e fallace che lega la colpa all'espiazione - alla scelta di porre fine alla propria esistenza nel 1978 con una sorta di suicidio filosofico.
 
In poche parole: Jean Amery alla nascita a Vienna, nel 1912, si chiamava Hans Mayer; la sua era una famiglia di antiche origini ebraiche ma non praticante, che si era del tutto integrata nel tessuto sociale austriaco e aveva perfettamente assimilato la cultura germanica. Hans non si era mai percepito come un ebreo; furono i nazisti, dopo l'Anschluss nel 1938 a cucirgli addosso questa identità fittizia; egli reagì emigrando in Belgio, assumendo un nuovo nome e unendosi alla Resistenza dopo l'invasione del Paese da parte delle truppe hitleriane. Catturato, torturato e poi rinchiuso in campo di concentramento, sopravvisse miracolosamente all'Olocausto. Con Intellettuale a Auschwitz egli trae dalla propria esperienza del Lager una riflessione acutissima sulla fondamentale e irredimibile perversione che costituisce l'essenza dell'ideologia nazista. 
 
Voto: 7

martedì 19 aprile 2022

Marilynne Robinson, "Jack", Einaudi

 
 Un uomo e una donna si ritovano per caso di notte dentro il cimitero di Saint Louis, nel Missouri, dove sono stati sorpresi dall'orario di chiusura dei cancelli. Lui vi cerca soprattutto requie dagli affanni quotidiani, e una salutare distanza dal consorzio umano, entro il quale non si è mai sentito perfettamente a suo agio; lei è assetata di poesia e di verità, di uno sguardo diverso sul mondo.
 I due si conoscono vagamente, sebbene i loro precedenti incontri non siano stati privi di sgradevoli malintesi, e forse avrebbero motivo di diffidare l'una dell'altro: lui è considerato da tanti - e ha finito per considerarsi egli stesso - un balordo, uno spostato, un inconcludente fannullone, addirittura un barbone; nonostante sia dotato di una spiccata sensibilità e di una cultura non comune, non ha mai combinato molto nella vita, e la sfortuna e la malevolenza altrui lo hanno addirittura condotto a fare esperienza della reclusione in carcere. Lei è una giovane insegnante di liceo con una rispettabilità da difendere, ma ha la pelle nera, e nell'America segregazionista della prima metà del Novecento questo costituisce già di per sé uno stigma di equivocità.
 L'uomo però è stato cortese con la donna, la prima volta che si sono incontrati; inoltre, sono entrambi figli di uomini di fede, di eminenti e stimati pastori di due diverse chiese protestanti, e hanno rapporti complessi con problemi fondamentali per qualunque religione, quali la dirittura morale e il senso di colpa.
 Può bastare questo terreno comune affinché, in quel contesto singolare, fra i due si instauri un timido ed elusivo discorso amoroso che, fra l'altro, costituirebbe un'aperta sfida alla legge, dato che il Missouri, all'epoca, vieta espressamente i matrimoni "interrazziali"?
 Da questa situazione, mirabilmente illustrata nella lunga e originalissima sequenza iniziale - intessuta di dialoghi e silenzi carichi di sottointesi e suggestioni -, la narrazione prende l'abbrivio. La notte pare cancellare le differenze (prima fra tutte, quella relativa alla diversa pigmentazione della pelle) e crea un raccolto senso di intimità; ma il sorgere del sole svela improvvisamente e impudicamente tutto ciò che si frappone alla realizzazione del sogno vago che sembrava poter prendere corpo tra le tombe. 
 I termini della questione presto si chiariscono: lui è Jack Boughton, viene da Gilead e, dopo tutti i guai in cui si è cacciato e tutto l'imbarazzo che ha provocato al padre e al fratello che caritatevolmente lo mantiene, ha come unica aspirazione quella dell'innocuità. Lei invece si chiama Della, viene da Memphis, è un'anima candida, altruista e curiosa, ma mai si metterebbe in una situazione capace di creare disagio alla sua famiglia.
 Nel mondo che viene disegnato, ogni guizzo di spontanea vitalità pare destinata ad affondare inesorabilmente nella palude del perbenismo, dello scrupolo moralistico, dell'ipocrisia, del pettegolezzo maligno, della paura del giudizio altrui.
 
Marilynne Robinson
 
 Eppure infinite sono le vie per le quali traggono alimento gli umani affetti; primo fra tutti l'amore, che nella scrittura di Marilynne Robinson non ha mai nulla di frivolo o boccaccesco, ma si sostanzia delicatamente di spiritualità e di concreta sensualità. 
 Jack, attratto come il ferro da un magnete, passa continuamente davanti alla casa di Della, preoccupato di cancellare qualsiasi traccia della cattiva impressione che potrebbe avere lasciato in lei non restituendole un libro preso a prestito. Della lo nota, è conquistata dai suoi timori, dalle sue attenzioni, dagli intravisti paesaggi della sua anima pura, lo incoraggia, lo invita in casa sua, ignora tutti coloro che le sconsigliano di frequentarlo - dalla coinquilina, alla zia, dalla sorella ai genitori -; se ne innamora, lo corteggia a sua volta, lo accoglie, accetta di essere con lui "una sola carne", a dispetto delle convenzioni sociali, delle leggi, della riprovazione cattiva dei buoni cittadini pieni di pregiudizi.
 Poi, improvvisamente, la ragazza scompare, e Jack crede di avere perso quella che dentro di sé ormai considera sua moglie, e che non ha paura di designare come tale, incurante del male che potrebbe venirgliene; e alla perdita è disposto a rassegnarsi, per il bene di lei.
 E tuttavia, secondo il precetto biblico, gli uomini non possono dividere ciò che Dio ha unito; Della è incinta, e Jack è destinato a ritrovarla, e la sconcertata famiglia di lei non può che prenderene atto.
 Non credo che esita oggi, nel panorama internazionale, altro scrittore in grado di tradurre in parole un universo psicologico con la stessa precisione che riesce a raggiungere Marilynne Robinson. Forse solo Proust era capace di una simile, completa immersione nel mondo suscitato dalla sua stessa penna. Di qui vengono anche la difficoltà del lettore nel seguire l'autrice fino in fondo nelle sue peregrinazioni, e il senso di saturazione che talvolta ne deriva. 
 Dai suoi libri, in fondo, emana lo stesso senso di una bellezza patente e irriducibile che deriva dallo studio di una reazione chimica, le cui dinamiche è difficile seguire passo passo e comprendere in tempo reale.
 
In poche parole un uomo e una donna si ritrovano per caso di notte dentro il cimitero di Saint Louis, nel Missouri, dove sono stati sorpresi dall'orario di chiusura dei cancelli. Lui vi cerca soprattutto requie dagli affanni quotidiani, e una salutare distanza dal consorzio umano, entro il quale non si è mai sentito perfettamente a suo agio; lei è assetata di poesia e di verità, di uno sguardo diverso sul mondo. 
I due si conoscono vagamente, sebbene i loro precedenti incontri non siano stati privi di sgradevoli malintesi, e forse avrebbero motivo di diffidare l'una dell'altro: lui è considerato da tanti - e ha finito per considerarsi egli stesso - un balordo, uno spostato, un inconcludente fannullone, addirittura un barbone; nonostante sia dotato di una spiccata sensibilità e di una cultura non comune, non ha mai combinato molto nella vita, e la sfortuna e la malevolenza altrui lo hanno addirittura condotto a fare esperienza della reclusione in carcere. Lei è una giovane insegnante di liceo con una rispettabilità da difendere, ma ha la pelle nera, e nell'America segregazionista della prima metà del Novecento questo costituisce già di per sé uno stigma di equivocità.
Da questa strana situazione prende l'abbrivio il delicato discorso amoroso che Marilynne Robinson intesse, mostrando per la restituzione del sentimento del sacro di cui l'anima puritana degli Stati Uniti è ambiguamente imbevuta la stessa finezza psicologica che Marcel Proust palesava nel descrivere i rapporti sociali nella Francia della sua epoca.

Voto: 7