venerdì 31 dicembre 2021

Fabio Genovesi, "Il calamaro gigante", Feltrinelli


 I libri di Fabio Genovesi danno vita a uno stile letterario tutto particolare, che potremmo chiamare "realismo fiabesco": nell'ottica dell'autore, infatti, la realtà è intrinsecamente fiabesca. Ciò non significa che la visione espressa sia banalmente edulcorata, priva di articolazioni concettuali o di profondità; vuol dire invece che la vita e il mondo sono teatri dell'avventura e del mistero, dove il processo della conoscenza può compiersi autenticamente soltanto in una dimensione narrativa, emotiva e simbolica.
 Questi sono i paradigmi entro cui si inscrive anche Il calamaro gigante. In questo testo, che non è propriamente un romanzo, e ha un andamento divagante e sussultorio, Genovesi mette in collegamento il proprio costante spiazzamento al cospetto di un'esistenza che non riusciamo mai a padroneggiare fino in fondo, che riserva sempre delle sorprese, che pare in larga parte inconoscibile e in cui il caso sembra avere un ruolo preponderante con la storia naturalistica della scoperta del calamaro gigante.
 Il calamaro gigante popola le profondità degli oceani, luoghi da cui l'uomo è escluso, ma che pullulano di una vita che duriamo fatica a immaginare, e che procede da millenni indifferente alla nostra presenza sulla Terra. Per secoli, la scienza - nella sua sobria asciuttezza, che talvolta si trasforma in ottusa aridità - ha respinto come frutto di vaneggiamento qualsiasi tentativo di includere nel novero dei viventi quegli strani esseri che comparivano nei racconti spaventati dei marinai. I signori della conoscenza intellettuale di natura libresca tendevano a liquidare le narrazioni della gente di mare come pure leggende, prodotte dal distacco dalla civiltà, dall'abbrutimento, dall'alcol, dalla fantasia storpiata dalla solitudine.
 Eppure c'erano coraggiosi esploratori e persino uomini di lettere capaci di ascoltare chi il mare lo viveva quotidianamente, che avevano raccolto testimonianze e prove giocoforza frammentarie che suggerivano come i resoconti dei fortuiti incontri dei marinai con colossali mostri marini difficili da classificare avessero un fondamento di verità.
 Così, ad esempio, nel Seicento, un prete di Ravenna, don Francesco Negri, che a quarant'anni (età ragguardevole per l'epoca) si mette in viaggio dalla sua terra natale verso il grande nord e, di convento in convento, arriva fino alla terra dei Lapponi e al circolo polare artico per riportarne la prima descrizione del portentoso e terribile Kraken, "un pesce di smisurata grandezza, di figura piana, rotonda, con molte corna o braccia alle sue estremità...".
 Così, nel Settecento, il norvegese Erik Pontoppidan, vescovo di Bergen, che nella sua Storia naturale della Norvegia, a rischio di essere giudicato un folle, include - sulla base dei racconti della gente della costa - "il più grande mostro marino del mondo", e per primo lo battezza calamaro.

Fabio Genovesi

 Così Pierre Denys de Monfort il malacologo di Dunkerque che, alla fine del XVIII secolo, chiamato a completare l'imponente lavoro classificatorio di George Louis Leclerc de Buffon, si gioca tutta la sua credibilità scientifica azzardandosi a parlare - sulla base di una convinzione maturata negli anni - del polpo colossale e del polpo Kraken. Deriso e di fatto escluso dal mondo delle Accademie scientifiche dallo scetticismo dei colleghi, muore povero e solo di fame e di stenti a Parigi, nel 1820 o nel 1821.
 Il problema è che, a un certo punto gli avvistamenti del calamaro gigante da parte delle imbarcazioni che solcano gli oceani si moltiplicano: particolarmente significativo, perché ben documentato, quello che nel novembre del 1861 vede protagonista la nave francese Alecton del capitano Bouyer, lungo la rotta atlantica verso la Guyana. 
 E, con il moltiplicarsi degli avvistamenti, arrivano anche le prime prove concrete: i resti di tentacoli lunghi anche 10 metri raccolti da alcune baleniere, e poi calamari giganti interi, spiaggiatisi sulle coste dell'isola di Terranova e in Nuova Zelanda fra il 1871 e il 1881.
 E allora anche gli scettici devono ricredersi, arrendersi e ammettere che il calamaro gigante esiste; esiste, quasi a nostro dispetto, in abissi che ci sono preclusi, dove quotidianamente ingaggia una lotta per la sopravvivenza con il capodoglio, che se ne nutre e lo caccia, e a volte ne riporta ferite mortali. 
 Come nelle fiabe classiche, anche in questa documentatissima storia, naturalmente, c'è una morale: l'esistenza del calamaro gigante ci insegna che la natura non è al nostro servizio (come ci piace credere), che ne facciamo solo parte insieme a molte altre forme di vita, a volte lontanissime da noi, e la conosciamo meno di quanto pretendiamo di conoscerla - come ci raccontano le miriadi di errori di valutazione che l'uomo ha commesso nel corso della storia della scienza. Forse allora sarebbe il caso di rapportarci in maniera diversa con lei; perché, se la natura può esistere senza noi, noi non possiamo in nessun modo esistere al di fuori della natura. 
 
In poche parole: i libri di Fabio Genovesi danno vita a uno stile letterario tutto particolare, che potremmo chiamare "realismo fiabesco": nell'ottica dell'autore, infatti, la realtà è intrinsecamente fiabesca. Ciò non significa che la visione espressa sia banalmente edulcorata, priva di articolazioni concettuali o di profondità; vuol dire invece che la vita e il mondo sono teatri dell'avventura e del mistero, dove il processo della conoscenza può compiersi autenticamente soltanto in una dimensione narrativa, emotiva e simbolica.
Questi sono i paradigmi entro cui si inscrive anche Il calamaro gigante. In questo testo, che non è propriamente un romanzo e ha un andamento divagante e sussultorio, Genovesi mette in collegamento il proprio costante spiazzamento al cospetto di un'esistenza che non riusciamo mai a padroneggiare fino in fondo, che riserva sempre delle sorprese, che pare in larga parte inconoscibile e in cui il caso sembra avere un ruolo preponderante con una leggenda trasformatasi in dato naturalistico: quella di cui ci parla la storia della scoperta del calamaro gigante.
 
Voto: 7

giovedì 23 dicembre 2021

Patrick Modiano, "Inchiostro simpatico", Einaudi

 
 
  Inchiostro simpatico è uno dei romanzi più allegorici di Patrick Modiano: il protagonista-narratore si cala nelle vesti dell'investigatore privato che per un breve periodo fu da giovane a Parigi, e riflette sul piccolo incarico che gli fu affidato parecchi decenni prima dal suo datore di lavoro, il serafico Hutte, e che consisteva nel cercare di raccogliere notizie utili a ritrovare una ragazza scomparsa, tale Noelle Lefebre.
 L'indagine, all'epoca, non andò a buon fine; la ricerca minuziosamente descritta presso il Fermo Posta, nei locali frequentati dalla ragazza e nell'appartamento da lei occupato non ebbe alcun esito. Ma, nel racconto, i personaggi incontrati allora riprendono vita e assumono l'aspetto ambiguo e vibrante degli individui vivi e vitali, e Noelle acquista una concretezza che l'immagine sfuggente che dall'inchiesta si ricava parrebbe smentire.
 Il fatto è che, da allora, la figura ipotetica di Noelle Levebre si è fissata nella mente del protagonista e che, a intermittenza, il suo pensiero corre a lei, sebbene assai labili siano le tracce del suo passaggio a Parigi, inconsistenti le notizie reperibili nella vallata presso Annecy dalla quale la giovane proveniva e incerta la sua stessa identità: anche il nome - si scopre - potrebbe infatti essere frutto di fantasia.
 La narrazione si trasforma allora in un paradossale corpo a corpo con la realtà, a cui la memoria si sovrappone al punto tale da fare premio su di essa e da trasformarla. Da questo serrato confronto sorge un interrogativo pressante: se la memoria si basa su fondamenta precarie, cosa deve prevalere, cosa è giusto che prevalga, la suggestione di ciò che ricordiamo o un'indefinita sospensione del giudizio? Pur con mille cautele, Modiano ribadisce che sulla memoria occorre puntare, che con la memoria occorre sempre fare i conti, che il filo della memoria va seguito, perché l'alternativa non è una adesione più rigorosa alla verità; semmai è l'indifferenza. 
 
Patrick Modiano
 
 Così, sebbene il passare del tempo non consenta affatto di capire che fine abbia fatto Noelle, sebbene assolutamente irrilevanti siano le informazioni che negli anni arricchiscono la sua vicenda di dettagli secondari, sebbene sempre più sbiadita appaia la memoria di lei in chi ebbe la ventura di frequentarla, l'esigenza di arrivare a definirne l'identità è così ostinata da spingere il narratore a coglierne e a rappresentarne nella maniera più vivida il destino più verosimile. 
 Il finale del libro racconta di una donna che a Roma dirige una galleria d'arte fotografica, dove sono in mostra le foto che ritraggono luoghi e personaggi che con Noelle ebbero a che fare, e che viene interpellata da un misterioso visitatore francese (un alter ego del narratore?) che riesce a dare un nome a quei luoghi e a quei personaggi. I nomi fatti sembrano smuovere qualcosa nella gallerista, che un tempo fu di passaggio a Parigi, prima di trasferirsi in Italia e di cominciare una vita nuova, di assumere addirittura un'identità diversa da quella con cui era conosciuta da giovane e che ora quasi non ricorda più. Che sia lei Noelle Lefebre?
 Una risposta chiara a questa domanda capitale non arriva; eppure la suggestione di quest'ipotesi è tale che il narratore, e il lettore con lui, ne vengono irrimediabilmente risucchiati, tanto che, sotto i loro occhi, la supposizione assume di prepotenza uno statuto di realtà pari a quello che potrebbe essere suffragato dalla più granitica controprova.
 Di certo noi siamo ciò che ricordiamo, e insieme ciò che gli altri ricordano di noi; ma fino a che punto ciò che ricordiamo è, in realtà, soltanto ciò che crediamo di ricordare?

In poche parole: Inchiostro simpatico è uno dei romanzi più allegorici di Patrick Modiano: il protagonista-narratore si cala nelle vesti dell'investigatore privato che per un breve periodo fu da giovane a Parigi, e riflette sul piccolo incarico che gli fu affidato parecchi decenni prima, e che consisteva nel cercare di raccogliere notizie utili a ritrovare una ragazza scomparsa, tale Noelle Lefebre.
Il fatto è che, da allora, la figura ipotetica di Noelle Levebre si è fissata nella mente del protagonista, sebbene assai labili siano le tracce del suo passaggio a Parigi e incerta la sua stessa identità.
La narrazione si trasforma allora in un paradossale corpo a corpo con la realtà, a cui la memoria si sovrappone al punto tale da fare premio su di essa e da trasformarla. Da questo serrato confronto sorge un interrogativo pressante: se la memoria si basa su fondamenta precarie, cosa è giusto che prevalga, la suggestione di ciò che ricordiamo o un'indefinita sospensione del giudizio? Pur con mille cautele, Modiano sembra ribadire che sulla memoria occorre puntare, che con la memoria è indispensabile sempre fare i conti, che il filo della memoria va seguito, perché l'alternativa non è una adesione più rigorosa alla verità; semmai è l'indifferenza.  
 
Voto: 7

sabato 11 dicembre 2021

Anne Carson, "Antropologia dell'acqua", Donzelli


 Il lirismo di Anne Carson agisce sulla realtà come un sonar: restituendo l'eco precisa di sentimenti, accadimenti e rapporti umani, permette di indovinarne la forma, l'ingombro e la natura. Questa è la logica compositiva di Antropologia dell'acqua, che presenta la piana cadenza prosaica di un diario, l'intima concentrazione di una raccolta di poesie e la densità simbolica di un libro di mistica.
 Il volume è sostanzialmente diviso in tre parti: 1) Tipi di acqua. Un saggio sul cammino di Compostela; 2) Solo per il brivido. Un saggio sulla differenza tra uomini e donne; 3) Margini d'acqua. Un saggio di mio fratello sul nuoto. I tre blocchi, in realtà, della scrittura saggistica non hanno nulla, se non l'acribia analitica: si tratta infatti di narrazioni (narrazioni di viaggio le prime due, "stanziale" la terza) di tenore diaristico, ricche di rimandi e di riferimenti poetici che sembrano letteralmente galleggiare sulla superficie di un mare affascinante, misterioso e inquietante nella misura in cui custodisce profondità invisibili e sconosciute.
 La prima narrazione è scandita dalle tappe del Cammino che da Saint-Jean-Pied-de-Port, presso Roncisvalle, porta fino a Santiago de Compostela e oltre, fino a Finisterre, l'estremo limite occidentale d'Europa. La protagonista-narratrice è accompagnata da un uomo, designato "il Mio Cid", come il cavaliere di Burgos, l'eroe della Reconquista: nel rapporto con il "Cid" - sempre vicino, ma reso metaforicamente lontano dalla sua apparente imperturbabilità - l'inquieto io narrante viene definendo le proprie particolarità, le proprie debolezze e il significato per sé del lungo pellegrinaggio che sta compiendo attraverso un paesaggio mutevole, diverso, a volte accogliente, a volte quasi ostile. Ogni tappa è introdotta dalla citazione di un poeta giapponese, spesso quel Matsuo Basho che fu a sua volta instancabile viaggiatore e che dalla propria esperienza di viaggio trasse ispirazione per i propri componimenti.
 Anche Solo per il brivido è il resoconto di un viaggio a tappe: in questo caso la protagonista accompagna il suo uomo "on the road" attraverso le strade d'America, dall'Indiana fino alla California. A differenza di Tipi di acqua, dove prevale la concentrazione sull'io individuale di chi scrive, la seconda narrazione ha come tema dominante il rapporto di coppia: la protagonista sospetta che il viaggio altro non sia che un lungo addio da parte dell'uomo che è stato fino a quel momento il suo compagno, che ogni notte campeggia con lei in un luogo diverso, e intorno al corpo del quale gravitano il suo affetto e il suo desiderio di femmina. Dalla propria esperienza l'io narrante cerca di dedurre regole generali sulle dinamiche della relazione tra uomini e donne; su quello che stereotipicamente e forse un po' riduttivamente altri chiamano amore. Nel corso del viaggio e nel suo inevitabile approdo maturerà nella protagonista una consapevolezza quasi zen del fluire del sentimento e della precarietà di ogni pretesa progettualità emotiva.
 
Anne Carson
 
 Il terzo blocco di scritti, pur conservando una cadenza diaristica, è molto diverso dai primi due, perché ha per protagonista non una versione "agente" del personaggio di chi scrive, ma suo fratello: un ragazzo pieno di ombre, che è partito per il mondo, e che da tempo non dà notizie di sé. La simbologia legata all'elemento liquido, che nei due precedenti racconti era presente soprattutto in filigrana, qui viene esplicitata e ipostatizzata nella pratica del nuoto nella quale quotidianamente, quando le condizioni atmosferiche lo consentono, il protagonista si cimenta nelle acque variabili del lago che si scorge dalla finestra della sua casa. L'immersione nell'acqua, il mutare della luce, dei colori, della temperatura diventano qualcosa di più e di diverso dai correlativi oggettivi degli stati d'animo dell'uomo; sono piuttosto parte integrante dell'elasticità e della permeabilità dell'essere, che nella visione qui esplicata tende a fare tutt'uno col mondo.
 Il terzo racconto, fra l'altro, diventa fondamentale per chiarire il senso del titolo del libro, Antropologia dell'acqua: come viene detto in La pietra del desiderio - Introduzione a Margini d'acqua, l'acqua si può paragonare al Qi, la parola cinese che serve a designare il "respiro" o l'"energia vitale"; è l'elemento in cui si compendiano la morfologia e la fenomenologia del nostro essere. "Noi fluttuiamo sull'acqua, al giusto livello ogni cosa nuota" dice il fratello alla narratrice. Andando anche oltre, potremmo addirittura dire che, in una certa misura, noi siamo acqua: come acqua fluiamo, come acqua possiamo cambiare forma, come acqua possiamo intorbidarci o illimpidirci, lasciare filtrare la luce o schermarla, custodire la vita o spegnerla, lasciar fluttuare ogni cosa o colarla a picco e precipitarla sul fondo.
 Non esiste forse metafora più discreta e appropriata per descrivere la vita.
 
In poche parole: il lirismo di Anne Carson agisce sulla realtà come un sonar: restituendo l'eco precisa di sentimenti, accadimenti e rapporti umani, permette di indovinarne la forma, l'ingombro e la natura. Questa è la logica compositiva di Antropologia dell'acqua, che presenta la piana cadenza prosaica di un diario, l'intima concentrazione di una raccolta di poesie e la densità simbolica di un libro di mistica.
Lo strano titolo richiede senz'altro una spiegazione: nella logica metaforica dell'autrice si può dire che noi siamo acqua. Come acqua fluiamo, come acqua possiamo cambiare forma, come acqua possiamo intorbidarci o illimpidirci, lasciare filtrare la luce o schermarla, custodire la vita o spegnerla, lasciar fluttuare ogni cosa o colarla a picco e precipitarla sul fondo.
Non esiste forse metafora più discreta e appropriata per descrivere la vita.
   
Voto: 7