domenica 26 marzo 2017

Marilynne Robinson, "Le cure domestiche", Einaudi


 Pubblicato negli Stati Uniti nel 1980, ma proposto in traduzione italiana solo alla fine del 2016, Housekeeping è un romanzo profondo e complesso. 
 Si presenta come la storia di due ragazzine e della loro famiglia, narrata da una di loro; ma nella sostanza, è la rappresentazione poetica ed onirica delle tensioni affettive ed emotive che danno linfa ai legami tra le persone, e nel contempo costituisce l'esplorazione del crinale psicologico che divide atteggiamenti, aspirazioni, scelte e sentimenti contrastanti: il bisogno della stabilità e il gusto per la precarietà, la ricerca della socialità e la spinta verso la solitudine, la persistenza del passato e l'apertura verso il futuro, la mitologica concretezza di chi continua a vivere per noi soltanto nell'ostinata fissità dei ricordi, e la rarefatta molteplicità con cui si presenta alla nostra mente l'immagine di chi ci accompagna nella quotidianità, e attraversa il tempo mutando insieme a noi.
 Ruth e Lucille giungono a Fingerbone al seguito della madre Helen, che una domenica mattina - con l'auto presa in prestito da Bernice, una vicina di casa gentile - guida fino al luogo in cui è cresciuta, lascia le due bambine con una scatola di biscotti sui gradini della veranda dell'abitazione della loro nonna, Sylvia Foster, e poi va a gettarsi nel lago lì di fronte.
 Il lago è una presenza onnipervasiva a Fingerbone: frequenti sono le alluvioni in città, e quando piove molto l'acqua affiora nei campi e nelle cantine delle case. Il lago entra in tutte le leggende locali, ed è stato teatro di terribili tragedie: una volta vi è precipitato un treno intero, deragliando sopra il ponte che lo attraversa con i macchinisti, i frenatori e tutti i passeggeri; fra di essi, anche Edmund Foster, il nonno di Ruth e Lucille, colui che dal Midwest aveva deciso di trasferirsi a Fingerbone, e aveva costruito con le sue mani la vecchia casa della famiglia. Nessuna delle vittime dell'incidente era mai stata restituita dalle profondità oscure e melmose del vasto specchio d'acqua.
 Rimaste orfane, le due bambine - che non hanno mai conosciuto il loro padre - vengono cresciute per cinque anni dalla nonna materna, e poi, dopo la morte improvvisa di costei, dalle due cognate di lei, Lily e Nona Foster, due gentili, tolleranti, timorose, anziane signorine assolutamente incapaci di educare Ruth e Lucille e di prendersi cura davvero di loro.
 Un giorno, però, torna a Fingerbone Sylvie, la sorella di Helen, la zia naturale delle bambine. Sylvie ha trentacinque anni, indossa un bel vestito, un ampio cappotto e leggere scarpette estive nonostante si sia in pieno inverno; le sue mani sono rosse e screpolate, come quelle di chi ha l'abitudine di passare molto tempo all'aria aperta.
 Lily e Nona sono ben felici di tornare alla loro vecchia stanza in affitto e alle loro antiche abitudini, e di lasciare Ruth e Lucille nelle mani della più giovane nipote. Comincia così la vita in comune delle due sorelle con la zia, che all'inizio le diverte e le incuriosisce con le sue originalissime storie di viaggio, e le conquista con la grande libertà che lascia loro in ogni cosa; poi però le disorienta e le inquieta con la stramberia che palesa sempre di più agli occhi degli abitanti della cittadina.
 Sylvie è svagata, distratta, ha l'indole di una sognatrice e dà sempre l'impressione di ritenere che ciò che vede abbia una concretezza inferiore a ciò che pensa. Sylvie non ha orari - e non ne impone alle due ragazzine -, rimane spesso fuori casa fino a quando fa buio, e non ha paura di inoltrasi da sola nel bosco, o di avventurarsi sul lago con una barca a remi trovata sulla riva e presa a prestito; solo i cani da guardia la intimoriscono, come di solito accade ai vagabondi.

Una foto dei primi anni ottanta, che ritrae Marilynne Robinson (a destra) insieme ad Alice Munro, scrittrice canadese insignita del premio Nobel alcuni anni orsono

 Sylvie non si cura troppo della pulizia della casa, ma accumula con attenzione meticolosa barattoli, riviste, piccoli oggetti, di cui riempie il tavolo della cucina e tutte le mensole, come se attraverso di essi volesse conservare intatta la memoria del tempo che passa. Sylvie ama tornare in luoghi dimenticati da tutti, come quella casa diroccata che sorge in una stretta valle sull'altra sponda del lago, e le sembra di avvertire gli spiriti di coloro che in quei terreni abitarono in tempi remoti, e di poter intrattenere un intimo colloquio con loro, come con tutti quelli che il lago ha inghiottito, e a cui pensa come fossero ancora presenti al suo sguardo.
 Delle due ragazzine, è Lucille quella che soffre di più delle stranezze della zia: Lucille, che ha i capelli rossi, un carattere volitivo e ama stare in mezzo agli altri; a cui piace studiare, e il cui corpo fiorisce femminilmente prima di quello della sorella, che pure ha un anno in più di lei.
 Ruth - che diventerà la narratrice della storia -, invece, è alta, sottile e senza seno, teme la compagnia degli estranei, e si sente attratta dal modo di essere e di pensare di Sylvie; come la zia, Ruth è svagata e ipersensibile, e a tratti le sembra quasi di vivere da invisibile dentro la sua ombra, o di incarnare semplicemente la proiezione del ricordo di sua madre Helen che Sylvie conserva.
 Lucille, quando la vita in casa loro si fa così disordinata da diventare per lei insostenibile, lascia Sylvie e Ruth, e si rifugia presso una sua vecchia insegnante che le è affezionata; Ruth, al contrario, entra sempre più in simbiosi con la zia, smettendo a poco a poco di frequentare la scuola e seguendola nelle sue incursioni nel bosco o nelle sue scorribande notturne sulle acque gelide del lago, magari rientrando a Fingerbone all'alba, su un treno merci su cui è saltata clandestinamente per tornare a casa dal luogo lontano a cui lei e Sylvie sono approdate.
 Le ripetute assenze da scuola di Ruth e la sua vita sregolata non mancano di attirare l'attenzione dei vicini di casa e poi delle autorità cittadine, allertate da qualche osservatore in perfetta buona fede. Quando lo sceriffo le fa visita, Sylvie cerca, con ammirevole impegno, di conformare le proprie "cure domestiche" all'idea che di esse hanno le pie, generose, apprensive donne di Fingerbone; la collezione di barattoli di latta sparisce, il pavimento comincia ad essere spazzato regolarmente, compaiono graziose tendine alle finestre, i numerosissimi gatti che popolano il salotto vengono messi fuori. Ma ormai un giudice è stato allertato, e si è messo in moto un processo che porterà inevitabilmente alla forzosa spaccatura della famiglia che Ruth e Sylvie sentono di costituire, insieme a tutti i loro cari morti, o partiti per terre lontane, e non più ritornati.
 L'unico modo per evitare la separazione è la fuga: Ruth e Sylvie riescono a metterla in atto alla vigilia dell'udienza per la quale sono state convocate, dando fuoco alla vecchia casa costruita a suo tempo da Edmund Foster, e facendo credere a tutti di essere annegate nel lago.
 Da quel giorno si trasformeranno in vagabonde, passando di città in città con i loro cappotti svolazzanti, trasferendo la loro casa da un luogo fisico a quell'angolo della loro mente che gelosamente conserva il ricordo di tutti coloro che sono stati, e dove permane l'attesa del momento della riunione con Lucille, il pezzo mancante del loro nido domestico, che Ruth e Sylvie continuano a immaginare a Fingerbone, mentre aspetta il loro ritorno.
 Marilynne Robinson riesce a confezionare un ampio, raffinatissimo tessuto di parole dai molteplici riflessi e dall'effetto ipnotico, che aderisce talmente bene ai personaggi da creare un morbido calco dei loro caratteri, che il lettore è implicitamente invitato a riempire e ad animare con i propri sentimenti.
 La lettura si trasforma così in un'esperienza affascinante e in un'emozione sempre nuova: ogni frase porta con sé risonanze che richiamano significati ulteriori rispetto a quelli che appaiono evidenti in un primo momento. Si ha sempre la sensazione che rimanga qualcosa in più da capire; e alla rilettura ogni passaggio si arricchisce di nuove coloriture, e un suggerisce un senso più profondo. La cura meticolosa dei dettagli lessicali e sintattici è tale che tutto si tiene, e non succede mai di avere l'impressione che qualcosa possa essere detto meglio di come viene effettivamente detto; una caratteristica propria della migliore letteratura.

Voto: 8    

domenica 19 marzo 2017

Daniele Rielli, "Storie dal mondo nuovo", Adelphi


 Storie dal mondo nuovo è una raccolta di dieci reportage realizzati da Daniele Rielli (giovane giornalista del Venerdì di Repubblica) su personaggi, luoghi, storie, fenomeni, ambienti i più vari, accomunati dai loro patenti addentellati con la contemporaneità e dal tentativo dell'autore di osservare quanto descritto "dall'interno", svincolandosi dai punti di vista con i quali vengono generalmente considerati i temi affrontati, e dai pregiudizi che inevitabilmente ne derivano. 
 La caratteristica più notevole di questi scritti risiede nel linguaggio utilizzato che, per un verso, fa sfoggio di una competenza terminologica assoluta, da "iniziato" degli ambiti sui quali si svolge l'indagine, impiegando sovente vocaboli tecnici e settoriali; d'altro canto, prova ad affrancarsi dalla pura e semplice gergalità, per elaborare uno strumento capace di rispecchiare una più evoluta coscienza critica e di restituire una visione problematica dello spicchio di realtà che viene raccontato.
 Il primo reportage si intitola Il retroscena, del retroscena del retroscena e rappresenta il Parlamento italiano dal punto di vista di un giornalista che ha libero accesso a quello che dovrebbe essere il "tempio" della democrazia rappresentativa, e che invece sembra un disco volante, abitato da alieni del tutto avulsi dalla realtà che si respira "fuori". Rielli riesce tutto sommato a rendere l'atmosfera asfittica di quell'ambiente particolarissimo, che è l'incubatrice del potere e delle sue logiche felpate, senza scivolare nei luoghi comuni di un populismo di maniera. Nel suo scritto ho ritrovato invece gli accenti di alcuni di quei "romanzi parlamentari" che andavano di moda all'inizio del Novecento (come ad esempio L'imperio di Federico De Roberto).
 Il secondo reportage, Disrupt!, è il resoconto di un evento londinese in cui i (mediamente giovani) titolari di startup operanti nei più diversi settori economici presentano (a colpi di pitch, brevissime presentazioni di pochi minuti ciascuna) i propri prodotti a una platea di giornalisti, possibili investitori e nerds, con la pretesa di rivoluzionare il mondo grazie all'utilizzo della tecnologia. La segreta ambizione di ognuno di quei giovani imprenditori (vestiti per lo più con felpa d'ordinanza) è quella di far diventare la propria azienda un "unicorno", cioè in un'impresa valutata più di un miliardo di dollari.
 Spesso le soluzioni proposte sono molto curiose: c'è una app che "fa parlare" gli oggetti che vengono inquadrati dalla telecamera dello smartphone, spiegando di cosa si tratta e quali sono gli argomenti ad essi correlati; c'è la startup che produce film in cui si possa virtualmente "entrare"; ci sono perfino soluzioni per produrre automaticamente sceneggiature cinematografiche a partire dalle predizioni probabilistiche sui potenziali incassi.
 Il problema è che, da una parte, non è affatto detto che aziende che propongono soluzioni anche molto brillanti, a conti fatti, facciano effettivamente guadagnare il venture capitalist che decide di investire su di loro; dall'altra, a dispetto di visioni futuribili che esaltano le magnifiche sorti e progressive della tecnologia, sembra che l'effetto più immediato dell'introduzione di alcune innovazioni "rivoluzionarie" sia semplicemente l'aumento delle marginalità di chi già possiede un'azienda ben avviata in un determinato settore e che può applicare l'innovazione tecnologica ottenendo una drastica riduzione della forza lavoro necessaria a rendere operativi i processi di produzione: i reali benefici per la collettività sarebbero minimi. E, tutto sommato, si può dire che nel mondo della Smart Technology ci sia anche un'enorme quantità di fuffa.
 I problemi sono altri è un'incursione nel mondo dei writers e degli street artists, ambiente che Rielli dice di aver brevemente frequentato nel corso della propria adolescenza. Il dilemma che accomuna queste discipline affini ma diverse è quello tra il desiderio di conservare un profilo "controculturale" e la tentazione di cedere alle lusinghe dei galleristi per entrare nel circuito dell'arte ufficialmente riconosciuta. Permangono, comunque, di questo universo alternativo, il fascino underground, l'importanza fondamentale della "street credibility" nel determinare le fortune di un artista e lo scorrere dell'adrenalina durante azioni che, a ben vedere, sono sempre considerate illegali e, in alcuni Paesi, espongono al rischio di pene anche molto pesanti.
 La fine della linea è un'immersione nel clima particolarissimo di "Little Odessa", il quartiere di South Brooklyn in cui si è concentrata nel corso dei decenni l'emigrazione - soprattutto ebraica - dall'ex Unione Sovietica, e dove oggi si conserva un'atmosfera tipicamente est-europea e caratteristicamente novecentesca, che nei Paesi di provenienza degli emigrati è totalmente scomparsa.
 Frank è la cronaca di un incontro con il leggendario Frank Serpico, lo sbirro italoamericano "abile nei travestimenti con i capelli lunghi e una fascinazione per controcultura e belle donne", che negli anni settanta per primo denunciò, rivolgendosi al New York Times, la sistematica corruzione della polizia di New York.
 Serpico rischiò di pagare con la vita il suo coraggio da whistleblower (i colleghi, che glie l'avevano giurata, fecero in modo che cadesse nella trappola di un gruppo di spacciatori e, quando fu colpito, non chiamarono i soccorsi, sperando che la sua ferita fosse mortale; non furono fortunati). Forse per questo, ancora oggi dichiara di stare dalla parte di personaggi come Manning, Assange e Snowden, e non crede nel mito della democrazia americana. Con tutte le sue bizzarrie e il suo pittoresco modo di essere, appare comunque una figura davvero bigger than life.

Daniele Rielli

 Duecentoventi voti è la storia dell'interessantissima, progressiva scoperta da parte dell'autore dell'Albania contemporanea (grazie anche a un occasionale amico, il Pedrazzi), che ha da tempo superato il trauma della caduta della dittatura socialista (che lì ebbe per molto tempo le sembianze del terribile Enver Hoxha), e si è aperta ai nuovi miti turbocapitalisti, smettendo di guardare all'Italia come a una terra promessa, e trovando piuttosto nuovi punti di riferimento culturali nella Germania e negli Stati Uniti.
 L'ultimo rave è il racconto di un pazzo weekend passato al Mugello per l'annuale Gran Premio di Moto GP, fra i fans dell'ultimo grande mito dello sport italiano, quel Valentino Rossi che si avvia verso il tramonto di una carriera irripetibile. Il tutto, tra motori (di auto, motociclette o anche di motoseghe) spinti al massimo giorno e notte per fare più rumore possibile, e i roghi simbolici delle effigi dei principali avversari del "46 giallo".
 L'anomalia è probabilmente uno dei pezzi più interessanti, ed costituito da un'informatissima ricognizione dell'universo di quella declinazione del Poker tradizionale che è il Texas Hold'em, fra professionisti con un profilo più simile a quello di analisti finanziari che di classici giocatori d'azzardo (capaci comunque di guadagni calcolabili in decine di migliaia di euro al mese), e Fishes - danarosi ludopatici da spogliare delle loro sostanze (che, quando sono particolarmente cospicue, individuano una Whale).
 Nell' Hold'em, è fondamentale distinguere tra i tornei on line e quelli "in presenza" (Rielli ha l'occasione di assistere ad uno di questi in Montenegro, dove si reca al seguito di un professionista italiano), il ruolo fondamentale della statistica e l'ineliminabile incidenza della varianza nel succedersi delle partite, le strategie classiche e i mutamenti negli stili di gioco determinati dall'avvento di internet e dall'ingresso nel circuito di amatori sufficientemente preparati e talvolta abbastanza fortunati da sbaragliare la concorrenza dei più agguerriti tra i professionisti (come nel caso, divenuto di scuola, di Chris Moneymaker, il pokerista dilettante dal nome profetico capace di vincere 2,5 milioni di dollari nel main event delle World Series del 2003).
 Fasano, India è la cronaca di un fantasmagorico matrimonio fra i rampolli di due delle più ricche famiglie indiane, che nell'agosto del 2014 ha avuto come location la Puglia, e di cui hanno abbondantemente parlato anche i giornali nazionali. Vero regista dell'evento risulta essere il discusso Sindaco di Fasano, Lello Di Bari, promotore nella propria area geografica delle condizioni capaci di attirare un turismo di ultralusso, appannaggio esclusivo di personaggi super-danarosi, indipendentemente da qualsiasi considerazione sul rispetto dell'ambiente e sulla prospettiva di una gestione "democratica" del territorio e delle sue bellezze.
 Il decimo e ultimo reportage si intitola Io che ho attraversato l'Alto Adige. Il titolo è tratto da una battuta del film Totò e Peppino divisi a Berlino, ma rispecchia il vissuto personale di Rielli, che a Bolzano è nato - da una famiglia di italiani ivi emigrati dal Meridione - e lì ha vissuto l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza. Il pezzo è secondo me il più bello dell'intera raccolta, forse perché appare immediatamente il più sentito: si tratta infatti di un'analisi approfondita e di una denuncia esplicita dell'anomala, assurda situazione in cui - al cospetto della totale indifferenza di tutti gli osservatori - versa da anni il Sudtirolo-Alto Adige.
 Qui, nel cuore dell'Europa delle democrazie, risulta operante da tempo un sistema che non si può che definire di Apartheid, e che, sotto l'ombrello dell'autonomia, concede alla comunità maggioritaria di lingua tedesca vantaggi di ogni tipo sulla minoranza italiana. Gli effetti della discriminazione sono appena mitigati dal generale benessere in cui versa una Provincia che beneficia di notevolissimi contributi economici dallo Stato italiano.
 A una situazione del genere, nemica di ogni forma di civile convivenza e di compiuta integrazione, si è giunti per via di una sostanziale resa dello Stato alle rivendicazioni di una comunità tedesca sovente guidata da personaggi legati a filo doppio all'ideologia nazista, e portatori di un pensiero di matrice manifestamente razzista, che hanno condotto la loro lotta attraverso una propaganda martellante supportata negli anni da azioni terroristiche (con censurabilissimi protagonisti quali Georg Klotz) che hanno avuto come bersaglio le infrastrutture e gli uomini delle istituzioni italiane, e che hanno causato, fino alla fine degli anni ottanta, ben tredici morti innocenti.
 Oggi le norme vigenti, figlie di quella stagione sciagurata, vietano di fatto un trattamento paritario di italiani e tedeschi, e sono pensate per perpetuare separazioni che impediscono a chiunque di sperare in una maggior compenetrazione tra le due comunità (le scuole miste per esempio sono, se non esplicitamente vietate, di fatto fortemente scoraggiate), esaltando quello che le unisce anziché quello che le divide.
 La conclusione dell'articolo è magistrale, ed è il caso di riportarla integralmente:
 "Di fronte a questo territorio si aprono oggi solo due possibilità.
 La prima, auspicabile, che l'Alto Adige diventi un po' più simile al resto d'Europa.
 La seconda, radicale, impronunciabile eppure non impensabile, è che sia il resto d'Europa, assediato da flussi di migranti, attentati e nuovi populismi, a riscoprire il sangue e il suolo, a somigliare sempre di più all'Alto Adige".
 Nel complesso, il libro costituisce una lettura molto gradevole e istruttiva. La varietà dei temi trattati è compensata dalla consistenza della personalità letteraria dell'autore, che impedisce all'eterogeneità contenutistica di diventare un elemento destrutturante. Forse il limite più grande della raccolta è un certo autocompiacimento stilistico che si sente in vari passaggi, ma che non inficia la generale bontà del dettato.

Voto: 6,5             

domenica 12 marzo 2017

Tullio Giraldi, "Farmaci e psicoterapia", Il Mulino



(Recensione di Laura Uva, neurobiologa)

 L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sta dedicando grande attenzione alla depressione, considerata un problema globale, poiché affligge complessivamente 350 milioni di persone: si prevede che nel 2020 essa sarà la seconda causa di disabilità al mondo.
 Ma cos’è di preciso la depressione? L’OMS la definisce come un “comune disordine mentale, caratterizzato da umore depresso, perdita d’interesse e piacere, diminuita energia, sentimenti di colpa o di auto-svalutazione, disturbi del sonno e dell’appetito, e ridotta concentrazione”.
 La condizione di depressione non deve essere confusa con la tristezza normale, che è una risposta psicologica, adattativa comune in condizioni avverse (lutto, perdite economiche, delusioni…).
 La prima definizione di depressione risale al V-VI secolo a.C., e venne elaborata da Ippocrate. A quei tempi si parlava di melancolia, una condizione caratterizzata da paura e scoraggiamento per tempi prolungati, attribuita ad un eccesso di bile nera (uno dei quattro umori contenuti nel corpo umano).
 Fu con Adolf Meyer, psichiatra di origine svizzera emigrato negli Stati Uniti nel 1892, che si ebbe la sostituzione della categoria di melancolia con quella di depressione.
 Nel 1952 fu pubblicata la prima edizione del Manuale Statistico Diagnostico dei Disordini Mentali (DSM) da parte dell’Associazione Psichiatrica Americana, che rispondeva alla necessità di istituire uno strumento condiviso per la diagnosi delle malattie mentali; il Manuale si limitava però a considerare i sintomi, e non i meccanismi o le cause interne o esterne determinanti la malattia. Alla prima edizione ne seguirono altre, fino alla DSM-V presentata nel 2014.
 Secondo il DSM-III (pubblicato nel 1980), per la diagnosi di depressione (non maniacale) si devono soddisfare tre condizioni: 1) umore disforico; 2) almeno 5 tra i sintomi indicati in un lungo elenco di possibili manifestazioni della patologia (come ad esempio la perdita di peso, la spossatezza, l’agitazione permanente, l’insonnia, ecc.) e 3) la durata continuativa per almeno un mese dei sintomi stessi, senza l’intervento di altre malattie. Inoltre si venne a definire il disturbo depressivo maggiore (MDD), disturbo unipolare distinto da altri disturbi depressivi.
 Ancora assente risulta la distinzione tra tristezza come normale emozione e tristezza morbosa, con il rischio quindi della patologizzazione di persone incidentalmente incappate in momenti difficili in modo non-patologico (questa condizione viene invece descritta e riconosciuta in un documento pubblicato nel 2012 dell’OMS).
 La definizione di MDD e la diffusione di scale psicometriche utilizzate per valutarne l’intensità (per esempio la scala di Hamilton) portò a una crescita dei casi di depressione diagnosticati e, in parallelo, ad un aumento della prescrizione dei farmaci antidepressivi.
 E tuttavia non si può non notare come, dal momento dell’introduzione dei farmaci antidepressivi, il numero dei depressi non risulta diminuito. Questa osservazione apre una serie di quesiti riguardanti l’accuratezza della diagnosi e l’efficacia degli antidepressivi stessi.
 Giova a questo proposito notare che anche i rimedi per la depressione hanno una loro storia, che ha visto il succedersi nel tempo di diversi  approcci. Per quanto riguarda la farmacoterapia, i mezzi a disposizione della psichiatria nell’Ottocento e nel Novecento erano piuttosto limitati. Dopo la seconda guerra mondiale si ebbero invece importanti scoperte riguardanti meccanismi biochimici, i neurotrasmettitori cerebrali e, sul versante farmacologico, lo sviluppo degli psicofarmaci.
 Con gli anni ’50 iniziò l’utilizzo di due farmaci antidepressivi: imipramina e iproniazide, capostipiti degli antidepressivi triciclici (TCA) e degli inibitori delle monoaminossidasi (MAOI). Fu invece alla fine degli anni ’80 che fece il suo ingresso sul mercato la fluoxetina (il famoso Prozac), che agisce come inibitore della ricaptazione della serotonina (SSRI).

Tullio Giraldi

 Il Prozac è stato un grande blockbuster, prescritto a 40 milioni di persone, tanto da essere definito dalla rivista Fortune “il prodotto farmaceutico del secolo”.
 Ma come agiscono in effetti gli antidepressivi? E, soprattutto, si possono oggi trarre conclusioni incontrovertibili sulla loro efficacia?
 I TCA e gli SSRI agiscono rispettivamente inibendo, il primo, la ricaptazione della noradrenalina e della serotonina, e, il secondo, la ricaptazione della sola serotonina, con un aumento della sua concentrazione nello spazio extracellulare.
 Questo meccanismo d’azione è a favore della teoria del deficit della trasmissione monoaminergica (noradrenalina e serotonina sono delle monoamine) nella depressione, la cui validità però non è mai stata direttamente dimostrata, e anzi è messa in discussione da una serie di evidenze cliniche che l’autore riporta.
 Sull’efficacia dei farmaci antidepressivi sono stati eseguiti diversi studi che, nel loro insieme, portano alla conclusione che la terapia farmacologica antidepressiva è efficace solo per le depressioni gravi (in cui l’effetto placebo è meno rilevante) e in acuto, mentre la loro efficacia a lungo termine va ancora dimostrata.
 Anche lo studio STAR*D (Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression), iniziato nel 2000 negli Stati Uniti e durato sei anni, in cui furono analizzati gli esiti di una terapia a più step somministrata a pazienti con MDD, non ha fornito risultati confortanti sull’efficacia del trattamento.
 Studi recenti, infine, hanno messo in evidenza come la combinazione del genotipo (in particolare la lunghezza del promotore del gene che regola il trasportatore sinaptico della serotonina, bersaglio degli SSRI) e di eventi di vita stressanti sia importante per il manifestarsi della patologia, e nel determinare la sua severità. Altri studi hanno di volta in volta ridimensionato o riconfermato l’importanza di questo gene.
 L’ultimo aspetto che prende in esame l’autore è la sicurezza dei farmaci antidepressivi. Rispetto a TCA e MAOI (che causano seri effetti avversi), si ritiene che i farmaci SSRI abbiano meno effetti collaterali, anche grazie alla loro azione più selettiva. In realtà, anch’essi possono procurare effetti collaterali importanti. Il più sorprendente (sebbene poco frequente) è l’aumentato rischio di suicidio, cosicché sulle confezioni del farmaco negli Stati Uniti è obbligatorio indicare il maggior rischio suicidario tra i 18 e i 24 anni.
 Proprio la maggiore tollerabilità degli SSRI ha fatto sì che questi venissero prescritti anche per le forme più lievi di depressione o per altre condizioni consimili, quali attacchi di panico o disturbi alimentari. In più, il fatto che la diagnosi di depressione si basi solo sulla sintomatologia ha fatto sì che la diagnosi di MDD andasse ad includere anche casi più moderati, se non addirittura stati d’animo di tristezza “normali”, a cui segue la prescrizione di farmaci antidepressivi.
 Va inoltre segnalata la pressione operata dai produttori per aumentare il numero delle prescrizioni degli antidepressivi. Questo fornisce all’autore l’occasione per avanzare il sospetto che, nel trattamento farmacologico della depressione, si sia verificata una perdita di valori etici e scientifici a favore del marketing e delle industrie farmaceutiche, e che sia stata assai discutibile, in questo settore, la gestione dei trial clinici che precedono la messa in commercio dei nuovi farmaci. Anche l’autorevolezza e l’integrità della comunicazione scientifica medica sembrano talvolta vacillare a causa di conflitti d’interesse o di rapporti con i media o le ditte farmaceutiche.
 Buoni risultati sono stati ottenuti in Gran Bretagna grazie all’applicazione delle linee-guida per il trattamento della depressione elaborate dal NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence), in cui, tra le varie indicazioni, si stabilisce l’abbandono o la riduzione dell’utilizzo dei farmaci antidepressivi nel caso di depressione lieve o moderata, o con sintomi “sotto-soglia”, e in cui viene dato spazio alla psicoterapia cognitivo-comportamentale.
 Un altro approccio interessante per l’attenuazione delle manifestazioni ansiose e depressive si basa invece sulla meditazione; questo metodo è da intendersi non per i malati mentali, ma nel caso di stati non morbosi. Naturalmente un approccio non esclude affatto l’altro.
 Le problematiche affrontate nel libro sono interessanti e attuali: è sotto gli occhi di tutti l’aumento dell’incidenza delle patologie depressive (in 10 anni si è avuto un aumento dei casi di quasi il 20%), tanto che qualcuno si è spinto a definire la depressione “il male del secolo”.
 Risulta senz’altro utile, quindi, fare il punto della situazione.
 A questo scopo concorre la definizione del percorso storico del progresso delle conoscenze sulla malattia e sul suo trattamento, fino ad arrivare al giorno d’oggi.
 Significativa è in particolare la conclusione a cui si giunge: tutto al momento è ancora nebuloso. perché mancano molti tasselli al puzzle che in futuro potrà descrivere compiutamente i meccanismi che stanno alla base della depressione.
 Le informazioni che vengono fornite dall’autore sono giocoforza numerose e complesse, anche perché, in mancanza di una solida definizione di questa categoria patologica, è indispensabile rendere conto dei punti di vista diversi e delle opinioni talvolta contrastanti di vari studiosi per fornire un quadro completo della considerazione clinica della depressione al giorno d’oggi.
 Questo naturalmente implica il moltiplicarsi degli approcci e delle tematiche che vengono trattate, richiamando concetti frammentari e talvolta ostici per chi non abbia una formazione scientifica più che solida: la lettura risulta di conseguenza non sempre semplicissima.
 In conclusione, a chi consigliare questo libro? In primo luogo, a chi ha specifico interesse a conoscere come è stato affrontato il problema della depressione nel tempo. E' bene però segnalare che solo il possesso di nozioni neuroscientifiche di base potrà permettere la comprensione integrale di un saggio che ha ambizioni che vanno oltre la pura divulgazione.

P.S. davvero troppo numerosi risultano nel testo i refusi e le sviste grammaticali, che spesso infastidiscono il lettore, e denunciano un difetto a livello di cura redazionale che non fa onore a una casa editrice seria come Il Mulino.

Voto: 6,5

domenica 5 marzo 2017

Enrico Franceschini, "Scoop", Feltrinelli


 Andrea Muratori è uno scrittore in crisi di ispirazione: dopo un romanzo giovanile che ha fatto guardare a lui come a una promessa delle patrie lettere, ha pubblicato per forza d'inerzia altri libri che non hanno lasciato traccia, e ora, sulla soglia dei quarant'anni, ha un disperato bisogno di calarsi in situazioni nuove, che gli restituiscano la voglia di raccontare.
 Per questo chiede aiuto alla contessa Matilde Valera del Dongo, una matura, ricca, annoiata, influentissima signora che è stata in passato la sua amante; la contessa raccomanda dunque Muratori ad Alberto Massari, onnipotente direttore di un grande quotidiano milanese, che è anche uno dei principali giornali italiani, affinché lo mandi come inviato di guerra nel piccolo, turbolento stato latinoamericano del Cusclatàn. Il giornale potrà così avvalersi della collaborazione di uno scrittore che conserva tutto sommato una certa aura di prestigio, e Muratori, cambiando aria, potrà forse ritrovare lo slancio che la sua prosa ha perduto.
 Capita però che, negli stessi giorni in cui a Massari arriva la raccomandazione di Matilde Valera, alla redazione sportiva del quotidiano di Milano giunga da Bologna un giovanissimo giornalista, che si è sempre occupato per lo più di basket, e che di nome fa anch'egli Andrea Muratori.
 Massari, nella struttura piramidale che caratterizza la gestione del giornale, si trova naturalmente al vertice, e gode dell'esercizio proprio potere: le quotidiane riunioni di redazione a cui non tutti possono partecipare - e in cui pochissimi hanno diritto di parola - sono insieme un rito e un evento. I responsi di Massari, agli occhi dei sottoposti, hanno qualcosa di oracolare: nessuno si sogna di criticarli apertamente, e solo i collaboratori più stretti si permettono su di essi qualche puntualizzazione: Giovannella De Rosa, la responsabile delle pagine culturali - al cospetto dell'erudizione della quale Massari nutre un lieve complesso di inferiorità -; Ruggero Alberelli, il segretario di redazione, secondo alcuni "il vero direttore del giornale"; il caporedattore centrale Franco Pignatari; i più esperti e famosi fra i giornalisti, quelli autorizzati a dare del tu al direttore.
 Quando il direttore afferma di voler inviare Andrea Muratori a seguire la situazione in Cusclatàn, nessuno discute la decisione, ma tutti intendono che, per qualche misteriosa ragione (forse perché ha scorto in lui qualche qualità fuori dal comune), Massari ha stabilito di passare il piccolo redattore - l'ultimo arrivato - dallo sport agli esteri, e di metterlo alla prova sul campo spedendolo in America Latina.
 Senza che nessuno abbia tempo di rendersi conto dello scambio di persona, Andrea viene messo subito su un aereo in volo verso il Cusclatàn, e in questo modo comincia un'avventura che non avrebbe mai pensato di poter vivere. Alloggiato nel migliore albergo della capitale Esmeralda, il Camino Real, messo nelle condizioni di incontrare l'ambasciatore, il giovane giornalista realizza subito che le voci che parlano di guerra civile in Cusclatàn sono ampiamente infondate; la situazione nel paese è tranquilla, e Andrea lo scrive nell'articolo che detta ai dimafoni del giornale. Solo che il caporedattore Pignatari intercetta il pezzo prima della pubblicazione, lo risistema e cambia il titolo per renderlo più accattivante, lasciando presagire una rivoluzione imminente.
 L'articolo ha il suo effetto sull'opinione pubblica in Italia: la notizia dei guerriglieri antigovernativi pronti a dare l'assalto a Esmeralda fa il giro delle redazioni dei principali giornali, inducendo tutti i direttori a spedire in America Latina i loro migliori inviati. Il Camino Real è presto preso d'assalto da tutti i più famosi giornalisti di guerra italiani; e osservandoli, e vivendo con loro, Andrea si rende presto conto che il proprio mestiere è molto diverso da come l'aveva immaginato. In particolare è il vecchio collega Leandro Tarchetti a fargli da guida e a mostrargli i "segreti" della sua professione.

Enrico Franceschini

 Andrea apprende così che suggestionare i lettori, per un giornalista italiano, è molto più importante che dire la verità; che lo stile di un articolo pesa di più del suo contenuto; che per i lettori dei giornali italiani è fondamentale poter leggere, articolo dopo articolo, una narrazione coerente in cui trovare conferma delle proprie idee preconcette, e che perciò, se una storia non c'è, il giornalista deve inventarsela.
 Impara che non prendere un "buco" da un diretto concorrente è molto più importante che fare uno scoop autentico; che molti dei reportage di maggiore successo sono stati realizzati restando comodamente seduti al bordo della piscina di un hotel a cinque stelle; che tutti gli inviati ritengono che rischiare la vita non sia da coraggiosi, bensì solo da stupidi; che un giornalista in trasferta pensa soprattutto a godersi la vita e, se può, con la complicità dei colleghi, fa sempre la cresta sulla nota spese ai danni del giornale.
 Naturalmente esiste anche il faticoso lavoro "sul campo", che però ha un peso relativamente modesto nel determinare l'abilità di un inviato di guerra; e le situazioni paradossalmente tragicomiche sono di gran lunga più frequenti dei pericoli veri e propri.
 Tarchetti è cinico e sommamente disincantato, eppure conserva ancora un barlume di onestà intellettuale nel riconoscere i lati antieroici del mestiere del giornalista, mentre tutti gli altri colleghi ospitati nel lussuoso albergo rappresentano ciascuno un esempio diverso di clamorosa e sfacciata violazione della deontologia professionale: Wanda Schirò, "l'unica giornalista italiana conosciuta all'estero", famosa per le sue coraggiose interviste a generali, dittatori e tiranni, è abituata a riportare scrupolosamente le parole dell'intervistato cambiando però le domande innocue da lei realmente poste con altre molto più aggressive, incalzanti, ficcanti (un ritratto dietro il quale non è difficile scorgere la sagoma di Oriana Fallaci); Oreste Scarfoglio, esterofilo, colto e raffinato, è talmente prodigo da spingersi a noleggiare - a spese del settimanale per cui scrive - una Rolls-Royce per andare a intervistare in pieno deserto un famoso dittatore; Virgilio Fortis ha fatto carriera semplicemente millantando un'inesistente familiarità con i politici più in vista; Ercole Bertoldi inventa di sana pianta i suoi scoop, e in Cusclatàn, per sgambettare la concorrenza, si spinge fino ad architettare una vera e propria messinscena facendo credere di essere riuscito a intervistare, penetrando nella foresta, il capo dei guerriglieri antigovernativi, da lui mai incontrato.
 Alla fine Andrea - che pure uno scoop vero e proprio riuscirebbe anche a coglierlo, assistendo per caso, unico giornalista occidentale, a un golpe nel vicino stato del Guaranà - è costretto ad accorgersi che, nel giornalismo, una fandonia ben confezionata conta di più di una verità che il pubblico trova poco digeribile. Tanto che i giornalisti, con i loro fantasiosi articoli, riescono persino a innescare una catena di reazioni capace di spingere il paese sull'orlo di una guerra che, prima del loro intervento, era ben lungi dallo scoppiare davvero.
 Del resto, di tutto il suo soggiorno in Cusclatàn, l'esperienza più memorabile e autentica per il protagonista sarà inopinatamente costituita dalla visita al migliore bordello di Esmeralda in compagnia di alcuni colleghi, e del fugace amore ivi concepito da Andrea per l'incantevole Isabel.
 Il libro, nella sua conclamata leggerezza, offre un'immagine desolante dell'intera categoria dei giornalisti italiani, a cui pure Franceschini appartiene; alcuni ritratti sono così incredibilmente feroci da andare ben oltre la semplice ironia, addentrandosi nei più aspri territori di un sarcasmo che non prevede riscatto.
 La singolare declinazione del tema del doppio (lo scambio di persona è reso più interessante dal fatto che l'Andrea Murartori scrittore è il narratore della vicenda dell'Andrea Muratori giornalista, partito per il Cusclatàn al posto suo, e nel racconto delle avventure vissute dal suo "sostituto" ritrova l'ispirazione perduta) idealmente dovrebbe problematizzare e rendere più intrigante l'impianto romanzesco.
 In realtà il testo, vagamente sospeso tra lo scritto di denuncia, l'allegoria antifrastica, la catartica trasfigurazione di esperienze autobiografiche, l'iperbole brillante dal sapore caricaturale dei difetti dei media, la scettica rappresentazione dei meccanismi di costruzione della "verità" presso l'opinione pubblica, non riesce a precisare in maniera definitiva il proprio carattere, e resta una specie di divertissement che lascia l'impressione di dare al lettore molto meno di quanto potrebbe.

Voto: 5,5