domenica 15 maggio 2022

Alessandro Bertante, "Mordi e fuggi. Il romanzo delle Br", Baldini e Castoldi

 
 Ancora oggi non è semplice parlare in Italia in maniera equilibrata della parabola criminale delle Brigate Rosse partendo da quel complesso intreccio di fermenti ideologici, giuste rivendicazioni, rabbia compressa, presunzione intellettuale, giudizi distorti, folli astrazioni, assuefazione alla violenza, alienazione, superficialità e vanità, che - scaturito dalle generose e vaghe aspirazioni libertarie e palingenetiche del Sessantotto - condusse agli anni acri e agli accessi cruenti del terrorismo rosso.
 Ci prova con il suo documentatissimo romanzo storico Alessandro Bertante, concentrandosi sul periodo che va dal 1969 al 1972: la fase in cui si precisarono fin nei dettagli gli obiettivi, le modalità operative, la struttura organizzativa e il retroterra sociale e filosofico dei brigatisti, ma che precedette le brutalità omicide della deriva degli anni successivi. 
 Protagonista e voce narrante del racconto che viene fatto è Alberto Boscolo, giovane studente universitario e membro fondatore delle Br; una Nota per il lettore posta in chiusura del libro avverte che dietro questo nome si nasconde realmente un componente del nucleo storico della formazione terroristica che, seppur individuato fin dai primi processi, non fu mai incriminato, avendo abbandonato la lotta armata prima della sua degenerazione cruenta.
 Alberto proviene da una onesta famiglia piccolo borghese di Milano, ed è figlio di un quadro dell'Alfa Romeo che politicamente si riconosce nell'area del riformismo progressista; è sempre stato un ottimo studente e, dopo il liceo, si è iscritto all'Università con la prospettiva di compiere una brillante carriera accademica. Dagli studi universitari e dalla dimensione familiare si è tuttavia staccato con il crescere del suo impegno politico nell'ambito della sinistra extraparlamentare: nell'autunno del 1969, ormai, sono mesi che non vede più i genitori e la sorella minore, né frequenta più alcun corso alla facoltà di Lettere della Statale. Insieme ad Anita, la sua fidanzata - giovane e affascinante ribelle di estrazione altoborghese - si è spostato dalla comune in piazza Fontana, dove i due si erano sistemati, in un piccolo appartamento di ringhiera in corso Garibaldi, dentro un vecchio caseggiato acquistato dal padre di lei per una speculazione immobiliare.
 Sebbene Alberto sia innamorato di Anita, il loro rapporto sta entrando in crisi a causa delle posizioni via via più radicali che il ragazzo sta assumendo, per influenza con un gruppo che si va distinguendo all'interno del Collettivo Politico Metropolitano - formazione democratico-rivoluzionaria capace di unire studenti e operai in una comune militanza -, per iniziativa di Renato (Curcio) e Margherita (Cagol), due giovani sociologi di area cattolica provenienti dall'Università di Trento, che hanno cominciato a parlare apertamente della necessità di alzare il livello dello scontro con la borghesia padronale e a teorizzare la lotta armata.
 A fare da detonatore all'esplosiva miscela che si è venuta a creare all'interno dell'estrema sinistra milanese, nei collettivi studenteschi, nelle fabbriche e in alcuni quartieri operai sono due eventi che si susseguono a breve distanza a Milano nel cupo dicembre del 1969: la strage provocata da una bomba collocata all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, e la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, a cui la polizia tentava di attribuire la responsabilità dell'esplosione, misteriosamente caduto durante un interrogatorio da una finestra del terzo piano della Questura. La Strage, di chiara matrice fascista, e il probabile omicidio di Pinelli contribuiscono a diffondere nelle file della sinistra extraparlamentare la convinzione granitica che fra gruppi neofascisti, borghesia padronale e istituzioni non esista alcuna differenza, che i tre mondi costituiscano senza sfumature un unico blocco di "nemici del popolo" al lavoro per abbattere con un colpo di Stato ogni residuo di garanzia costituzionale in Italia.
 
Alessandro Bertante
 
 Da lì al convegno di Costaferrata, organizzato in Emilia, nell'agosto del 1970, da un figlio e nipote di partigiani chiamato il Mega (dietro cui si cela Alberto Franceschini), in cui il gruppo di Sinistra Proletaria di Renato e Margherita (ribattezzatasi Mara) si risolve finalmente ad abbracciare la lotta armata, il passo è breve.
 Il nome Brigata Rossa (declinato al plurale solo in seguito alla creazione di diverse cellule) verrà dopo, al rientro a Milano, mentre già si pianificano le prime azioni dimostrative, che si susseguono in un crescendo prima esaltante, poi folle con il passare dei mesi: l'incendio dell'automobile di Giuseppe Leoni, un dirigente della Sit-Siemens considerato dagli operai "uno stronzo e un farabutto", seguito dai roghi delle macchine del capo del servizio di sorveglianza della Pirelli-Bicocca e di quella del capo del personale della stessa fabbrica; l'attentato alla pista prove della Pirelli a Lainate, durente il quale vanno a fuoco otto camion; le rapine di autofinanziamento in alcune filiali bancarie di provincia; il sequestro a scopo dimostrativo di Idalgo Macchiarini, responsabile della ristrutturazione aziendale alla Sit-Siemens e fascista dichiarato; il programmato sequestro - a scopo di interrogatorio - di Massimo De Carolis, giovane e rampante politico della destra democristiana.
 Alberto partecipa alla pianificazione e all'esecuzione di tutti questi colpi - a cui presto si unisce in qualità di brillante organizzatore anche Mario (Moretti) -, e contribuisce a redigere i comunicati di rivendicazione, che nella loro grezza brutalità creano uno stile capace di arrivare al cuore di molti operai sposandone frustrazioni e spirito di rivalsa, e guadagnando alle Brigate Rosse delle origini un largo consenso nei ceti proletari: ne sono testimonianza gli striscioni a sostegno delle Br esposti in occasione del 25 aprile 1971 per tutto il quartiere del Giambellino.
 In tutto questo, il protagonista non si rende conto di aver dichiarato una "guerra immaginaria" - basata sul falso presupposto che nel mondo di quelli che egli considera avversari non vi siano differenze e articolazioni, e che la violenza costituisca l'unica via per far prevalere le motivazioni dei proletari - come gli fa notare il suo amico Arturo, un vecchio libraio antiquario reduce dalla guerra di Spagna, combattuta a fianco dei Repubblicani antifranchisti nelle Brigate Internazionali.
 Una guerra immaginaria che, però, come è facile prevedere, avrà conseguenze quantomai tragiche: ne sono avvisaglie la morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli (nome di battaglia Osvaldo) - sostenitore e finanziatore delle Br e teorico di una forma diversa di lotta armata, ispirata alle forme di resistenza antipadronale dell'America Latina e perseguita con i suoi Gap -, rimasto ucciso in un incidente durante il tentato sabotaggio un traliccio dell'alta tensione a Segrate che avrebbe potuto causare un black out in mezza Milano; e l'assassinio del commissario Luigi Calabresi, maturato nelle file dell'estrema sinistra non brigatista, ma influenzata dai metodi spicci delle Br, capaci di infiammare l'orgoglio di ampi strati dell'universo proletario.
 A mettere fine all'avventura eversiva di Alberto ci pensa la prima vera retata condotta dalle forze dell'ordine contro le Brigate Rosse il 2 maggio 1972 nel covo di via Boiardo; molti dei capi del nucleo storico riescono a sfuggire all'arresto, ma il protagonista, rimasto isolato e senza più appoggi, ha modo di riflettere e di rendersi conto dell'assurdità di ciò che si sta consumando, del fatto che la strada imboccata è una strada senza uscita.
 Aiutato dal suo amico Arturo, il protagonista-narratore lascerà Milano, si rifugerà nelle campagne piemontesi e abbandonerà per sempre l'opzione terroristica.
 Il libro è bello e appassionante: in primo luogo, lo sviluppo della trama consente un'immersione totale nella Milano oscura e affascinante di quel periodo; in secondo luogo il testo, scritto in uno stile semplice, che però riecheggia linguisticamente molti dei luoghi comuni specchio della mentalità dei primi anni settanta, permette al lettore di esplorare "dal vivo" la tragica parabola del terrorismo rosso in Italia nei suoi prodromi, grazie a un punto di vista interno che svincola l'autore dalle prudenti, preliminari prese di distanza di prassi quando si trattano temi così delicati; prese di distanza comprensibilissime, ma che rischiano sempre di stemperare l'acribia analitica nella fiacchezza di un moralismo di maniera.
 
In poche parole: ancora oggi non è semplice parlare in Italia in maniera equilibrata della parabola criminale delle Brigate Rosse partendo da quel complesso intreccio di fermenti ideologici, giuste rivendicazioni, rabbia compressa, presunzione intellettuale, giudizi distorti, folli astrazioni, assuefazione alla violenza, alienazione, superficialità e vanità, che - scaturito dalle generose e vaghe aspirazioni libertarie e palingenetiche del Sessantotto - condusse agli anni acri e agli accessi cruenti del terrorismo rosso.
Ci prova con il suo documentatissimo romanzo storico Alessandro Bertante, concentrandosi sul periodo che va dal 1969 al 1972: la fase in cui si precisarono fin nei dettagli gli obiettivi, le modalità operative, la struttura organizzativa e il retroterra sociale e filosofico dei brigatisti, ma che precedette le brutalità omicide della deriva degli anni successivi. 
Protagonista e voce narrante del racconto che viene fatto è Alberto Boscolo, giovane studente universitario e membro fondatore delle Br; una Nota per il lettore posta in chiusura del libro avverte che dietro questo nome si nasconde realmente un componente del nucleo storico della formazione terroristica che, seppur individuato fin dai primi processi, non fu mai incriminato, avendo abbandonato la lotta armata prima della sua degenerazione cruenta.
Il punto di vista interno, sostanziato da uno stile che riescheggia luoghi comuni e mentalità dei primi anni settanta, svincola l'autore dalle prudenti, preliminari prese di distanza di prassi quando si trattano temi così delicati; prese di distanza comprensibilissime, ma che rischiano sempre di stemperare l'acribia analitica nella fiacchezza di un moralismo di maniera.

Voto: 7

domenica 8 maggio 2022

Primo Levi, "La chiave a stella", Einaudi


  Nell'ambito della letteratura italiana del Novecento, i libri che sanno rappresentare il mondo del lavoro non sono molti; per di più, sulla maggior parte di essi grava un'ipoteca ideologica molto forte che, per quanto perfettamente pertinente, sposta il fuoco della narrazione su quanto sta sopra e intorno al lavoro propriamente detto: pensiamo ai romanzi di Paolo Volponi e Ottiero Ottieri.
 Su questo sfondo, La chiave a stella di Primo Levi spicca nettamente, perché riesce a rappresentare la dignità del lavoro - e persino la felicità del lavoro - al di fuori di gabbie filosofiche o sovrastrutturali troppo incombenti. 
 L'idea centrale da cui Levi parte è espressa limpidamente da una considerazione del narratore che recita: "Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra"
 Questa verità precorre, scavalca e in parte oblitera i rapporti economici che sottostanno al mercato del lavoro, e alle distorsioni e alle ingiustizie che comportano; attinge, per così dire, direttamente all'agire umano in purezza, ai presupposti antropologici delle dinamiche sociali.
 Il personaggio attraverso il quale questo concetto cardine è illustrato è Libertino (detto Tino) Faussone, un operaio specializzato, di professione montatore, che incarna il narratore di secondo grado dalla cui voce viene raccontata la maggior parte delle storie che animano il testo, e che ci vengono riferite dal narratore "titolare". Quest'ultimo - chimico per un azienda di vernici industriali - è sostanzialmente coincidente con la figura dell'autore stesso, e incontra Faussone, torinese come lui, durante una trasferta di lavoro in terra russa.
 Di Faussone veniamo a sapere che ha trentacinque anni, è figlio di uno stagnino e ha lavorato in passato alla catena di montaggio della Lancia. Grazie alla sua abilità, alla sua intraprendenza e alla sua viva intelligenza ha in seguito trovato un impiego in un altro ambito, specializzandosi nel montaggio di grandi tralicci, gru e cavi di ponti sospesi, a volte di dimensioni colossali. 
 Faussone ha scelto il lavoro di montatore perché gli permette di veder crescere con soddisfazione i complicati manufatti che realizza - e che pochi riuscirebbero ad assemblare con la sua stessa perizia - e perché gli consente di girare il mondo: la sua opera può essere richiesta in Africa, in India, in Alaska, in Medio Oriente o in Russia. Tutto ciò, d'altra parte, gli impedisce di avere molti amici, e gli ha sconsigliato di crearsi una famiglia, che dovrebbe abbandonare per mesi durante le lunghe trasferte; ma queste cose sembra non rimpiangerle troppo. Durante i brevi periodi in cui torna a Torino, ospitato dalle sue vecchie zie, la stanzialità finisce per venirgli presto a noia.
 
Primo Levi sul posto di lavoro
 
 In ogni storia che Faussone racconta (che si tratti di un gigantesco derrik eretto presso un impianto di estrazione petrolifera da mettere in opera in mezzo al mare, di una gru capace di sollevare pesi di decine di tonnellate o dei cavi intrecciati tirati tra una campata e l'altra di un modernissimo ponte sospeso, a sostenerne la struttura) il gusto per il lavoro svolto e il ricordo delle difficoltà incontrate sono sempre associate ad emozioni autenticamente umane, ed esprimono una vitalità da homo faber che si avvicina molto a comporre il ritratto di un individuo pienamente realizzato.
 Il narratore di primo grado, a sua volta, non è un ascoltatore passivo: al di là della curiosità con cui pone domande che punteggiano e danno un ritmo alle storie del suo interlocutore, anch'egli interviene raccontando a Faussone le proprie vicende professionali; ne nasce un dialogo basato su un linguaggio tutto particolare, quello dell'impegno quotidiano a cui ognuno è chiamato per ricavare i propri mezzi di sostentamento e per acquisire la dignità propria dell'uomo utile a sé e ai suoi simili.
 Qualche considerazione merita lo stile adottato: perseguendo un effetto realistico, Levi fa di Faussone un narratore tutt'altro che brillante, con la sua tendenza a infarcire il proprio discorso di proverbi piuttosto banali, con la sua mancanza di fantasia nelle similitudini, con il suo linguaggio costellato di vernacolismi e solecismi. Nel complesso, il tentativo di connotare il racconto di una persona dalla modesta preparazione letteraria e dalla cultura umanistica limitata può dirsi riuscito, anche se talvolta si ha la sensazione di una eccessiva insistenza sugli aspetti popolari dell'idioletto di Faussone, con effetti sgradevolmente caricaturali.
 E tuttavia il libro, a più di quarant'anni dalla sua pubblicazione, si continua a leggere con enorme piacere: un testo in cui uno degli aspetti preponderanti della vita della maggior parte di noi trova il giusto spazio per essere trattato con il giusto tono. 
 
In poche parole: attraverso le storie raccontate da Tino Faussone, specialista nel montaggio e nella posa di tralicci, gru e ponti di enormi dimensioni in tutto il mondo, in La chiave a stella Primo Levi rende omaggio all'importanza e alla dignità del lavoro. L'idea centrale da cui l'autore parte è espressa limpidamente da una considerazione del narratore, che recita: "Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra"
Questa verità precorre, scavalca e in parte oblitera i rapporti economici che sottostanno al mercato del lavoro, e alle distorsioni e alle ingiustizie che comportano; attinge, per così dire, direttamente all'agire umano in purezza, ai presupposti antropologici delle dinamiche sociali.

Voto: 7

domenica 1 maggio 2022

Jean Amery, "Intellettuale a Auschwitz", Bollati Boringhieri

 
 
 Intellettuale a Auschwitz è tra i libri cardine che hanno segnato l'analisi della realtà dei campi di sterminio, in cui studiatamente ha preso forma compiuta quella inaudita perversione dell'umano che costituisce l'essenza dell'ideologia nazista. 
 Se il più grande testimone della ferocia dell'universo concentrazionario, Primo Levi, procede sempre dalla narrazione di ciò che ha vissuto in prima persona, per poi ricavarne verità generali, punti fermi teorici di natura, etica, storica e antropologica, Jean Amery parte al contrario da interrogativi o questioni generali di ordine teorico e filosofico, cercando poi le risposte a queste domande nell'esperienza del lager e della violenza subita dai nazisti.
 Il confronto fra i due approcci è in particolare pertinente perché Levi e Amery furono curiosamente richiusi entrambi, per un certo periodo, nello stesso Lager, quello di Buna-Monowitz, sottocampo di Auschwitz, in cui si trovavano come prigionieri ebrei: l'infimo livello gerarchico fra i detenuti-schiavi del campo, considerati sottouomini persino dai criminali comuni e dai prigionieri politici ugualmente confinati dietro il filo spinato, destinati prima o poi alla morte sicura per esaurimento delle forze, o all'eliminazione nelle camere a gas.
 La figura di Amery è assai particolare perché egli non si era mai considerato un ebreo, prima che i nazisti gli imponessero questa etichetta. Nato col nome di Hans Mayer nel 1912 a Vienna in una famiglia di origine ebraica, ma non più praticante da generazioni e perfettamente integrata nella società austriaca, tanto da farne proprie mentalità e tradizioni, era stato brutalmente costretto a prendere atto della strutturazione della società su basi razziste imposta dai nazionalsocialisti dopo l'Anschluss, ed era allora emigrato in Belgio dove, in seguito all'invasione delle truppe hitleriane, si era unito alla Resistenza.
 Torturato dalle SS dopo la cattura e rinchiuso per due anni in diversi campi di concentramento fino alla fine della guerra, scrisse Intellettuale a Auschwitz  solo parecchi anni dopo la Liberazione. 
 Diversi sono gli argomenti che vi vengono presi in considerazione: il primo è quello della disumanizzazione dell'individuo incarcerato che i nazisti scientemente perseguirono nei lager. Prima ancora dell'eliminazione fisica dei prigionieri, infatti, l'ideologia hitleriana contemplava la loro destituzione da tutto ciò che costituisce la ricchezza della condizione umana, vale a dire 1) la facoltà di ogni singolo uomo di percepirsi come individuo libero e pensante, 2) la capacità di elevarsi al di sopra delle proprie funzioni fisiche e del proprio materiale operare, 3) la possibilità di coltivare predilezioni e affetti. 
 I prigionieri-schiavi, così, erano tenuti in vita solo fintantoché erano in grado di svolgere un lavoro manuale a beneficio del Reich. Il tradizionale intellettuale umanista (in cui Amery si riconosce), privo di qualsiasi competenza tecnica, naturalmente, non rientrando in nessuna delle categorie ritenutie "utili" dai nazisti a guardia dei campi, e quindi impiegato perlopiù come bestia di fatica, aveva modo di rendersi conto di tutto ciò con inusitata chiarezza.
 
Jean Amery
 
 Un procedimento analogo a quello messo in atto nei Lager si può riconoscere anche nella pratica della tortura, largamente praticata dai nazisti sui loro nemici, ed esperita personalmente dallo stesso Amery. Un uomo torturato è, di fatto, spogliato di sé e ridotto a un animale dolente, a un corpo che sente e pena, senza più nulla di "spirituale"; perciò, secondo Amery, l'essenza del nazismo è riscontrabile nella tortura non meno che nell'istituzione dei campi di sterminio. 
 Alla luce di tutto ciò, le ingiurie perpetrate dal popolo tedesco nei confronti dei suoi nemici nei tragici anni della propria infatuazione hitleriana sono di tale gravità da legittimare un risentimento che determina l'incancellabilità dei terribili fatti del periodo 1933-45: le colpe accumulate non possono essere dimenticate dopo un generico pentimento o con un semplice colpo di spugna, e non possono passare in prescrizione a cuor leggero, dato che pochissimi furono i tedeschi "giusti", coloro che, anche senza opporsi apertamente al regime (cosa di fatto impossibile in alcuni frangenti), si dissociarono da esso e rifiutarono di sacrificare la propria umanità sull'altare dell'esaltazione nazionalista del luminoso e terribile destino del sangue germanico. Il risentimento - nell'ottica dell'autore - diventa insomma uno strumento per mantenere viva la consapevolezza della tremenda colpa collettiva di cui l'ubriacatura nazista portò il popolo tedesco a macchiarsi.
 Particolarmente interessanti - sia in chiave psicologica sia in chiave sociale - sono poi le questioni identitarie poste nel libro: il bisogno di ogni uomo di avere una patria e il singolare rapporto di Amery stesso con l'ebraismo. Posto che ciascuno ha bisogno di sentirsi legato a una patria, l'autore si trova nella particolarissima condizione di non potere più fare riferimento alla sua originaria identità nazionale tedesco-austriaca - rivelatasi ostile in maniera del tutto inattesa, quasi per reazione autoimmune -, e di doversi quindi paradossalmente cucire addosso nella maniera migliore possibile l'abito di quell'identità ebraica che i nazisti hanno voluto imporgli; senza però riuscirci fino in fondo. Da qui il disorientamento derivante dal fatto di essere un "non-non ebreo". 
 Un disorientamento tanto profondo da condurre Amery - insieme ad altre considerazioni sull'inevitabile processo di invecchiamento e sulla logica imperfetta e fallace che lega la colpa all'espiazione - alla scelta di porre fine alla propria esistenza nel 1978 con una sorta di suicidio filosofico.
 
In poche parole: Jean Amery alla nascita a Vienna, nel 1912, si chiamava Hans Mayer; la sua era una famiglia di antiche origini ebraiche ma non praticante, che si era del tutto integrata nel tessuto sociale austriaco e aveva perfettamente assimilato la cultura germanica. Hans non si era mai percepito come un ebreo; furono i nazisti, dopo l'Anschluss nel 1938 a cucirgli addosso questa identità fittizia; egli reagì emigrando in Belgio, assumendo un nuovo nome e unendosi alla Resistenza dopo l'invasione del Paese da parte delle truppe hitleriane. Catturato, torturato e poi rinchiuso in campo di concentramento, sopravvisse miracolosamente all'Olocausto. Con Intellettuale a Auschwitz egli trae dalla propria esperienza del Lager una riflessione acutissima sulla fondamentale e irredimibile perversione che costituisce l'essenza dell'ideologia nazista. 
 
Voto: 7