domenica 28 febbraio 2021

Benjamin Labatut, "Quando abbiamo smesso di capire il mondo", Adelphi

 
 Per qualcuno la scienza è quasi una religione, per altri soprattutto un abito mentale, per altri ancora una convenzione provvisoria; lo scrittore cileno Benjamin Labatut la vede invece come una sorta di castello dei destini incrociati in cui, sulla base del vasto e aleatorio dominio delle coincidenze e delle supposizioni, prende corpo ciò che chiamiamo realtà. 
 Quest'idea scaturisce direttamente da quello scollamento tra senso comune ed evidenza sperimentale, tra calcolo matematico e certezza previsionale, tra progresso della conoscenza e armonia interpretativa, che rappresenta il tratto connotativo della fisica novecentesca e della meccanica quantistica in particolare.
 Lo sviluppo di Un verdor terrible (intitolato nella versione italiana Quando abbiamo smesso di capire il mondo) traduce in chiave narrativa questa visione del progresso scientifico e dell'universo: il libro è composto di cinque pezzi narrativi, ciascuno dei quali è focalizzato principalmente su uno o più personaggi di spicco della storia della matematica, della chimica o della fisica moderne, le cui scoperte vengono ripercorse e presentate, da una parte, come il risultato di una serie di circostanze - per lo più fortuite - derivanti dalla biografia ampiamente romanzata dei protagonisti; dall'altra come gli snodi fondamentali di una più vasta serie di storie, ciascuna delle quali cresce autonomamente sul casuale riferimento che l'ha generata. 
 In questo senso - prendendo a prestito un termine botanico -, possiamo dire che ognuno dei racconti presenta una struttura rizomatica: dal fusto principale la narrazione si espande in più direzioni, generando aneddoti che, crescendo su stessi, acquistano la stessa importanza della storia originaria.
 Consideriamo il primo dei racconti, quello intitolato Blu di Prussia: partendo dal cianuro usato da molti gerarchi nazisti per suicidarsi alla fine della Seconda guerra mondiale - e su cui si basava anche lo Zyklon B, il gas usato per assassinare molte delle loro vittime nei campi di sterminio - l'autore prende a parlare dello Zyklon A, l'antenato del famigerato veleno, usato in California come pesticida per disinfestare i vagoni ferroviari sui quali, nei primi decenni del XX secolo, migliaia di migranti messicani si nascondevano per entrare clandestinamente negli Stati Uniti. Quei vagoni finivano per essere tinti di un meraviglioso colore blu. L'acido cianidrico, o acido prussico, infatti, fu ricavato per la prima volta nel 1782 dal primo pigmento sintetico moderno, il blu di Prussia, inventato all'inizio del XVIII secolo dallo svizzero Johann Jecob Diesbach, mentre cercava un metodo per riprodurre il costosissimo carminio.
 Da queste considerazioni prende l'abbrivio una lunga catena di storie. A ricavare dal blu di Prussia l'acido prussico ("il veleno più importante della modernità") fu Carl Wilhelm Scheele, un geniale protochimico, scopritore di vari elementi della tavola periodica, che aveva la cattiva abitudine di annusare e, a volte, assaggiare, i suoi preparati; un comportamento che, ripetuto con l'arsenico, gli costò la vita a soli quarantatré anni (d'altra parte, le tossine di questa sostanza, usata all'epoca come tintura, provocarono probabilmente anche il cancro di cui morì Napoleone a Sant'Elena, dopo averle respirate per sei anni dalla tappezzeria della camera in cui era prigioniero).
 
Benjamin Labatut
 
 Scheele non poteva certo immaginare dove avrebbe portato un secolo e mezzo dopo la sua scoperta, impiegata per scopi bellici. E' pur vero che Hitler, che non era abituato a farsi scrupoli in nessuna circostanza, non volle usare i gas quando attaccò l'Inghilterra nel 1940; forse, avendo partecipato alla Prima guerra mondiale, era memore del panico suscitato nei soldati nelle trincee dai gas, utilizzati come arma letale per la prima volta nel 1915 a Ypres per iniziativa del chimico tedesco di origini ebraiche Fritz Haber.
 La storia di Haber è un esempio perfetto del diverso impiego e dei differenti esiti che possono avere le scoperte scientifiche dovute al genio di un uomo: egli infatti, non solo inventò l'iprite (e pare che sua moglie si suicidò, quando venne a sapere degli effetti terribili sui soldati dell'arma messa a punto dal marito), ma contribuì in prima persona a creare anche lo Zyklon, il pesticida potente come un ciclone (da qui il nome) con il quale, anni dopo, sarebbero stati uccisi nelle camere a gas la sorellastra, il cognato e i nipoti. 
 D'altra parte, egli formulò nel 1907 un procedimento per estrarre azoto direttamente dall'aria - una scoperta che gli valse il premio Nobel -, risolvendo da un giorno all'altro il problema della scarsità di fertilizzanti che, al principio del XX secolo, esponeva il mondo al rischio di una carestia di proporzioni colossali, capace di determinare la morte per fame di centinaia di milioni di persone. Per paradosso, egli morì nel 1934 convinto che proprio l'estrazione dell'azoto dall'aria avrebbe portato alla rovina dell'umanità, alterando l'equilibrio naturale del pianeta.
 In maniera simile si sdipanano anche gli altri racconti: La singolarità di Schwarzschild parla del matematico tedesco che, mentre si trovava in trincea, sotto le bombe dei nemici, in quella Prima guerra mondiale per la quale - come molti altri intellettuali - era partito volontario e durante la quale sarebbe morto, diede la prima soluzione esatta alle equazioni della teoria della Relatività generale di Albert Einstein: la "singolarità di Schwarzschild" (il risultato del processo per cui una stella gigante collassa su se stessa una volta esaurito il suo combustibile) diventa la prima prova matematica che consente di preconizzare l'esistenza dei buchi neri, anche se Karl Schwarzschild stesso rimane perplesso e quasi spaventato di fronte al risultato dei suoi calcoli, nonostante tutta la sua vita e la sua carriera di astrofisico fosse stata vissuta all'insegna della stranezza, della sfida teorica a ciò che sembrava impossibile. 
 Il cuore del cuore narra invece degli spiriti gemelli di Shinichi Mochizuki e di Alexander Grothendieck, entrambi matematici capaci di raggiungere vertiginosi livelli di elaborazione teorica per poi ritrarsi, bizzarramente terrorizzati dalle loro scoperte, allontanandosi dalla loro disciplina e isolandosi dalla comunità scientifica; quasi pensassero di dover espiare una colpa misteriosa.
 L'eponimo Quando abbiamo smesso di capire il mondo è il racconto più lungo ed elaborato della raccolta, e ripercorre le tappe principali della nascita della meccanica quantistica, immaginando le scoperte su cui si fonda come frutto di una sorta di sortilegio, e coloro che le elaborarono quasi come maghi dominati da una potenza misteriosa e maligna: così l'enfant prodige Werner Heisenberg, che giunse all'idea del principio di indeterminazione attraverso le sgraziate matrici elaborate nell'isola di Helgoland, dove si era rifugiato per sottrarsi alla terribile allergia che lo tormentava. Così il fragile principe de Broglie, che nella sua tesi di dottorato sostenne che tutti gli atomi si comportano sia come onde sia come particelle. Così il trasgressivo Erwin Schrodinger che viene rappresentato mentre, in un sanatorio sulle Alpi, suggestionato dal fascino della giovane figlia del medico che lo ha in cura, disordinatamente elabora un'equazione che egli stesso fatica a capire, ma che compendia il comportamento ondulatorio dell'elettrone entro gli orbitali in cui è provvisoriamente confinato. 
 I tre, agendo indipendentemente uno dall'altro, grazie anche alla supervisione e agli stimoli di Niels Bohr, finiranno per creare quasi loro malgrado un nuovo campo di studi capace di restituire un'immagine della realtà talmente stravolta da sconcertare persino Einstein.
 L'ultimo racconto, Il giardiniere notturno, è autobiografico, e spiega da dove sia venuto all'autore lo spunto per scrivere questo libro.
 Il libro è indubbiamente affascinante, anche se, nella sua continua, evidente ricerca di un accentuato glamour letterario, finisce per avere un po' troppo sapore di laboratorio, e per perdere di naturalezza e fluidità. Il mondo è indubbiamente complesso e difficilmente comprensibile; ogni tanto Labatut dà l'impressione di volerlo presentare ancora più oscuro di quanto non sia per il semplice gusto di strabiliare i buoni borghesi. E così, perde qualcosa per strada.
 
In poche parole: per qualcuno la scienza è quasi una religione, per altri soprattutto un abito mentale, per altri ancora una convenzione provvisoria; lo scrittore cileno Benjamin Labatut la vede invece come una sorta di castello dei destini incrociati in cui, sulla base del vasto e aleatorio dominio delle coincidenze e delle supposizioni, prende corpo ciò che chiamiamo realtà. Quest'idea scaturisce direttamente da quello scollamento tra senso comune ed evidenza sperimentale, tra calcolo matematico e certezza previsionale, tra progresso della conoscenza e armonia interpretativa, che rappresenta il tratto connotativo di tutta la fisica novecentesca e della meccanica quantistica in particolare. Lo sviluppo di Un verdor terrible (intitolato nella versione italiana Quando abbiamo smesso di capire il mondo) traduce in chiave narrativa questa visione dell'evoluzione della scienza e dell'universo. Il libro è indubbiamente affascinante, anche se, nella sua continua, evidente ricerca di un accentuato glamour letterario, finisce per avere un po' troppo sapore di laboratorio, e per perdere di naturalezza e fluidità. Il mondo è indubbiamente complesso e difficilmente comprensibile; ogni tanto Labatut dà l'impressione di volerlo presentare ai suoi lettori ancora più oscuro di quanto non sia per il semplice gusto di strabiliare i buoni borghesi.

Voto: 6

domenica 21 febbraio 2021

Elfriede Jelinek, "Le amanti", La nave di Teseo


 Celebre testo della scrittrice austriaca premio Nobel, uscito per la prima volta nel 1975 e recentemente riproposto in Italia da La nave di Teseo, Le amanti è un romanzo che, grazie a una scrittura marcatamente sperimentale - che davvero poco concede alla piacevolezza narrativa -, rappresenta in maniera brutale i meccanismi psicologici e sociali attraverso i quali si concretizza la subalternità della condizione femminile, talvolta con la complicità delle donne medesime.
 Protagoniste di due storie che vengono sviluppate parallelamente, avvicendandosi nella narrazione, sono Brigitte e Paula, ragazze di modesta famiglia che vivono in un villaggio nelle Alpi austriache in cui alla bellezza del paesaggio fa da controcanto la mancanza di possibilità e prospettive per chiunque voglia costruirsi un'esistenza ricca e appagante, al di fuori degli schemi abbrutenti che si ripetono uguali a se stessi generazione dopo generazione: schemi che vedono gli uomini sfiancarsi durante il giorno in pesanti lavori manuali, ubriacarsi la sera in osteria e alzare le mani sulle loro mogli quando tornano a casa; e le donne svolgere i mestieri più umili, per essere poi relegate al ruolo di serve dei mariti dentro le mura domestiche.
 A perpetuare questo stato di cose contribuisce anche la fabbrica di biancheria intima femminile - unico elemento di modernità apparente nel villaggio - in cui le operaie cuciono tutto il giorno corpetti, reggiseni, corsetti e mutandine, e invecchiano quasi senza rendersene conto in uno stato di assoluta alienazione, perdendo a poco a poco perfino la capacità di immaginare una vita diversa.
 In un tale contesto, le uniche armi che le donne possiedono per cercare di cambiare il corso della propria esistenza sono il proprio corpo e il proprio sesso: offrendosi all'uomo "giusto", facendosi sposare, o almeno facendosi mettere incinte da un ragazzo capace di elevarle di condizione o di portarle lontano dal villaggio, le ragazze possono imboccare una via di fuga da un destino già tracciato.
 Lo capisce molto presto Brigitte, che non possiede qualità particolari né dal punto di vista intellettuale né dal punto di vista fisico - tranne forse i suoi bei capelli pieni di riflessi, a cui dedica grande cura -, ma desidera con tutta se stessa scappare dalla fabbrica di reggiseni in cui ha cominciato giovanissima a lavorare; per riuscirvi, si impegna a fondo per sedurre Heinz che, sebbene sia nel complesso un individuo molto mediocre e piuttosto ottuso, dato che studia per diventare elettricista potrebbe rivelarsi un uomo "con un futuro".
 Fatica invece a comprenderlo e ad accettarlo Paula, che pure ha più qualità e più fantasia di Brigitte: è riuscita a sfuggire al lavoro nella fabbrica di reggiseni, scelta come apprendista da una sarta in un centro più grande del villaggio in cui è nata; e quello della sarta è un mestiere che potrebbe permetterle di elevarsi da sola a una condizione socioeconomica migliore di quella di partenza. Purtroppo Paula è innamorata di Erich, un giovane taglialegna bello e prestante, ma sicuramente senza un futuro: al di fuori del suo lavoro, l'unica sua vera passione sono i motori e le macchine sportive, ma è talmente sciocco e sconclusionato da essere incapace perfino di prendere la patente.
 

Elfriede Jelinek
 
 Così, Brigitte lotta con pazienza e determinazione allo scopo di fare suo Heinz: gioca d'astuzia per allontanare da lui Susi, una graziosa studentessa che la famiglia del futuro elettricista sicuramente preferirebbe a lei; si impone di sopportare la ripugnanza che talvolta Heinz stesso le ispira, e a letto gli concede qualunque cosa egli le chieda nella sua sbrigativa grossolanità; fa finta di non vedere il disprezzo che nutrono nei suoi confronti la madre e la sorella del fidanzato.
 E il destino infine la premia, trasformandola nella moglie di Heinz - diventato un abile elettrotecnico, proprietario di un ben avviato negozio di elettrodomestici -, nella madre dei suoi figli e nella "padrona", che sta alla cassa e tiene i conti del commercio del marito. Tutto questo, però, viene conquistato al prezzo di una totale disumanizzazione: la donna che Brigitte è diventata ha tagliato i ponti con la sua famiglia d'origine, non si fa scrupoli a convincre Heinz a parcheggiare i propri genitori in una casa di riposo non appena può fare a meno di loro e dei loro soldi (nonostante tutti i sacrifici che hanno fatto per lui), e a sua volta non è gratificata dall'amore dei figli.
 D'altra parte ben peggiore è l'esito della storia di Paula, che viene messa incinta da Erich quando è ancora minorenne e deve abbandonare la promettente carriera di sarta, rincorsa dalla cattiva fama che la dipinge come una donna di facili costumi. Del tutto priva del sostegno di Erich - che diventa sempre più inconcludente e ubriacone col passare degli anni - finisce per andare a lavorare come operaia proprio in quella fabbrica di biancheria intima che, a differenza di Brigitte, era riuscita inizialmente a evitare. Non solo: nel tentativo di assicurare a se stessa e ai propri figli quel modesto benessere che il marito non potrà mai procurare loro, finisce per accettare di andare con altri uomini in cambio di denaro nel boschetto di un paese vicino; scoperta, verrà lasciata da Erich (inseguito dalle battute beffarde degli amici e dalle lagnanze dei genitori) e le saranno addirittura tolti i bambini. Insomma, una parabola degna di uno dei cicli di dipinti satirico-moraleggianti di William Hogarth.
 Ciò che è notevole nel romanzo è soprattutto lo stile: fin dalle scelte grafiche è evidente l'elaborazione sperimentale del dettato, perché i nomi propri dei personaggi principali sono scritti rigorosamente con l'iniziale minuscola (come se non si trattasse di persone, ma degli intercambiabili ingranaggi di un meccanismo), mentre sono proposte in un maiuscolo "urlato" singole frasi o espressioni che si vogliono enfatizzare o su cui si vuole attirare l'attenzione del lettore (così IL MIO, NO, PORTARLE VIA, MEGLIO, NOZZE, TUTTO...).
 Ancora più evidente è l'anomala tessitura narrativa: la scansione sintattica è estremamente semplice, quasi elementare, tale da prestarsi a una strutturazione sequenziale del racconto simile a quella di una fiaba; e tuttavia il tono prevalente è improntato a una singolare forma di straniamento, determinato dagli isterismi del flusso verbale, in cui si alternano passaggi dove è marcato il distacco quasi scientifico dalle vicende dei personaggi, e altri che vedono l'emotività delle due protagoniste fare irruzione sulla pagina senza preavviso e senza mediazione alcuna (con espressioni riportate, però, come se fossero i versi di un animale di cui si sta studiando il linguaggio segreto, senza alcuna forma di partecipazione solidale da parte della voce narrante ai sentimenti che esse traducono). A tutto questo si aggiungono le spigolosità dovute alla scelta di termini lessicali ed espressioni particolarmente crude (come "scopata", "brigitte vorrebbe che heinz avesse un cazzo attorcigliato", "la vagina di brigitte stringe il giovane imprenditore", "merda", "vecchia zozza", "maiale", "viscidume puzzolente"). 
 Il risultato di tutto questo è uno strano impasto narrativo sospeso tra l'argomentazione serrata della predica moraleggiante, la schematicità della fiaba, la neutralità del quaderno di appunti che riporta le osservazioni di un etologo, la brutalità di un racconto realistico che si sofferma sugli aspetti più grevi della vita quotidiana. Un esito sicuramente interessante dal punto di vista letterario, anche se molto lontano dai gusti oggi prevalenti fra i lettori.
 
In poche parole: Le amanti è un romanzo che, grazie a una scrittura marcatamente sperimentale - che davvero poco concede alla piacevolezza narrativa -, raccontando le storie esemplari di Brigitte e di Paula, rappresenta in maniera brutale i meccanismi psicologici e sociali attraverso i quali si concretizza la subalternità della condizione femminile. Nel pervenire a questo risultato, Elfriede Jelinek dà luogo a uno strano (e straniante) impasto stilistico, che compendia in sé la schematicità della fiaba, l'argomentazione serrata della predica moraleggiante, la neutralità delle osservazioni di una ricerca etologica e la violenza di un racconto realistico capace di soffermarsi sugli aspetti più grevi della vita quotidiana.

Voto: 6,5

domenica 14 febbraio 2021

Donatella Di Pietrantonio, "Borgo Sud", Einaudi

 Romanzo caratterizzato da una facile e distesa vena narrativa, Borgo Sud mette in scena gli stessi personaggi principali del più fortunato libro di Donatella Di Pietrantonio, L'Arminuta. Anche la voce narrante è la stessa: a raccontare la storia è infatti la donna che tempo prima, nel 1975, a tredici anni, ha vissuto il trauma della "restituzione" alla misera famiglia d'origine, residente in un piccolo centro dell'entroterra abruzzese, dopo la separazione di Adalgisa e di suo marito, che si erano presi cura di lei lungo tutta l'infanzia nella loro elegante casa a Pescara, e che ella aveva sempre considerato i suoi veri genitori. 
 Solo la nascita di un rapporto saldissimo con la sorella minore Adriana, allora, era riuscito in parte ad alleviare la sofferenza derivante dal fatto di sentirsi totalmente estranea all'ambiente in cui era stata sbalestrata (a cui si era aggiunto il dolore acuto per la morte del fratello maggiore Vincenzo, nei confronti del quale ella aveva concepito un affetto speciale, tutt'altro che fraterno).
 Questa volta il fuoco della narrazione si sposta su un'epoca successiva, quella dell'ingresso della protagonista e di sua sorella Adriana nella piena età adulta, e sulle differenti traiettorie esistenziali - ciascuna costellata da soddisfazioni ma soprattutto da problemi - che le due donne seguono fino alla maturità.
 Il presente del racconto vede la protagonista, che si è trasferita in Francia e che insegna Letteratura italiana all'Università di Grenoble, richiamata improvvisamente in Italia da un'emergenza di cui per molte pagine non ci viene rivelata la natura. Proprio il ritorno a Pescara diventa per la narratrice il pretesto per ripercorere parallelamente la propria vita e quella di Adriana, del tutto differenti nonostante il persistere di un forte legame tra loro. 
 La protagonista è riuscita infatti a completare brillantemente il suo percorso di studi a Chieti, dove è diventata assistente del professor Morelli, ha sposato Piero, un uomo bello e benestante, che ha ereditato dal padre un avviato studio dentistico molto rinomato a Pescara, e in seguito ha ottenuto una cattedra all'Università di Macerata.
 Adriana, invece, ha abbandonato presto la scuola - che del resto frequentava solo saltuariamente e malvolentieri - dopo essersi innamorata ancora giovanissima di un pescatore poco più grande di lei, orfano di padre e residente a Borgo Sud, il quartiere di Pescara prossimo al porto in cui vivono tutti gli uomini di mare della città: un luogo dalla forte caratterizzazione popolare in cui ci si sente parte di una comunità separata e in cui ci si sostiene vicendevolmente, con un grande senso di solidarietà. Il problema è che Rafael, il giovane pescatore, è uno scapestrato, è incapace di comportarsi in maniera responsabile verso chi gli è vicino - forse alza addirittura le mani sulla sua donna - e accumula debiti che poi Adriana cerca in ogni modo di aiutarlo a ripianare. 
 
Donatella Di Pietrantonio
 
 Tutte queste cose, la protagonista-narratrice ricorda di averle apprese direttamente dalla sorella il giorno in cui quest'ultima è piombata in casa sua e di Piero con un neonato al collo - il figlio Vincenzo, di cui Adriana non aveva parlato con nessuno -, dopo una delle sue periodiche sparizioni, in preda a un'ingovernabile agitazione, come se scappasse da qualcosa o da qualcuno.
 Peraltro, come veniamo a sapere con lo sviluppo del lungo flashback su cui il racconto è imperniato, anche la vita della protagonista non è stata affatto priva di drammatiche turbolenze negli ultimi anni, sebbene le premesse su cui era impostata consentissero di sperare altrimenti: a un certo punto il marito Piero l'ha lasciata, rivelandole la sua latente omosessualità; è stato allora che ella ha deciso di abbandonare l'Italia per trasferirsi a Grenoble. Purtroppo, non è mai riuscita ad avere i figli che tanto desiderava.
 E' dopo tutte queste rivelazioni, portate dalle rimembranze che affollano la mente della protagonista insonne nella stanza d'albergo in cui si è sistemata dopo essere precipitosamente tornata a Pescara dalla Francia, che veniamo a sapere il vero motivo del suo rientro in Italia: Adriana si trova in gravissime condizioni in ospedale in seguito a una caduta dal terrazzo del condominio di Borgo Sud nel quale vive e sul quale stava stendendo il bucato dopo aver accompagnato Vincenzo a scuola. Non è dato sapere se la caduta sia stata accidentale o se qualcuno - forse lo stesso Rafael, dal quale Adriana si è definitivamente allontanata - l'abbia spinta a forza di sotto; molti hanno visto e sentito, ma l'omertà di cui la gente del quartiere è capace quando si tratta di proteggere uno dei loro è assoluta.
 Ed è davanti al letto nel quale Adriana giace in coma, senza sapere se riuscirà a cavarsela e se tornerà quella di prima, che la protagonista si rende conto fino in fondo dell'importanza della sorella per lei, della loro analoga tendenza a rimanere impigliate in uomini "sbagliati", della trama misteriosa degli affetti che talvolta ci legano ad alcune persone perfino al di là dell'apparente mancanza di affinità caratteriale, che dovrebbe farcele sentire non così vicine...
 Infine Adriana faticosamente e quasi miracolosamente si risveglia, e alla narratrice resta la certezza del desiderio di starle vicina, il proposito di regalarle tutto il tempo necessario a riprendersi del tutto, l'impulso di elevare una preghiera di gratitudine per la sua salvezza, pur senza avere una precisa cognizione di chi possa ascoltarla.
 La lettura è sicuramente piacevole, perché Donatella di Pietrantonio sa ben padroneggiare l'arte della narrazione e perché i drammi che racconta non sono mai banali. Certo, rispetto a L'Arminuta manca qui quello sdoppiamento del punto di vista fra la protagonista-narratrice che racconta la storia nel presente e la se stessa di un tempo che risultava là assai ben congegnato, fecondo di spunti conoscitivi, capace di innescare una profonda immedesimazione del lettore nella particolare prospettiva della ragazza. 
 Al contrario, si adottano qui altri e meno raffinati stratagemmi per tenere viva l'attenzione di chi legge, e specialmente l'uso insistito - e portato quasi fino all'esasperazione - della tecnica della suspense: lo si riscontra quando si arriva alla rivelazione dell'omosessualità di Piero, e poi ancora quando si viene a sapere che la persona per cui la protagonista è rientrata in Italia è proprio la sorella Adriana, e che l'incidente che le è capitato è gravissimo ma lascia spazio alla speranza.
 L'impressione complessiva che se ne trae è insomma quella di un libro ben congegnato ma meno felice di quello che l'ha preceduto.
 
In poche parole: caratterizzato da una facile e distesa vena narrativa, il romanzo mette in scena gli stessi personaggi del libro più fortunato di Donatella Di Pietrantonio, L'Arminuta, di cui Borgo Sud costituisce il seguito ideale. Identica è la voce narrante, appartenente alla donna che là raccontava il trauma infantile della propria "restituzione" alla famiglia d'origine da parte della donna che l'aveva allevata per tredici anni, mentre qui ripercorre la propria vita e quella della sorella Adriana, in qualche modo ad essa parallela. Se Adriana ha abbandonato permaturamente gli studi per seguire il fidanzato pescatore Rafael, entrando a far parte dell'accogliente comunità di Borgo Sud - il quartiere marino di Pescara - ma scontando la sregolatezza e la tendenza a fare debiti del suo uomo, la protagonista si è laureata, è diventata una professoressa universitaria e si è sposata con un giovane dentista bello e ricco, ma si è poi dovuta arrendere al fatto di non aver mai capito veramente il marito Piero. Ora, richiamata d'urgenza in Italia da Grenoble, dove insegna letteratura italiana, è costretta a rifare i conti con tutto quello che lei e Adriana hanno attraversato. La lettura è sicuramente piacevole e i drammi raccontati non sono mai banali, ma si riscontra nel testo un abuso un po' fastidioso della tecnica della suspense, portata quasi fino all'esasperazione. Ne risulta infine un libro nel complesso ben congegnato, ma meno felice di quello che l'ha preceduto.

Voto: 6

domenica 7 febbraio 2021

Carlo Rovelli, "Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro", Mondadori



 Prima dei saggi divulgativi sui paradigmi della fisica moderna, sul concetto di tempo alla luce della Teoria della Relatività e degli assunti della scienza contemporanea o sulla Meccanica Quantistica, pubblicati in anni recenti con Adelphi, Carlo Rovelli aveva provato ad uscire dall'ambito ristretto dei lavori specialistici con questo originale testo scientifico-filosofico dedicato ad Anassimandro di Mileto, pensatore greco del VI secolo a.C. (o a.e.v., ante eram vulgarem, come ama dire l'autore).
 Il libro è interessante almeno per due motivi. Innanzitutto perché consente di animare e di problematizzare lo studio di quei filosofi presocratici che nella manualistica scolastica sono spesso presentati in modo quantomai astratto, riduttivo e in definitiva banalizzante, come se le idee da essi espresse avessero senso solo in funzione di quelle dei grandi pensatori che nacquero nei secoli successivi, senza preoccuparsi minimamente di cogliere la complessità delle loro teorie in sé e per sé, e di comprendere l'impatto che esse ebbero sulla visione del mondo degli uomini del loro tempo, nel contesto culturale ben determinato che le vide nascere. 
 In secondo luogo perché, con serrata argomentazione, nel testo si riesce a individuare il momento in cui, nella storia del pensiero, si sviluppa il primo embrione di un approccio scientifico al problema della conoscenza del mondo intorno a noi, e ad analizzare in maniera convincente l'atteggiamento psicologico sottoso a questo approccio. 
 Affrontare in modo scientifico il problema della conoscenza del mondo non vuol dire adottare il metodo scientifico - per vedere nascere il quale si dovrà attendere l'avvento di Galileo e aspettare altri 2000 anni dopo Anassimandro -; significa immaginare che le cose possano essere diverse da come appaiono, significa cercare spiegazioni ai fenomeni naturali che, nel tentativo di andare oltre ciò che già sappiamo, siano disposte a mettere in discussione ciò che diamo per scontato (proponendo una visione delle cose internamente coerente ma diversa da quella a cui siamo abituati), significa esercitare il dubbio sistematico, mettendo continuamente in discussione gli assunti dei nostri maestri, significa provare a capire il mondo prescindendo dagli dei e mettendo da parte qualsiasi elemento ricollegabile a pregiudizi di matrice magico-religiosa.  
 Il poco che conosciamo di Anassimandro e delle sue idee ci consente - secondo Rovelli - di ipotizzare che egli fu il primo intellettuale della Storia ad accostarsi al problema della conoscenza del mondo con atteggiamento scientifico. Nato intorno al 610 a.C. a Mileto, nella Ionia - allora una sorta di "ponte" commerciale e culturale fra la Grecia e l'Oriente -, fu allievo di Talete, considerato il primo filosofo del mondo occidentale, famoso per aver individuato nell'umido (o nell'acqua) il principio fondamentale di tutte le cose, per le sue osservazioni astronomiche e per aver precorso la formulazione di alcuni teoremi propri della geometria euclidea.
 
Carlo Rovelli
 
 Anassimandro, dal canto suo, non si limitò ad assimilare e a sviluppare gli insegnamenti di Talete; li mise invece in discussione, li sottopose a una critica radicale fino a stravolgere la visione del mondo del maestro a beneficio di un modello interpretativo dell'universo assai più complesso. Egli non accettò l'idea che un elemento semplice come l'acqua potesse essere all'origine di tutte le cose, e preferì immaginare un principio "indefinito e illimitato", una sorta di forza invisibile da cui tutto deriva, a cui diede il nome di apeiron (Rovelli si abbandona alla suggestione dell'accostamento di questo misterioso principio alle forze invisibili che la fisica moderna ha dimostrato essere alla base del comportamento della materia: il campo elettromagnetico e il campo gravitazionale...).
 Soprattutto, però, Anassimandro approfondì le osservazioni astronomiche e cosmologiche di Talete, e arrivò a formulare la rivoluzionaria teoria secondo la quale la Terra non è un disco piatto circondato dall'oceano e sovrastato dal cielo, bensì un sasso (o meglio, una sorta di cilindro con le due facce circolari di forma accentuatamente convessa) che galleggia nello spazio. Con ogni probabilità, ciò che permise ad Anassimandro di pervenire a questa idea fu la constatazione che le stelle sorgono e tramontano da parti diverse dell'orizzonte; quando "spariscono" dalla nostra vista, devono necessariamente passare sotto la terra su cui i nostri piedi poggiano, la quale deve perciò prevedere che ci sia cielo non solo sopra, ma anche tutto intorno a sé. La conferma venne poi da ulteriori osservazioni e dall'integrazione di questo spunto logico in una coerente visione del cosmo capace di dare conto in maniera convincente dei movimenti degli astri.
 E' difficile esagerare la poratata innovativa di una simile idea rispetto a tutto quello che si credeva vero nel VI secolo a.C., anche se a noi contemporanei - che diamo per scontato che la Terra sia un pianeta di forma ellissoidale in orbita intorno al sole all'interno di una galassia che, insieme a miliardi di altri simili agglomerati di stelle, viaggia nell'universo a folle velocità - può sfuggire la carica eversiva dell'ipotesi di Anassimandro per i suoi contemporanei. 
 Si badi che questo modello implica il superamento dei concetti tradizionali di alto e di basso: se la terra galleggia nello spazio è perché non esiste un basso assoluto verso cui possa cadere; il basso diventa relativo, definibile esclusivamente dalla relazione che si stabilisce fra due "oggetti" (e non sfuggirà che da questo deriva non solo il fatto che ciò che è alto o basso per me non potrà essere tale per chi abita sull'altra faccia della terra, ma anche il suggerimento visionario che un corpo cade perché c'è un altro corpo verso cui può cadere).
 Secondo Rovelli, il salto concettuale che comporta la "rivoluzione di Anassimandro" per gli uomini del suo tempo è ancora più drastico di quello a cui costringe noi contemporanei il superamento del sincronismo universale introdotto da Einstein con la Teoria della Relatività Ristretta (anche perché, ai tempi di Anassimandro, era semplicemente inconcepibile ragionare in termini scientifici e accettare che la natura delle cose fosse intrinsecamente diversa da come i nostri sensi la percepiscono). 
 Basta questo, nonostante quasi tutti i suoi scritti siano andati perduti e le sue idee siano conosciute grazie a citazioni riportate da storici successivi, a fare di Anassimandro una personalità gigantesca, un pensatore capace di segnare un passaggio decisivo nella storia dei tentativi della nostra specie di acquistare sempre maggiore consapevolezza di sé e dell'Universo in cui vive; un uomo in grado di cambiare realmente i paradigmi attraverso i quali concepiamo il mondo intorno a noi.
 
In poche parole: avventurandosi al di fuori dei territori delle pubblicazioni per specialisti e della divulgazione scientifica, Carlo Rovelli si cimenta per la prima volta, con questo storico libro, nella riflessione epistemologica, attribuendo alla figura di Anassimandro di Mileto - filosofo presocratico vissuto nel VI secolo a.C. - il merito di aver fatto compiere un formidabile salto in avanti al nostro modo di affrontare il problema della conoscenza del mondo, accostandosi alla realtà con un "atteggiamento scientifico". L'atteggiamento scientifico contempla la propensione a esercitare il dubbio sistematico, cioè la disponibilità a mettere in discussione ciò che già sappiamo o diamo per scontato, l'esercizio della critica del pensiero dei maestri come strumento privilegiato di progresso della conoscenza, la determinazione a cercare spiegazioni dei fenomeni naturali che prescindano da qualsiasi riferimento magico-religioso. Fu sulla scorta di questi capisaldi metodologici che Anassimandro per primo riuscì a formulare la teoria secondo la quale la Terra non è un disco piatto circondato dall'Oceano e sovrastato dalla volta celeste, bensì un sasso che galleggia nell'Universo. La Teoria, implicando l'idea che la Terra non cade semplicemente perché non ha un luogo verso il quale cadere, e l'introduzione del concetto per cui le nozioni di alto e basso non sono assolute ma relative, determina un'autentica rivoluzione della percezione da parte dell'uomo del mondo in cui vive: un vertiginoso shock culturale, paragonabile a quello che un centinaio di anni fa investì l'umanità quando Einstein mise in discussione l'assolutezza del parametro del Tempo.  
 
Voto: 7,5