sabato 23 aprile 2016

Rudi Palla, "Ai piedi degli alberi", Ponte alle Grazie


 La primavera possiede talvolta la capacità di affinare la nostra sensibilità verso gli spazi aperti e la natura. Mi è così venuta voglia di riprendere in mano e di riproporre un testo curioso, che ho già avuto modo di recensire alcuni anni fa, all’epoca della sua prima pubblicazione in Italia.
 Vi sono persone che guardano gli alberi come oggetti, semplici elementi di arredo del paesaggio naturale; altri invece, con più acuta sensibilità, li considerano esseri strani e affascinanti, capaci di suggerire agli uomini con la loro sola presenza la possibilità di un modo di esistere diverso, semplice e misterioso. Questo secondo punto di vista è di certo quello sposato dallo scrittore austriaco Rudi Palla, che in questo libro colto, originale e bellissimo parla con competenza e passione di varie specie arboree, delle loro caratteristiche scientifiche e della loro avventurosa scoperta; di singoli alberi come fossero individui e delle storie vere o leggendarie ad essi legate.
 Incontriamo così l’Arbre du Ténéré, nella Repubblica del Niger, l’unico presente per centinaia di chilometri nel deserto del Sahara, l’unico riportato su cartine in una scala nell’ordine dei milioni, preziosissimo punto di riferimento all’incrocio di antiche vie carovaniere; almeno finché nel 1973, un camionista libico lo investì abbattendolo.

Lo scrittore austriaco Rudi Palla

 Ripercorriamo la rotta del Bounty, che prima di diventare teatro del più celebre ammutinamento che la storia della navigazione ricordi, veleggiò per mesi alla volta di Tahiti al solo scopo di riportare in patria un congruo numero di esemplari dell’albero del pane.
 Riviviamo lo stupore di quei pionieri che per primi s’imbatterono nelle gigantesche sequoie della California, e rimasero increduli ed entusiasti di fronte agli alberi più maestosi del pianeta.
 E poi saggiamo la veridicità del mito del platano di Ippocrate, sull’isola di Kos, alimentato dalla capacità di vivere per migliaia di anni che solo gli alberi hanno. E ancora, esploriamo le radici delle simbologie nate intorno alla palma e all’ulivo, alberi tanto comuni quanto preziosi; impariamo ad apprezzare l’eleganza del pioppo, l’utilità dell’abete, l’umile costanza del castagno.
 Alla fine resta la voglia di uscire, di scegliersi il proprio albero preferito, e di studiarlo fino a sapere tutto di lui.

Voto: 7

domenica 10 aprile 2016

Giuliano L'Apostata, "L'odiatore della barba", Archinto


 Mi è capitato fra le mani questo libro pubblicato da Archinto alcuni anni fa, e mi ha fatto venire in mente certi politici di oggi, che portano avanti idee magari anche giuste, ma sono privi del necessario pragmatismo e della capacità di declinare l’ideologia di fondo che ispira il loro pensiero calandola nei tempi che stanno vivendo; si condannano così all’autoemarginazione.
 L’imperatore Giuliano (331-363 d.C.), nipote di Costantino il Grande, passato alla storia come l’Apostata per via del suo tentativo di ripristinare fuori tempo massimo il culto degli dei tradizionali per erigere un argine difensivo all’autorità del Princeps contro la marea montante del Cristianesimo (la cui sostanza era allora implicitamente “democratica”), scrisse questo pamphlet nel 362 per reagire alle critiche e agli sfottò rivoltigli dagli abitanti di Antiochia.
 Uomo isolato, scontroso e forse permaloso, colto di una cultura tutta libresca, Giuliano visse nel mito degli antichi filosofi e della severità dei loro costumi; la folta barba che si era fatto crescere proprio a imitazione dei pensatori che tanto ammirava, divenne presto oggetto delle battute tutt’altro che bonarie degli antiocheni, che disprezzavano l’imperatore per via delle sue dissennate scelte in campo sociale ed economico.

Giuliano l'Apostata raffigurato su una moneta dell'epoca

 Probabilmente impossibilitato a reagire con violenza per via della propria contingente debolezza politica e dello scarso consenso di cui godeva, Giuliano non trovò nulla di meglio che controbattere alle provocazioni verbali con questo libello, che mostra in maniera lampante tutti i suoi limiti.
 L’odiatore della barba vorrebbe essere una replica tagliente e sarcastica alle pasquinate che esprimono il malcontento popolare; in realtà finisce per rivelare una personalità bizzosa e goffamente risentita, discretamente snobistica, implacabilmente moralistica e maniacalmente utopica.
 L’interesse del libro sta tutto nel rivelare la complessa articolazione che potevano assumere i rapporti tra un imperatore romano e i suoi sudditi.

Voto: 6

domenica 3 aprile 2016

Henry David Thoreau, "Disobbedienza civile", Ortica editrice


 Qualche commentatore ha accostato questo saggio di Thoreau – uno dei classici del pensiero americano tradizionalmente poco letti in Italia – al Trattato del Ribelle di Ernst Jünger, di cui ho avuto modo di parlare la scorsa settimana; in realtà, tra le due opere, esiste una distanza abissale.
 Il libello di Thoreau venne scritto nel 1848 e pubblicato l’anno successivo, e prende le mosse dalla fiera opposizione del suo autore alla Guerra messicano-statunitense (combattuta tra il 1846 e il 1848), scatenata dall’annessione da parte degli Stati Uniti del territorio del Texas, già appartenente al Messico.
 Oltre che per ragioni prettamente politiche (l’inizio del conflitto si configurò come un’invasione del territorio messicano da parte degli Stati Uniti dietro un semplice pretesto; del resto, sul Texas già da tempo esisteva una disputa, dopo che, nel 1836, gruppi di coloni statunitensi in territorio messicano avevano deciso di proclamare l’indipendenza della Repubblica del Texas, per chiedere in seguito l’annessione del nuovo Stato da parte dell’Unione – più o meno quello che è successo recentemente in Crimea con la Russia nella parte di vorace vicino dell’Ucraina…), la contrarietà di Thoreau alla guerra era dovuta a ragioni “umanitarie”: per via dell’annessione agli Usa, infatti, in Texas venne introdotta la schiavitù (che Thoreau avversava apertamente), consentita in tutti gli Stati americani del sud − che erano favorevoli alla guerra per motivi economici − ma proibita in Messico.
 Non a caso gli strascichi polemici che seguirono a quella che presso ampi settori dell’opinione pubblica − specie negli Stati del nord − venne letta a posteriori come una guerra schiavista portarono, dopo poco più di un decennio, allo scoppio della Guerra Civile americana (e proprio durante la Guerra messicano-statunitense maturarono le loro prime esperienze al Congresso e nell’esercito alcuni dei protagonisti di primo piano della Guerra Civile, come Abraham Lincoln e Ulysses Grant).
 Thoreau, da parte sua, diede vita a un vero e proprio sciopero fiscale, rifiutandosi di pagare le tasse appositamente istituite per finanziare la guerra; per questo venne incarcerato e passò una notte in prigione. Nel trattatello questa esperienza viene descritta con dovizia di particolari; pare tra l’altro che la scarcerazione di Thoreau fu dovuta solo al pagamento a sua insaputa del suo debito da parte di una zia.
 Tutto il discorso di Thoreau è focalizzato sulla facoltà del singolo cittadino di opporsi a uno Stato “impersonale” e tendente a trasformarsi in una mera macchina burocratica che tratta i cittadini come sudditi o addirittura come oggetti, ed è del tutto incapace di considerarli nella loro qualità di esseri pensanti.

Henry David Thoreau

 Per contrastare una Legge sentita come intrinsecamente ingiusta, Thoreau propone quindi di mettere in atto una sorta di resistenza passiva che prefigura già le strategie di lotta non violenta adottate da una grande figura della storia americana come Martin Luther King per opporsi al Diritto positivo utilizzato dall’autorità costituita come strumento di oppressione dei più deboli.
 La differenza rispetto all’argomentazione di Jünger di un impianto logico che mette in discussione taluni elementi fondativi dell’istituto statuale stesso, sulla base dell’analisi pragmatica di alcuni tratti della Costituzione americana, è lampante: per Thoreau l’individuo è il soggetto di un discorso sulla libertà e sui diritti; per il filosofo tedesco l’individuo è il soggetto di un discorso sul potere.
 Per Jünger “passare al bosco”, “darsi alla macchia”, “entrare in clandestinità”, ribellarsi costituiscono le premesse di una strategia di lotta che porta al Putsch; per Thoreau questi atti sono il primo passo per riconquistare l’indipendenza perduta e reimpostare in maniera più sana il proprio rapporto con gli altri uomini e con la Natura, in funzione della creazione di uno Stato più giusto (e, in prospettiva, quando vi saranno le condizioni ideali per compiere questo passo, in funzione dell’abolizione dello Stato tout court; siamo qui in pieno territorio anarchico…).
 Sebbene il pensiero di Thoreau appaia per certi versi piuttosto semplicistico e presenti notevoli tratti di ingenuità (infatti trascura del tutto le complesse dinamiche che lo sviluppo della socialità acquista al cospetto di una democrazia di milioni di persone, e non elabora per nulla il concetto di Comunità all’interno della quale il singolo individuo diventa soggetto di diritti riconosciuti), sotto altri aspetti esso si presenta estremamente fresco e moderno: il riconoscimento della possibilità del semplice cittadino di esprimere le proprie istanze è propedeutico ad ogni forma di partecipazione.
 In più questo testo posiede una schiettezza (tipicamente americana, viene da dire) che è spesso estranea ai trattati di politica, e che gli meriterebbe una frequentazione più assidua anche nel nostro Paese.

Voto: 7