venerdì 31 dicembre 2021

Fabio Genovesi, "Il calamaro gigante", Feltrinelli


 I libri di Fabio Genovesi danno vita a uno stile letterario tutto particolare, che potremmo chiamare "realismo fiabesco": nell'ottica dell'autore, infatti, la realtà è intrinsecamente fiabesca. Ciò non significa che la visione espressa sia banalmente edulcorata, priva di articolazioni concettuali o di profondità; vuol dire invece che la vita e il mondo sono teatri dell'avventura e del mistero, dove il processo della conoscenza può compiersi autenticamente soltanto in una dimensione narrativa, emotiva e simbolica.
 Questi sono i paradigmi entro cui si inscrive anche Il calamaro gigante. In questo testo, che non è propriamente un romanzo, e ha un andamento divagante e sussultorio, Genovesi mette in collegamento il proprio costante spiazzamento al cospetto di un'esistenza che non riusciamo mai a padroneggiare fino in fondo, che riserva sempre delle sorprese, che pare in larga parte inconoscibile e in cui il caso sembra avere un ruolo preponderante con la storia naturalistica della scoperta del calamaro gigante.
 Il calamaro gigante popola le profondità degli oceani, luoghi da cui l'uomo è escluso, ma che pullulano di una vita che duriamo fatica a immaginare, e che procede da millenni indifferente alla nostra presenza sulla Terra. Per secoli, la scienza - nella sua sobria asciuttezza, che talvolta si trasforma in ottusa aridità - ha respinto come frutto di vaneggiamento qualsiasi tentativo di includere nel novero dei viventi quegli strani esseri che comparivano nei racconti spaventati dei marinai. I signori della conoscenza intellettuale di natura libresca tendevano a liquidare le narrazioni della gente di mare come pure leggende, prodotte dal distacco dalla civiltà, dall'abbrutimento, dall'alcol, dalla fantasia storpiata dalla solitudine.
 Eppure c'erano coraggiosi esploratori e persino uomini di lettere capaci di ascoltare chi il mare lo viveva quotidianamente, che avevano raccolto testimonianze e prove giocoforza frammentarie che suggerivano come i resoconti dei fortuiti incontri dei marinai con colossali mostri marini difficili da classificare avessero un fondamento di verità.
 Così, ad esempio, nel Seicento, un prete di Ravenna, don Francesco Negri, che a quarant'anni (età ragguardevole per l'epoca) si mette in viaggio dalla sua terra natale verso il grande nord e, di convento in convento, arriva fino alla terra dei Lapponi e al circolo polare artico per riportarne la prima descrizione del portentoso e terribile Kraken, "un pesce di smisurata grandezza, di figura piana, rotonda, con molte corna o braccia alle sue estremità...".
 Così, nel Settecento, il norvegese Erik Pontoppidan, vescovo di Bergen, che nella sua Storia naturale della Norvegia, a rischio di essere giudicato un folle, include - sulla base dei racconti della gente della costa - "il più grande mostro marino del mondo", e per primo lo battezza calamaro.

Fabio Genovesi

 Così Pierre Denys de Monfort il malacologo di Dunkerque che, alla fine del XVIII secolo, chiamato a completare l'imponente lavoro classificatorio di George Louis Leclerc de Buffon, si gioca tutta la sua credibilità scientifica azzardandosi a parlare - sulla base di una convinzione maturata negli anni - del polpo colossale e del polpo Kraken. Deriso e di fatto escluso dal mondo delle Accademie scientifiche dallo scetticismo dei colleghi, muore povero e solo di fame e di stenti a Parigi, nel 1820 o nel 1821.
 Il problema è che, a un certo punto gli avvistamenti del calamaro gigante da parte delle imbarcazioni che solcano gli oceani si moltiplicano: particolarmente significativo, perché ben documentato, quello che nel novembre del 1861 vede protagonista la nave francese Alecton del capitano Bouyer, lungo la rotta atlantica verso la Guyana. 
 E, con il moltiplicarsi degli avvistamenti, arrivano anche le prime prove concrete: i resti di tentacoli lunghi anche 10 metri raccolti da alcune baleniere, e poi calamari giganti interi, spiaggiatisi sulle coste dell'isola di Terranova e in Nuova Zelanda fra il 1871 e il 1881.
 E allora anche gli scettici devono ricredersi, arrendersi e ammettere che il calamaro gigante esiste; esiste, quasi a nostro dispetto, in abissi che ci sono preclusi, dove quotidianamente ingaggia una lotta per la sopravvivenza con il capodoglio, che se ne nutre e lo caccia, e a volte ne riporta ferite mortali. 
 Come nelle fiabe classiche, anche in questa documentatissima storia, naturalmente, c'è una morale: l'esistenza del calamaro gigante ci insegna che la natura non è al nostro servizio (come ci piace credere), che ne facciamo solo parte insieme a molte altre forme di vita, a volte lontanissime da noi, e la conosciamo meno di quanto pretendiamo di conoscerla - come ci raccontano le miriadi di errori di valutazione che l'uomo ha commesso nel corso della storia della scienza. Forse allora sarebbe il caso di rapportarci in maniera diversa con lei; perché, se la natura può esistere senza noi, noi non possiamo in nessun modo esistere al di fuori della natura. 
 
In poche parole: i libri di Fabio Genovesi danno vita a uno stile letterario tutto particolare, che potremmo chiamare "realismo fiabesco": nell'ottica dell'autore, infatti, la realtà è intrinsecamente fiabesca. Ciò non significa che la visione espressa sia banalmente edulcorata, priva di articolazioni concettuali o di profondità; vuol dire invece che la vita e il mondo sono teatri dell'avventura e del mistero, dove il processo della conoscenza può compiersi autenticamente soltanto in una dimensione narrativa, emotiva e simbolica.
Questi sono i paradigmi entro cui si inscrive anche Il calamaro gigante. In questo testo, che non è propriamente un romanzo e ha un andamento divagante e sussultorio, Genovesi mette in collegamento il proprio costante spiazzamento al cospetto di un'esistenza che non riusciamo mai a padroneggiare fino in fondo, che riserva sempre delle sorprese, che pare in larga parte inconoscibile e in cui il caso sembra avere un ruolo preponderante con una leggenda trasformatasi in dato naturalistico: quella di cui ci parla la storia della scoperta del calamaro gigante.
 
Voto: 7

giovedì 23 dicembre 2021

Patrick Modiano, "Inchiostro simpatico", Einaudi

 
 
  Inchiostro simpatico è uno dei romanzi più allegorici di Patrick Modiano: il protagonista-narratore si cala nelle vesti dell'investigatore privato che per un breve periodo fu da giovane a Parigi, e riflette sul piccolo incarico che gli fu affidato parecchi decenni prima dal suo datore di lavoro, il serafico Hutte, e che consisteva nel cercare di raccogliere notizie utili a ritrovare una ragazza scomparsa, tale Noelle Lefebre.
 L'indagine, all'epoca, non andò a buon fine; la ricerca minuziosamente descritta presso il Fermo Posta, nei locali frequentati dalla ragazza e nell'appartamento da lei occupato non ebbe alcun esito. Ma, nel racconto, i personaggi incontrati allora riprendono vita e assumono l'aspetto ambiguo e vibrante degli individui vivi e vitali, e Noelle acquista una concretezza che l'immagine sfuggente che dall'inchiesta si ricava parrebbe smentire.
 Il fatto è che, da allora, la figura ipotetica di Noelle Levebre si è fissata nella mente del protagonista e che, a intermittenza, il suo pensiero corre a lei, sebbene assai labili siano le tracce del suo passaggio a Parigi, inconsistenti le notizie reperibili nella vallata presso Annecy dalla quale la giovane proveniva e incerta la sua stessa identità: anche il nome - si scopre - potrebbe infatti essere frutto di fantasia.
 La narrazione si trasforma allora in un paradossale corpo a corpo con la realtà, a cui la memoria si sovrappone al punto tale da fare premio su di essa e da trasformarla. Da questo serrato confronto sorge un interrogativo pressante: se la memoria si basa su fondamenta precarie, cosa deve prevalere, cosa è giusto che prevalga, la suggestione di ciò che ricordiamo o un'indefinita sospensione del giudizio? Pur con mille cautele, Modiano ribadisce che sulla memoria occorre puntare, che con la memoria occorre sempre fare i conti, che il filo della memoria va seguito, perché l'alternativa non è una adesione più rigorosa alla verità; semmai è l'indifferenza. 
 
Patrick Modiano
 
 Così, sebbene il passare del tempo non consenta affatto di capire che fine abbia fatto Noelle, sebbene assolutamente irrilevanti siano le informazioni che negli anni arricchiscono la sua vicenda di dettagli secondari, sebbene sempre più sbiadita appaia la memoria di lei in chi ebbe la ventura di frequentarla, l'esigenza di arrivare a definirne l'identità è così ostinata da spingere il narratore a coglierne e a rappresentarne nella maniera più vivida il destino più verosimile. 
 Il finale del libro racconta di una donna che a Roma dirige una galleria d'arte fotografica, dove sono in mostra le foto che ritraggono luoghi e personaggi che con Noelle ebbero a che fare, e che viene interpellata da un misterioso visitatore francese (un alter ego del narratore?) che riesce a dare un nome a quei luoghi e a quei personaggi. I nomi fatti sembrano smuovere qualcosa nella gallerista, che un tempo fu di passaggio a Parigi, prima di trasferirsi in Italia e di cominciare una vita nuova, di assumere addirittura un'identità diversa da quella con cui era conosciuta da giovane e che ora quasi non ricorda più. Che sia lei Noelle Lefebre?
 Una risposta chiara a questa domanda capitale non arriva; eppure la suggestione di quest'ipotesi è tale che il narratore, e il lettore con lui, ne vengono irrimediabilmente risucchiati, tanto che, sotto i loro occhi, la supposizione assume di prepotenza uno statuto di realtà pari a quello che potrebbe essere suffragato dalla più granitica controprova.
 Di certo noi siamo ciò che ricordiamo, e insieme ciò che gli altri ricordano di noi; ma fino a che punto ciò che ricordiamo è, in realtà, soltanto ciò che crediamo di ricordare?

In poche parole: Inchiostro simpatico è uno dei romanzi più allegorici di Patrick Modiano: il protagonista-narratore si cala nelle vesti dell'investigatore privato che per un breve periodo fu da giovane a Parigi, e riflette sul piccolo incarico che gli fu affidato parecchi decenni prima, e che consisteva nel cercare di raccogliere notizie utili a ritrovare una ragazza scomparsa, tale Noelle Lefebre.
Il fatto è che, da allora, la figura ipotetica di Noelle Levebre si è fissata nella mente del protagonista, sebbene assai labili siano le tracce del suo passaggio a Parigi e incerta la sua stessa identità.
La narrazione si trasforma allora in un paradossale corpo a corpo con la realtà, a cui la memoria si sovrappone al punto tale da fare premio su di essa e da trasformarla. Da questo serrato confronto sorge un interrogativo pressante: se la memoria si basa su fondamenta precarie, cosa è giusto che prevalga, la suggestione di ciò che ricordiamo o un'indefinita sospensione del giudizio? Pur con mille cautele, Modiano sembra ribadire che sulla memoria occorre puntare, che con la memoria è indispensabile sempre fare i conti, che il filo della memoria va seguito, perché l'alternativa non è una adesione più rigorosa alla verità; semmai è l'indifferenza.  
 
Voto: 7

sabato 11 dicembre 2021

Anne Carson, "Antropologia dell'acqua", Donzelli


 Il lirismo di Anne Carson agisce sulla realtà come un sonar: restituendo l'eco precisa di sentimenti, accadimenti e rapporti umani, permette di indovinarne la forma, l'ingombro e la natura. Questa è la logica compositiva di Antropologia dell'acqua, che presenta la piana cadenza prosaica di un diario, l'intima concentrazione di una raccolta di poesie e la densità simbolica di un libro di mistica.
 Il volume è sostanzialmente diviso in tre parti: 1) Tipi di acqua. Un saggio sul cammino di Compostela; 2) Solo per il brivido. Un saggio sulla differenza tra uomini e donne; 3) Margini d'acqua. Un saggio di mio fratello sul nuoto. I tre blocchi, in realtà, della scrittura saggistica non hanno nulla, se non l'acribia analitica: si tratta infatti di narrazioni (narrazioni di viaggio le prime due, "stanziale" la terza) di tenore diaristico, ricche di rimandi e di riferimenti poetici che sembrano letteralmente galleggiare sulla superficie di un mare affascinante, misterioso e inquietante nella misura in cui custodisce profondità invisibili e sconosciute.
 La prima narrazione è scandita dalle tappe del Cammino che da Saint-Jean-Pied-de-Port, presso Roncisvalle, porta fino a Santiago de Compostela e oltre, fino a Finisterre, l'estremo limite occidentale d'Europa. La protagonista-narratrice è accompagnata da un uomo, designato "il Mio Cid", come il cavaliere di Burgos, l'eroe della Reconquista: nel rapporto con il "Cid" - sempre vicino, ma reso metaforicamente lontano dalla sua apparente imperturbabilità - l'inquieto io narrante viene definendo le proprie particolarità, le proprie debolezze e il significato per sé del lungo pellegrinaggio che sta compiendo attraverso un paesaggio mutevole, diverso, a volte accogliente, a volte quasi ostile. Ogni tappa è introdotta dalla citazione di un poeta giapponese, spesso quel Matsuo Basho che fu a sua volta instancabile viaggiatore e che dalla propria esperienza di viaggio trasse ispirazione per i propri componimenti.
 Anche Solo per il brivido è il resoconto di un viaggio a tappe: in questo caso la protagonista accompagna il suo uomo "on the road" attraverso le strade d'America, dall'Indiana fino alla California. A differenza di Tipi di acqua, dove prevale la concentrazione sull'io individuale di chi scrive, la seconda narrazione ha come tema dominante il rapporto di coppia: la protagonista sospetta che il viaggio altro non sia che un lungo addio da parte dell'uomo che è stato fino a quel momento il suo compagno, che ogni notte campeggia con lei in un luogo diverso, e intorno al corpo del quale gravitano il suo affetto e il suo desiderio di femmina. Dalla propria esperienza l'io narrante cerca di dedurre regole generali sulle dinamiche della relazione tra uomini e donne; su quello che stereotipicamente e forse un po' riduttivamente altri chiamano amore. Nel corso del viaggio e nel suo inevitabile approdo maturerà nella protagonista una consapevolezza quasi zen del fluire del sentimento e della precarietà di ogni pretesa progettualità emotiva.
 
Anne Carson
 
 Il terzo blocco di scritti, pur conservando una cadenza diaristica, è molto diverso dai primi due, perché ha per protagonista non una versione "agente" del personaggio di chi scrive, ma suo fratello: un ragazzo pieno di ombre, che è partito per il mondo, e che da tempo non dà notizie di sé. La simbologia legata all'elemento liquido, che nei due precedenti racconti era presente soprattutto in filigrana, qui viene esplicitata e ipostatizzata nella pratica del nuoto nella quale quotidianamente, quando le condizioni atmosferiche lo consentono, il protagonista si cimenta nelle acque variabili del lago che si scorge dalla finestra della sua casa. L'immersione nell'acqua, il mutare della luce, dei colori, della temperatura diventano qualcosa di più e di diverso dai correlativi oggettivi degli stati d'animo dell'uomo; sono piuttosto parte integrante dell'elasticità e della permeabilità dell'essere, che nella visione qui esplicata tende a fare tutt'uno col mondo.
 Il terzo racconto, fra l'altro, diventa fondamentale per chiarire il senso del titolo del libro, Antropologia dell'acqua: come viene detto in La pietra del desiderio - Introduzione a Margini d'acqua, l'acqua si può paragonare al Qi, la parola cinese che serve a designare il "respiro" o l'"energia vitale"; è l'elemento in cui si compendiano la morfologia e la fenomenologia del nostro essere. "Noi fluttuiamo sull'acqua, al giusto livello ogni cosa nuota" dice il fratello alla narratrice. Andando anche oltre, potremmo addirittura dire che, in una certa misura, noi siamo acqua: come acqua fluiamo, come acqua possiamo cambiare forma, come acqua possiamo intorbidarci o illimpidirci, lasciare filtrare la luce o schermarla, custodire la vita o spegnerla, lasciar fluttuare ogni cosa o colarla a picco e precipitarla sul fondo.
 Non esiste forse metafora più discreta e appropriata per descrivere la vita.
 
In poche parole: il lirismo di Anne Carson agisce sulla realtà come un sonar: restituendo l'eco precisa di sentimenti, accadimenti e rapporti umani, permette di indovinarne la forma, l'ingombro e la natura. Questa è la logica compositiva di Antropologia dell'acqua, che presenta la piana cadenza prosaica di un diario, l'intima concentrazione di una raccolta di poesie e la densità simbolica di un libro di mistica.
Lo strano titolo richiede senz'altro una spiegazione: nella logica metaforica dell'autrice si può dire che noi siamo acqua. Come acqua fluiamo, come acqua possiamo cambiare forma, come acqua possiamo intorbidarci o illimpidirci, lasciare filtrare la luce o schermarla, custodire la vita o spegnerla, lasciar fluttuare ogni cosa o colarla a picco e precipitarla sul fondo.
Non esiste forse metafora più discreta e appropriata per descrivere la vita.
   
Voto: 7

domenica 28 novembre 2021

Michele Mari, "Le maestose rovine di Sferopoli", Einaudi

 

 Michele Mari, fra gli autori italiani contemporanei, è lo scrittore della curvatura dell'io, dell'eterna persistenza dell'infanzia (nel senso etimologico del termine), della bramosia inappagata e del disagio esistenziale connaturato alla convivenza con il mistero rappresentato dalla propria stessa coscienza. Tali caratteristiche ritornano tutte in questa strana raccolta di racconti - o per meglio dire, di scritti ibridi - intitolata Le maestose rovine di Sferopoli.
 Alto e basso, citazione proverbiale e raffinata ripresa di motivi colti, riflessione filosofica e scherzo, resoconto tassonomico e afflato lirico convivono nel testo, quasi a indurre nel lettore che cerca di designare o di classificare il libro lo stesso smarrimento di cui sono preda i protagonisti o i narratori delle storie raccontate.
 A ben vedere, infatti, proprio lo smarrimento appare il sentimento dominante nella maggior parte dei 25 scritti proposti. Prendiamo il pezzo di apertura del testo: Strada Provinciale 921 è, all'apparenza, un brano estratto da una guida turistica che, con il linguaggio proprio della guida turistica, scorta il malcapitato viaggiatore oltre il "passo della Furca", lungo la "valle del Bramone" e più avanti ancora, in un lunghissimo percorso fra montagne e mare, attraverso boschi e lungo scogliere, fino a luoghi orrorifici che palesano il fatto che lo scritto che si sta leggendo è un vero e proprio baedeker dell'assurdo.
 O prendiamo Sghru, dove un professore universitario, nel corso di un esame di Letteratura italiana, interroga sull'ode foscoliana All'amica risanata uno studente assolutamente impreparato, addirittura sprovvisto dei minimi prerequisiti tecnici necessari per accostarsi all'analisi formale di un testo in versi; quando però lo studente pretende di tradurre il testo di Foscolo nella sua inidentificabile lingua madre, improvvisamente il professore si sente trascinato "nell'Ellade, se era l'Ellade, fra divinità olimpiche e creature abnormi espresse dalla Terra, ircocervi e satiri dal piede caprino, ed eroi, e mostri, e fanciulle seminude che versavano ambrosia nelle coppe, e navi, e incendi, e profeti canuti, e larve guerriere, e cerve, e tritoni, e cavalli, tantissimi cavalli dal manto lucente...": come se quell'irrituale escursione ricordasse di punto in bianco come lo spirito della poesia risieda in qualcosa di profondo, metamorfico e sfuggente a qualsiasi tentativo di normalizzazione accademica dell'espressione artistica. Tanto che l'esame si conclude per il bizzarro studente con un trenta e lode, che l'attonito insegnante si sente costretto a elargire.
 Lo smarrimento trascolora in angoscia quando Mari si appoggia ai paradigmi della letteratura del mistero e dell'orrore, e li piega alla propria sofisticata visione della realtà. Come in Argilla, dove si parla degli otto rabbini più potenti del mondo che, ogni anno, si danno appuntamento presso una cava di argilla per una spaventosa gara fra i Golem da essi creati. Naturalmente, a un certo punto, al più incauto fra loro, il gioco sfugge di mano, con conseguenze terribili per l'umanità intera.
 
Michele Mari
 
 O come in Boletus edulis, dove l'antica rivalità fra i parroci di due paesi contigui in alta val Seriana, originatasi chissà come, degenerata in un odio reciproco dissimulato ma feroce, e tradottasi in una competizione apparentemente innocua fra i due prelati calati nelle vesti di cercatori di funghi, spinge i due uomini addirittura al delitto, nella logica viziosa di un contrasto dove conta non tanto prevalere, ma schiacciare l'altro, vederlo soffrire e infine distruggerlo.
 Se, nella sua ricerca dei risvolti oscuri che si celano dietro la realtà come siamo abituati a percepirla, la sponda scelta da Mari - con la sua vasta cultura e la sua notevole abilità mimetica - è costituita da un'opera di particolare livello letterario, il risultato finale sfiora il capolavoro. Quando ad esempio, in Il falcone, l'autore parte dalla novella boccacciana di Federigo degli Alberighi (nona novella della quinta giornata del Decameron) per rovesciarne l'approdo dando spazio, in una riscrittura perfettamente eseguita in italiano trecentesco, alle ombre e ai sentimenti ambigui che albergano nelle pieghe della vicenda narrata, e che il pensiero di migliaia di studenti certamente ha sfiorato e sfiora in continuazione, la vita improvvisamente ci sembra poggiare su fondamenta assai meno stabili e rassicuranti di quelle che il nostro ostinato ottimismo di solito vuole considerare.
 Ugualmente efficaci appaiono quei racconti che fanno appello alla singolare capacità dell'infanzia e dell'adolescenza di trasfigurare il reale in chiave fantastica e spesso angosciosa. E' un discorso che vale per Tema in III C, per Storia del bambino triste, per Scarpe fatidiche (che ricorda molto il celebre La giacca stregata di Dino Buzzati), per Dialogo tra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi.
 Non mancano, secondo un consolidato costume di Michele Mari, i divertissement verbali o concettuali, che alleggeriscono il tono, ma incorporano sempre riferimenti seri e un paradossale rovesciamento del senso comune, tanto da riuscire talvolta a far correre un brivido lungo la schiena: si pensi a Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate, a Medio Evo, a Scioncaccium e alle ingegnose Variazioni Goldberg, che sfidano la cultura del lettore e ne stimolano la memoria.
 Insomma: con Mari vale sempre la pena.
 
In poche parole: Michele Mari, fra gli autori italiani contemporanei, è lo scrittore della curvatura dell'io, dell'eterna persistenza dell'infanzia (nel senso etimologico del termine), della bramosia inappagata e del disagio esistenziale che si prova al cospetto della propria coscienza, e del mistero che essa rappresenta. Tali caratteristiche ritornano tutte in questa strana raccolta di racconti - o per meglio dire, di scritti ibridi - intitolata Le maestose rovine di Sferopoli. 
Alto e basso, citazione proverbiale e raffinata ripresa di motivi colti, riflessione filosofica e scherzo, resoconto tassonomico e afflato lirico convivono nel libro, quasi a indurre nel lettore che cerca di decodificare il testo lo stesso smarrimento di cui sono preda i protagonisti o i narratori delle storie raccontate. 
 
Voto: 7

sabato 20 novembre 2021

Antonella Anedda, "Geografie", Garzanti


 Quando si comincia a leggere Geografie di Antonella Anedda viene subito da domandarsi che tipo di libro sia e quali siano i suoi modelli. La risposta non è immediata né scontata: il testo consta infatti di una serie di brevi brani in prosa, dal notevole afflato lirico (a volte quasi dei poemi in prosa) e dal tenore vagamente diaristico, che insistono su esperienze autobiografiche coincidenti con una serie di viaggi o di peregrinazioni della narratrice in varie parti d'Italia, d'Europa e del globo.
 Tali esperienze si nutrono non solo di ciò che la protagonista vede o di ciò che le capita in prima persona, ma anche di quello che ella sa, di quello che immagina, di quello che ricorda, di quello che impara dalla storia, dall'arte, dall'attualità, dalla gente dei luoghi che visita.
 A tutta prima, così, il collegamento che più pare pertinente, sembra quello con il frammentismo tipico della seconda decade del Novecento (con scrittori come Giovanni Boine o Scipio Slataper, per intenderci); ma, a un esame più attento, il modello principale che opera in queste pagine risulta essere quello della poetessa americana Anne Carson - per la quale Antonella Anedda stessa ammette una speciale predilezione - per via della trama segreta che tiene insieme i diversi frammenti e dell'unitarietà dell'impianto simbolico a cui l'intero libro risponde, e che per l'intero libro si espande.
 Facciamo qualche esempio: l'esplorazione della valle del Vajont e dei persistenti segni del disastro provocato dalla frana del monte Toc del 9 ottobre 1963 diventa l'occasione per constatare i piccoli segni dell'ostinazione della vita oltre il disastro, ravvisabili nell'insediamento lungo le pareti di roccia erose dall'acqua di "piante pioniere", capaci di "colonizzare i terreni scoperti". Questi richiami riverberano sul brano successivo, in cui si mettono a fuoco le immagini degli incendi che devastano l'Australia (simboleggiati da un piccolo koala ustionato) e quelle della Libia squassata dalla guerra civile, che a tutta prima inquadrano una distruzione che non sembra lasciare spazio alla speranza, ma che la conclusione del brano precedente in qualche modo ridimensiona. Da lì si passa poi a una quieta descrizione della quotidianità durante il lockdown, dove una desolazione che da un momento all'altro può trasformarsi in disperazione non impedisce di cogliere i segni della resistenza della natura e della persistenza delle necessità del vivere nelle "foglie della pianta sinistra che si sono allungate".
 Proprio in virtù della trama di questi collegamenti simbolici, che si irradia come una radice di brano in brano, le situazioni, le emozioni e le osservazioni più diverse si tengono insieme. La Grecia può essere così, insieme, la terra del mito - con la sua crudele essenzialità - e il luogo di approdo di migliaia di migranti, trattati dalla gente del posto con essenziale crudeltà. Il Giappone è la terra dell'esplosione della prima bomba atomica, e insieme quella di riti antichissimi e di raffinatissimi poeti. La Finlandia è tradizionale rifugio di intellettuali in fuga, terra di architetti e carezza di raccolte solitudini.
 
Antonella Anedda
 
 A volte le relazioni tra diverse istanze sono più sottili, meno evidenti, e possono accostare realtà fra loro lontanissime: il canale della Manica e l'isola di Lesbo, Parigi e la Corea, Londra e Roma. L'accostamento avviene sulla base di un immagine, di un colore, di una suggestione che, filtrata dagli occhi dell'io lirico, si carica di una straordinaria energia emotiva. 
 Come spesso faccio per i libri di poesie, mi piace qui riportare uno dei componimenti (o, per meglio dire, uno dei frammenti) capaci di dare un'idea della forza espressiva della scrittura di Antonella Anedda. Scelgo questo, che mi pare particolarmente significativo:
 "La rotta per il Giappone prevede di passare sulla steppa russa. Anche la rotta per la Corea.
Si possono piangere i morti così: sorvolando gli Urali. Seul è la distanza giusta per piangere una morte precoce. La Corea del Sud ha distese di acacie spine e di polvere. Eravamo un gruppo non troppo affiatato, ma il cibo era buono, l'albergo aveva una piscina. La persona con cui viaggiavo conosceva il significato della parola lutto. Siamo stati in un tempio moderno, chiaro, vuoto, dentro una struttura molto simile a un grande supermercato dove ho comprato due ciotole uguali molto piccole che ho regalato al mio ritorno alla moglie e alla fidanzata del mio amico morto. Siamo esseri complicati.
La rotta per Tokyo sorpassa Mosca e sale verso est. Tutti dormono ma c'è luce, abbastanza per vedere i laghi neri spezzati di ghiaccio grigio".
 Le parole con cui il libro si chiude sono invece una sorta di sigillo alla filosofia e alla poetica ad esso sottese:
 "Sgretolarsi significa lasciarsi erodere, sgretolarsi permette di coagularsi di nuovo.
Ricominciamo".
 
In poche parole: libro costituito da una lunga serie di brevi prose liriche dal tenore diaristico, che si sviluppano sul resoconto di emozioni di viaggio tramate di una fitta rete di riferimenti simbolici, Geografie ricorda da vicino il frammentismo tipico della nostra tradizione letteraria di inizio Novecento; anche se forse, fra i modelli operanti nella scrittura di Antonella Anedda, è più pertinente ricordare quello di una delle poetesse americane preferite dall'autrice: Anne Carson.

Voto: 6.5

domenica 7 novembre 2021

Roberto Calasso, "Bobi", Adelphi


 Pubblicato subito dopo la morte di Roberto Calasso, il libro prova a inquadrare la figura affascinante e sfuggente di Bobi Bazlen, uno dei personaggi culturalmente più rilevanti del Novecento italiano per via dell'influenza straordinaria che ebbe sullo sviluppo della nostra editoria e per la sua capacità di individuare e portare al centro della scena scrittori in precedenza trascurati o considerati periferici.
 A lui si devono, ad esempio, gran parte della fortuna di Svevo, di cui fu amico (fu Bazlen a spingere Montale a recensirlo, dando così un impulso eccezionale alla sua diffusione), la conoscenza in Italia dell'opera di Kafka (che leggeva in originale, essendo di madrelingua tedesca), la divulgazione delle teorie psicanalitiche (specie quelle di matrice junghiana).
 Alcuni anni fa ebbi l'occasione di leggere una informatissima biografia di Bobi Bazlen a opera di Cristina Battocletti in cui, per successivi blocchi tematici, si cercava di ricostruire le varie fasi della vita dell'intellettuale triestino, senza riuscire però, a mio parere, a coglierne l'essenza. 
 Calasso compie invece un'operazione totalmente diversa: rispettando, in un certo senso, la vaghezza consustanziale al carattere di Bazlen (che, lo ricordiamo, scelse di non pubblicare nulla di proprio in vita, e di agire culturalmente attraverso i libri degli altri), punta su un approccio rabdomantico, abbozzandone uno schizzo letterario attraverso il ricordo di alcuni estremporanei episodi riconducibili alla frequentazione diretta di Bobi o riferiti da comuni conoscenti.
 In questo modo, la specificità del personaggio riesce singolarmente esaltata; molto più di quanto avvenisse in quella biografia "regolare". Moltissimo mi pare che dica, a questo proposito, la descrizione della stanza di Bobi Bazlen in via Margutta 7 a Roma: 
"La stanza di Bobi dava l'impressione di un perfetto ordine, senza per quesro essere particolarmente ordinata. A sinistra un letto, dove si svolgevano le sue funzioni più importanti: leggere, scrivere, dormire. Alcune pile di libri, alcuni stabili, altri di passaggio. Si riconosceva subito la differenza. Un minuscolo tavolino in mezzo. In un angolo, il fornello per il caffè. Bobi aveva un suo maglione norvegese marrone scuro, una tonalità attenuata dal tempo, che mi piacque subito. Non era l'uomo adatto per i preamboli. Subito parlava della traduzione, di Williams, dello stile della Campo".
(Chissà perché mi viene in mente l'attacco di una poesia di Vittorio Sereni dedicata a un altro grande triestino, Umberto Saba: "Berretto pipa bastone, gli spenti / oggetti d'un ricordo. / Ma io li vidi animati indosso a uno / ramingo in un'Italia di macerie e di / polvere.").
 
Roberto Calasso
 
 E poi, la ricostruzione della sua capacità straordinaria di trovare libri che andassero oltre il senso comune, di trovare nei libri quello che andava oltre il senso comune:
"Tutto quello che Bobi diceva sui libri era ciò che più mi attirava, mi colpiva e poi rimuginavo, provando a collegare i punti, talvolta lontanissimi. Ma c'era qualcosa di precedente, e forse più importante, che sosteneva le sue parole. Con lui, per la prima volta, avevo l'impressione di qualcuno che fosse riuscito a sbarazzarsi di tutte le idee correnti (ed erano tante, allora - e pesanti, difficili da smuovere)".
 E ancora, i lapidari giudizi, rapidi e inappellabili, che tendono come lampi a illuminare il personaggio:
"Bazlen era inadatto a qualsiasi funzione, se non quella di capire e di essere".
  Notevole è la sottolineatura della complessità e dell'ambivalenza dei rapporti che Bazlen mantenne per tutta la vita con coloro che gli erano vicini, e che in qualche modo si sentivano in soggezione al suo cospetto, o erano urtati dalla sua irriducibilità alle categorie entro le quali comunemente si inquadra un intellettuale; come Carlo Emilio Gadda o come Eugenio Montale, che alla sua morte fu incaricato di scriverne il ricordo ma, quasi contro la propria volontà, "più voleva lodarlo, più lo denigrava".
 Necessario è soffermarsi sull'avventura editoriale che ha riempito la vita di Calasso, ma che proprio da Bazlen ricevette l'energia culturale indispensabile per l'iniziale abbrivio. Come riconosce l'autore: "L'opera compiuta di Bazlen fu Adelphi". Al di là dei suggerimenti su come impostare il lavoro editoriale, sui classici trascurati da altri che costituirono le pietre angolari dell'impresa, fondamentale risultò il carattere che Bazlen riuscì a conferire alla scelta degli altri testi da pubblicare:
"Per lui, essenziali erano quelli che chiamava libri unici - e potevano avere forma di romanzi o memorie o saggi o, in breve, di qualsiasi altro genere. Ma comunque dovevano nascere da un'esperienza diretta dell'autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spiccasse, solitario e autosufficiente".
 Molto racconta di Bobi anche la sua predilezione per le "bettole", ovvero "una stanza spoglia, con pochi tavoli di legno, pochi avventori, niente musica, un vino tollerabile": una tipologia di locale che già nell'Italia degli anni sessanta andava scomparendo.
 Quella che a me sembra la migliore fotografia di questo letterato unico è, però, deducibile dai giudizi da lui espressi su Sigmund Freud per il settimanale "Omnibus" nel 1947: come, per tutta la vita, Bazlen riuscì a esprimersi attraverso libri non scritti da lui, così dopo morto sembra parlare di sé - magari per contrasto - discutendo di un altro. Dice dunque Bazlen:
"Freud scava in profondità, esamina in profondità, esperimenta in profondità, scopre in profondità. Ma non concepisce altre realtà intorno a lui, non immagina altri valori al di fuori di quelli nell'ambiente in cui è nato e vissuto. E l'ambiente era piccolo, sazio, arrivato; digeriva su basi solide e conosciute che il positivismo di allora considerava eterne. Gente che alla lotta per la vita aveva sostituito la lotta per la carriera...".
 Un giudizio che sembra un sigillo, anche se Calasso chiosa: "Non c'era una sola parola da togliere. E nessuna parola potrebbe essere sostituita. Anni dopo, in una situazione simile, quasi tutto andrebbe tolto e sostituito".
 
In poche parole: pubblicato subito dopo la morte di Roberto Calasso, il libro prova a inquadrare la figura affascinante e sfuggente di Bobi Bazlen, uno dei personaggi culturalmente più rilevanti del Novecento italiano per via dell'influenza straordinaria che ebbe sullo sviluppo della nostra editoria e per la sua capacità di individuare e portare al centro della scena scrittori in precedenza trascurati o considerati periferici.
A lui si devono, ad esempio, gran parte della fortuna di Svevo, di cui fu amico (fu Bazlen a spingere Montale a recensirlo, dando così un impulso eccezionale alla sua diffusione), la conoscenza in Italia dell'opera di Kafka (che leggeva in originale, essendo di madrelingua tedesca), la divulgazione delle teorie psicanalitiche (specie quelle di matrice junghiana).
Per rievocare Bobi, Calasso utilizza un approccio rabdomantico, abbozzandone uno schizzo letterario che passa attraverso il ricordo di estemporanei episodi, di singole frasi, di lapidari giudizi, di memorabili suggerimenti; un approccio perfettamente confacente al carattere del personaggio, e che risulta più efficace che mai.
 
Voto: 7

domenica 29 agosto 2021

Antonio Pennacchi, "Fascio e martello", Laterza

 

 Per onorare la memoria di Antonio Pennacchi, recentemente scomparso, ho deciso di riprendere in mano uno dei suoi libri meno noti ma più significativi, che ho acquistato molti anni fa leggendone qua e là, nel corso del tempo, solo alcuni singoli passi tutte le volte che mi sono imbattuto in un tema o sono capitato in un luogo a cui il testo riserva uno specifico approfondimento, ma senza mai applicarmi ad esso sistematicamente. Non si tratta di un romanzo ma di un saggio, anzi di una raccolta di saggi (alcuni dei quali pubblicati in passato sulla rivista Limes) dedicati ai centri urbani fondati ex novo in epoca fascista, alle loro caratteristiche architettoniche, alla concezione urbanistica a cui rispondono, ai diversi scopi con cui sono stati creati, all'orientamento ideologico - non sempre univoco - ad essi sotteso. Si intitola (un po' provocatoriamente, come era costume di Pennacchi) Fascio e martello
 Il fascino del libro è accresciuto dal fatto che Pennacchi non parla solo da scrittore lucido e curioso, e da storico amatoriale teso a riscoprire (magari con qualche evidente parzialità) alcuni tratti del fascismo rivoluzionario "di sinistra", che la degenerazione autoritaria del movimento, l'opzione militarista, l'allenza col nazismo tedesco, le Leggi razziali e poi la conseguente, disastrosa scelta di entrare in guerra a fianco di Hitler hanno completamente obliterato; Pennacchi parla da tecnico, geometra per formazione e studioso di urbanistica. Questo rende le tesi che via via espone e argomenta ficcanti e particolarmente convincenti, le ricerche di cui comunica gli esiti originali e razionalmente fondate.
 Innanzitutto Pennacchi afferma che le "città del duce" non sono soltanto 12 (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Guidonia, Aprilia, Pomezia, Mussolinia, Fertilia, Carbonia, Arsia, Torviscosa, Pozzo Littorio) come sostiene la storiografia ufficiale: sono molte di più, soprattutto se si riconosce - come è giusto - la validità dell'assunto secondo cui si può definire città di fondazione qualsiasi insediamento umano nato dove prima insediamento non c'era, sulla base di una precisa volontà progettuale (cioè non come accampamento provvisorio, ma come centro strutturato con una serie di servizi pensati per rispondere stabilmente alle esigenze della vita associata di una comunità di persone). Tutto questo indipendentemente dalle dimensioni dell'insediamento, che può essere un borgo concepito per poche centinaia o poche migliaia di abitanti, o una città come Carbonia, creata per ospitare da subito 30mila anime.
 Sulla base di questi criteri, in Italia si possono individuare almeno 147 città di fondazione nate in epoca fascista (comprendendo anche Arsia e Pozzo Littorio, oggi in territorio croato, ma costruite lungo le coste dell'Istria, in luoghi che all'epoca erano integralmente abitate da italiani). Il dato è sorprendente se si tiene conto della vocazione "strapaesana", dichiaratamente anti-urbana che caratterizzò il fascismo delle origini e dei primi anni dopo la presa del potere.
 
Antonio Pennacchi
 
 Poi varie circostanze concorsero a determinare un deciso cambio di passo. La spinta che favorì la nascita delle nuove città non fu sempre e ovunque la stessa: vi furono città nate per favorire la colonizzazione di zone bonificate (non solo i principali centri urbani dell'agro pontino ma, ad esempio, anche Arborea - già Mussolinia di Sardegna - in provincia di Oristano); città nate come villaggi operai in luoghi in cui si voleva promuovere l'industria estrattiva dopo la guerra d'Abissinia e l'isolamento dell'Italia in seguito alle sanzioni internazionali (come Carbonia, nel Sulcis); città nate per cercare di introdurre un modello di sfruttamento del suolo agricolo diverso da quello dell'agricoltura estensiva caratteristica del latifondo (è il caso dei centri agricoli creati negli anni trenta nella Capitanata, in provincia di Foggia, come ad esempio Segezia).
 Pennacchi individua anche tre momenti diversi nell'urbanesimo di fondazione fascista. In un primo periodo, coincidente con l'inizio della bonifica dell'agro pontino, il processo di urbanizzazione è guidato dai proprietari terrieri parte del Consorzio di bonifica, per i quali il centro urbano è un necessario luogo di residenza per gli appartenenti alla classe dirigente, i borghesi, i professionisti che non lavorano personalmente la terra. 
 In un secondo momento, la fondazione di nuovi centri è pianificata dall'Opera Nazionale Combattenti (Onc), che seguendo una concezione molto più populisticamente "integrata" della società fascista concepisce città in cui tutto ruota intorno al potere politico, in cui tutte le classi sociali trovano posto allo stesso titolo in nome della medesima ideologia, in cui il legame fra il centro urbano e la campagna circostante è molto più stretto. 
 C'è infine una terza fase, che non vede mai piena realizzazione, dato che viene bruscamente interrotta dalla guerra, in cui Pennacchi vede - forse arbitrariamente - una sorta di bolscevizzazione del fascismo, e in cui l'Onc, soprattutto nel sud Italia, opererebbe per l'istituzione di villaggi contadini simili a kolchoz, con lo scopo di spezzare l'antico dominio del latifondo; processo desolatamente abortito nel dopoguerra dopo la presa del potere da parte della Democrazia Cristiana.
 Anche i messaggi impliciti lanciati con le loro costruzioni e i loro piani urbanistici dai principali architetti protagonisti di questa epopea cambiano nel tempo. Si prenda Concezio Petrucci, che ad Aprila e a Pomezia dona un'enfasi particolare alla torre littoria, vero riferimento di tutta la cittadinanza secondo il modello delle torri civiche medioevali; mentre più tardi, a Segezia ad esempio, dopo le leggi razziali restituisce al campanile della chiesa la sua tradizionale centralità, in sottile polemica con le stesse istituzioni fasciste, dato che aveva sposato una donna ebrea.
 Pennacchi si lascia andare spesso all'esplicitazione delle sue predilezioni estetiche, che escludono la citatissima Sabaudia e comprendono invece Aprilia e Segezia; che esaltano la modernità di talune soluzioni stilistiche adottate, ad esempio, per il campanile del duomo di Segezia, per la Casa del fascio di Borgo Cervaro, per il chiostro della piazza principale di Borgo Giardinetto, per i quartieri residenziali di Arsia; che si soffermano sulla scelta geniale di "spezzare" il decumano, ponendolo, in alcuni progetti, fuori asse in prossimità della piazza principale, così da raddoppiare la funzione della piazza stessa, religiosa e civile, e da disegnare, attraverso il tracciato delle vie cittadine visto dall'alto, una specie di baionetta.
 Il libro è molto godibile, grazie anche alla disinvoltura stilistica dell'autore, che scrive come se parlasse a un amico, senza preoccuparsi di qualche solecismo, prendendosi più di una licenza poetica, utilizzando d'abitudine una certa sprezzatura che gli consente di mischiare gergo tecnico e vernacolo.
 Detto questo, certe interpretazioni risultano discutibili; ma è una cosa che fa parte del gioco, visto il tema e il personaggio che il gioco lo conduce.
 
In poche parole: Fascio e martello è un saggio, anzi una raccolta di saggi dedicati ai centri urbani fondati ex novo in epoca fascista, alle loro caratteristiche architettoniche, alla concezione urbanistica a cui rispondono, ai diversi scopi con cui sono stati creati, all'orientamento ideologico - non sempre univoco - ad essi sotteso. In Italia si possono individuare 147 città di fondazione edificate durante il Ventennio, e distinguere diverse tipologie progettuali e diversi modi di pensare una comunità, che consentono forse di tracciare un'evoluzione dell'approccio al problema dell'urbanizzazione in cui in filigrana si può ancora leggere la lotta fra le diverse anime del fascismo. 
 
Voto: 7

domenica 22 agosto 2021

Matteo Codignola, "Cose da fare a Francoforte quando sei morto", Adelphi

 Inevitabilmente, a poco tempo dalla scomparsa di Roberto Calasso, la recensione di un libro di Matteo Codignola - cugino di secondo grado ed editor al servizio della casa editrice del nume tutelare e direttore di Adelphi - non può che diventare l'occasione per commemorare uno dei personaggi più importanti dell'editoria italiana degli ultimi cinquant'anni. Tanto più se questo libro è un fantasioso memoriale delle esperienze accumulate dall'autore frequentando la Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, il più importante avvenimento "diplomatico-commerciale" per gli specialisti del settore.
  Come Codignola confessa, il libro avrebbe potuto intitolarsi Avventure nel commercio della carta, dietro la suggestione delle Adventures in the Skin Trade di Dylan Thomas. Il registro scanzonato e l'ironica (e autoironica) sprezzatura che improntano il racconto hanno poi suggerito una soluzione diversa e comicamente surreale.
 Il libro si compone di due divaganti pezzi narrativi e da una (malinconica) conclusione. Tutti gli aneddoti rievocati sono tessuti sul telaio di un umorismo colto ed elegante, e vengono sviluppati con l'informale, digressiva naturalezza di una chiacchierata. Fra i personaggi che vengono chiamati in causa - molti dei quali citati attraverso perifrasi, ma ben riconoscibili a chi abbia un minimo di familiarità con l'editoria italiana - quello comicamente più efficace è senz'altro Basso: fotografo di scrittori, amico del protagonista-narratore, e inseparabile compagno dei suoi viaggi in auto verso Francoforte attraverso la Svizzera, Basso svolge sempre la funzione dell'eroe anticonformista che, con la sua tendenza a non rispettare le regole e le buone abitudini, mette in moto la macchina di piccole grandi avventure. 
 Come quando, maldestramente, cerca di convincere - usando un inglese approssimativo e degli ammicchi classicamente mediterranei - due severi gendarmi dall'aspetto tutt'altro che rassicurante (i "cetnici") a chiudere un occhio di fronte alla patente sventuratamente scaduta dell'autista-narratore.
 O come quando, in piena Buchmesse, contravvenendo all'etichetta delle trattative fra agenti letterari e case editrici per l'acquisto dei diritti dei libri di un autore "nuovo", irrompe nello stand di un'importante casa editrice tedesca per cercare di sapere quanto è stato offerto per l'ultimo titolo di uno scrittore che anche Adelphi sta pensando di mettere sotto contratto. 
 O, ancora, come quando, in chiusura di rassegna, convince il narratiore ad accompagnarlo presso lo stand di una casa editrice specializzata in testi fotografici per fare incetta, senza dare troppo nell'occhio, di saggi gratuiti.
 Lo strano titolo deriva da un episodio bizzarro capitato alcuni anni fa, quando alla Fiera si presentò un piccolo editore di cui i giornali avevano erroneamente diffuso la notizia della morte; la sua epifania generò un generale sconcerto fra coloro che lo conoscevano (o credevano di averlo conosciuto...). 

Matteo Codignola

Nel libro Calasso compare semplicemente come l'Editore: figura autorevole dotata di un sano pragmatismo e di un intuito notevole, votato a riconoscere e ad aggiudicarsi il libro che non si può perdere (memorabile la scena in cui conduce le trattative per mettere sotto contratto un importante scrittore emergente - riconoscibile in Emmanuel Carrère - rinchiuso in uno sgabuzzino per formulare la giusta offerta).
 In una recente intervista, Codignola descrive Roberto Calasso come un personaggio assai meno snob di come la stampa lo ha sempre dipinto, interamente votato al libro come indispensabile strumento di riflessione sulla realtà e di approfondimento delle sue possibili interpretazioni. Per ogni argomento di attualità culturale o di interesse generale, la sua domanda era: "abbiamo il libro?".
 Questo ritratto aggiunge malinconia a malinconia, laddove la conclusione del testo (intitolata significativamente Addio a tutto questo) suona un po' come un congedo da un modo di fare editoria che va scomparendo, soprattutto dopo le incertezze instillate dalla pandemia e dai suoi strascichi nella nostra economia e, un poco, nel nostro stesso modo di intendere la vita associata.
 
In poche parole: a poco tempo dalla scomparsa di Roberto Calasso, il libro di Matteo Codignola - editor e cugino di secondo grado del nume titolare di Adelphi - non può che diventare l'occasione per commemorare uno dei personaggi più importanti dell'editoria italiana degli ultimi cinquant'anni. Tanto più visto che questo libro è un fantasioso memoriale delle esperienze accumulate dall'autore frequentando la Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, il più importante avvenimento "diplomatico-commerciale" per gli specialisti del settore. Una sfumatura malinconica finisce così per colorare il testo, laddove la sua conclusione suona un po' come un congedo da un modo di fare editoria che rischia di scomparire.
 
Voto: 6,5

venerdì 16 luglio 2021

Edith Bruck, "Il pane perduto", La nave di Teseo


 Probabilmente questo è il libro che, fra tutti quelli presenti nella rosa dei candidati, avrebbe meritato maggiormente di aggiudicarsi il premio Strega (se i premi letterari hanno un senso); non perché fosse indiscutibilmente il libro più bello, ma perché appare il più necessario.
 Giunta ai suoi novant'anni, temendo di perdere la memoria, l'autrice - ebrea mitteleuropea reduce da Auschwitz - ripercorre le tappe fondamentali della propria tragica e avventurosa esistenza: lo scheletro di tutta una vita capace di reggere la polpa dei sentimenti, il sangue dei pensieri.
 Il titolo deriva dal pane che Deborah, la madre della giovane Ditke (questo il soprannome della protagonista-narratrice), sta preparando nel momento in cui, nella primavera del 1944, si presentano alla porta della loro casa, in un piccolo villaggio ungherese non lontano dal confine con la Cecoslovacchia, due "croci frecciate", intimando a tutta la famiglia di sgomberare le stanze e di portare con sé lo stretto indispensabile. 
 Fino a quel momento l'infanzia di Ditke è stata povera, ma non infelice: l'amore per la scuola e per la scrittura, l'atteggiamento tutto sommato non ostile della maggior parte dei vicini, il calore domestico hanno permesso alla piccola e ai suoi familiari di dimenticare quello che avveniva nell'Europa stretta nella morsa di Hitler, e quello che avveniva dentro l'Ungheria stessa, retta da un governo filonazista. 
 Ma tutto improvvisamente cambia: prima c'è il trasferimento nel ghetto ebraico della più vicina città (miseria, confusione, fame, però con la consolazione di essere ancora tutti insieme); poi la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz, dove muoino il padre, la madre (subito selezionata per le camere a gas), il fratello minore Jonas.
 
Una giovane Edith Bruck
 
 Ditke e la sorella maggiore Judit (di quattro anni più grande di lei), invece, sopravvivono. Una ha quattordici anni, l'altra diciotto, e sono considerate idonee al lavoro. Mese dopo mese passano da un campo all'altro, sfinite, umiliate, con il pericolo della morte costantemente incombente, concentrate sulle proprie necessità fisiche, senza badare più alle voci dell'avanzata delle forze armate sovietiche ed angloamericane, e della sconfitta imminente dei nazisti.
 La liberazione da Bergen-Belsen, quando arriva, è una vera e propria rinascita. Eppure, tornando a casa, le due sopravvissute - diventate quasi inseparabili - non trovano solidarietà e comprensione, ma indifferenza, sospetto, a volte diffidenza; persino da quei parenti che non hanno conosciuto l'orrore dei lager e che, ora, nella generale indigenza del dopoguerra, hanno ciascuno i propri guai, difficoltà da affrontare che l'egoismo ingigantisce. 
 In tempi diversi e dopo nuove peregrinazioni, Judit e Ditke accettano di partire per Israele, la nuova terra promessa degli ebrei: ma mentre la prima riesce a trovarvi un uomo che l'ama e la pace, la protagonista vi si sente a disagio, fra la necessità di lottare per qualsiasi cosa, nuove difficoltà linguistiche e culturali, l'idiosincrasia per le armi indispensabili a difendere con tenacia gli aridi territori strappati agli inglesi e agli arabi. 
 
Edith Bruck oggi
 
 A soli diciassette anni, per evitare il servizio militare che non sopporterebbe (come non sopporterebbe la promiscuità di un dormitorio comune, essendo troppo vivo il ricordo dei letti e delle baracche dei campi di concentramento, in cui poteva capitare di svegliarsi accanto ad un cadavere), Ditke si sposa con un giovane marinaio, che però è terribilmente geloso e la maltratta. La seconda volta che alza le mani su di lei, la ragazza lo lascia e chiede il divorzio. E dopo un breve soggiorno presso la sorella, si trova di nuovo in viaggio, zingara: ballerina e cantante in una compagnia teatrale attraverso l'Europa.
 La sua nuova casa la giovane Ditke la trova in Italia quando, con un altro gruppo di artisti girovaghi, approda a Napoli: la gente, la cultura, il clima, il calore umano fanno sbocciare qualcosa di magnifico dentro di lei. 
 Stabilitasi a Roma, la protagonista diventa - grazie alla sua conoscenza delle lingue e alla sua facilità nell'apprendere cose nuove - direttrice di un centro estetico in via Condotti, frequentato da fascinose attrici e nobildonne piene di sé; darà presto l'addio alla spocchia delle sue importanti clienti e alla maleducazione della sua datrice di lavoro licenziandosi quando, dopo aver pubblicato il suo primo libro, conoscerà e sposerà il poeta e regista Nelo Risi.
 Dicevamo che l'Italia diventa la nuova casa di Ditke; non la sua patria perché, scrive l'autrice, "la parola patria non l'ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola patria come tante altre parole: mio, zitto, obbedisci, la legge è uguale per tutti, nazionalismo, razzismo, guerra e quasi anche la parola amore, privata della sua sostanza".
 Il libro è di una magnifica essenzialità: è come un quadro in cui il pittore sia riuscito a ottenere il massimo dell'espressività con la più grande economia di mezzi, e in cui tutto appare quindi diretto, potente, definitivo. Ogni parola finisce per avere un peso specifico straordinario; ogni immagine l'incontestabile veridicità di un filo d'erba o di un sasso. 
 
In poche parole: probabilmente questo è il libro che, fra tutti quelli presenti nella rosa dei candidati, avrebbe meritato maggiormente di aggiudicarsi il premio Strega (se i premi letterari hanno un senso); non perché fosse indiscutibilmente il libro più bello, ma perché appare il più necessario.
Giunta ai suoi novant'anni, temendo di perdere la memoria, l'autrice - ebrea italiana di origine mitteleuropea reduce da Auschwitz - ripercorre le tappe fondamentali della propria tragica e avventurosa esistenza: lo scheletro di tutta una vita capace di reggere la polpa dei sentimenti, il sangue dei pensieri.
Il libro è di una magnifica essenzialità: è come un quadro in cui il pittore sia riuscito a ottenere il massimo dell'espressività con la più grande economia di mezzi, e in cui tutto appare quindi diretto, potente, definitivo. Ogni parola finisce per avere un peso specifico straordinario; ogni immagine l'incontestabile veridicità di un filo d'erba o di un sasso. 

Voto: 7,5

domenica 11 luglio 2021

Virginia Woolf, "Orlando", Feltrinelli


 Orlando è uno dei romanzi più famosi e meno frequentati di Virginia Woolf, almeno in Italia. Difficile dire se questo avvenga per via della natura ibrida del testo (che rende problematico qualsiasi tentativo di collocazione e di classificazione secondo il sistema dei generi), della sua eccentricità rispetto al resto della produzione della scrittrice inglese (un tasso di sperimentalismo formale tutto sommato modesto, nessun abuso dell'indiretto libero, un po' di psicologia individuale, nessuna tortuosa indagine di complicate dinamiche familiari), del suo carattere fluviale (ben più brevi, concentrate, intense le altre opere narrative della Woolf). 
 La genesi del testo è nota: con questo libro, Virginia Woolf volle comporre un fantasioso ritratto letterario di Vita Sackville-West, amica e amante della scrittrice all'interno di una relazione entrata in crisi da un po'. Meno pacifici sono il suo significato metaforico e la sua interpretazione critica.
 Qualcuno ha scritto che Orlando sarebbe la più lunga lettera d'amore scritta dal romanzo colto al romanzo popolare (parafrasando il figlio di Vita, Nigel Nicholson, secondo il quale il romanzo è "la più lunga lettera d'amore della storia"), ma credo che tale osservazione sfiori soltanto la supeficie di quest'opera.
 Difficile è anche dare conto nel dettaglio della trama del libro: protagonista della vicenda narrata è Orlando, un cavaliere che attraversa tre secoli di storia inglese, dall'età elisabettiana fino al 1928, affrontando vari amori - con uomini e con donne - un cambio di sesso, una bancarotta, viaggi, guerre, matrimoni. 
 Cortigiano presso la corte di Elisaberra I e poi di re Giacomo, Orlando si innamora di Sasha, la bellissima e ambigua figlia dell'ambasciatore russo, che presto scompare venendo meno alle aspettative del protagonista. Partito per la Turchia, dopo varie peripezie e un sonno di sette notti e sette giorni consecutivi, Orlando si risveglia donna. L'accettazione della sua nuova identità di genere non risulta così difficile come ci si aspetterebbe; anzi, Orlando, in vesti femminili, passa un periodo presso gli zingari, che ritiene sappiano esaltare il ruolo della donna meglio di quanto faccia la cultura occidentale.
 Tornato a Londra, il protagonista si trova coinvolto in un processo per bancarotta (che durerà per moltissimi anni) e in amori di tenore diverso, con uomini e con donne di diversa estrazione sociale, ed entra in contatto, decennio dopo decennio, con le mode culturali e letterarie delle diverse fasi storiche, rivisitate con un pizzico di ironia. In tutto questo, incontra alcuni dei personaggi più illustri delle epoche frequentate e riesce infine a realizzarsi attraverso la stesura di un poema, intitolato La quercia, che - variamente giudicato dai letterati che lo leggono nel corso di trecento anni - regala al suo autore un inatteso successo di pubblico soltanto nel XX secolo.
 
Virginia Woolf
 
 La lettura è fascinosa e ipnotica, come sempre avviene con Virginia Woolf, che riesce a rendere interessante qualunque cosa sia oggetto del suo racconto - anche quella più lontana dall'esperienza personale del lettore - addomesticandola e riducendola a un aspetto familiare. Le peregrinazioni di Orlando, la sua sopravvivenza a dispetto del trascorrere del tempo, il suo risvegliarsi un bel mattino con un corpo di donna, le sue gravidanze, le sue fluide e coinvolgenti storie d'amore, le sue emozioni e le sue riflessioni puntuali e metastoriche: tutto la scrittrice riesce a far sembrare normale.
 Ogni traccia di artificiosità della trama, invero alquanto bizzarra, svanisce una volta che si accettino le regole del gioco implicitamente proposto dall'autrice; e a tratti ci si può persino immedesimare in quel curiosissimo personaggio che è Orlando.
 Di tutte le interpretazioni che sono state date del romanzo, la più convincente mi pare quella che vede in Orlando un'allegoria, rappresentata con ludica efficacia, di ogni avventura letteraria individuale: quale altra arte, infatti, può consentire al singolo fruitore di percorrere vari secoli da protagonista, di sperimentare un cambio di sesso, di incontrare le persone più fuori dal comune e di vivere con esse le situazioni più inusitate? 

In poche parole: Orlando è uno dei romanzi più famosi e meno frequentati di Virginia Woolf, almeno in Italia. 
Difficile è dare conto anche solo sommariamente della trama del libro: protagonista della vicenda narrata è Orlando, un cavaliere che attraversa tre secoli di storia inglese, dall'età elisabettiana fino al 1928, affrontando vari amori - con uomini e con donne - un cambio di sesso, una disastrosa bancarotta, viaggi, guerre, matrimoni.
Di tutte le interpretazioni che sono state date di quest'opera narrativa, la più convincente mi pare quella che vede in Orlando un'allegoria, rappresentata con ludica e scanzonata efficacia, di ogni avventura letteraria individuale: quale altra arte, infatti, può consentire al singolo fruitore di percorrere vari secoli, di sperimentare un cambio di sesso, di incontrare le persone più fuori dal comune e di vivere con esse le situazioni più inusitate rimanendo seduto nella poltrona di casa propria?
 
Voto: 7 

mercoledì 30 giugno 2021

Lisa Ginzburg, "Cara pace", Ponte alle Grazie

 

 Dire che l'ultimo romanzo di Lisa Ginzburg, nipote di Natalia, è imperniato sul tema della famiglia è certamente suggestivo, ma a mio parere non è del tutto esatto. Cara pace, piuttosto, ha come tema centrale quello delle imprevedibili geometrie degli affetti individuali, che sono in larga parte indipendenti dalle rassicuranti ma precarie strutture dell'istituto familiare.
 La vicenda narrata ha come protagoniste due sorelle nate a un solo anno di distanza l'una dall'altra, Maddalena e Nina; alla viva voce della prima, la sorella maggiore, è affidata anche la responsabilità di raccontare dal proprio peculiare punto di vista la loro storia. 
 Venute al mondo dall'unione tra Seba Cavallari - fotografo di matrimoni di grande successo, malato di lavoro e appassionato di astrologia - e la bellissima Gloria, fascinosa donna di origine argentina, cresciute a Genzano, poco lontano da Roma, quando sono ormai delle ragazzine le due sorelle si trovano spiazzate dalla traumatica separazione dei genitori. La madre Gloria, infatti, presto logorata da un'unione imperfetta e prigioniera di una routine che avverte avvilente, improvvisamente lascia Seba per Marcos, un giovane connazionale di cui ella si innamora mentre gli fa da guida per le strade della città eterna, e che le permette di riscoprire il legame un po' impolverato ma tenace con la sua terra d'origine.
 Le ragazze vengono allora affidate al padre, che però è sempre lontano da casa per lavoro; così, a occuparsi di loro è in realtà la nonna Imma, la quale finisce per svolgere il ruolo di un vero e proprio sostituto materno. 
 Ma la nonna presto muore: Maddi e Nina - trasferitesi a Roma nello spazioso appartamento presso villa Pamphili acquistato grazie alla cospicua eredità di Imma, con la sola compagnia della bambinaia-governante francese Mylène - si trovano nella singolare situazione di dover imparare appena adolescenti a fare a meno di ogni punto di riferimento familiare.
 Le due sorelle hanno un carattere molto diverso: Maddi è posata, riservata, amante della tranquillità e precocemente saggia; Nina è più estroversa, impulsiva e dotata di una sicurezza corroborata dalla sua notevole avvenenza. Nonostante queste differenze, la complicità che si sviluppa fra di loro è assoluta, siamile a una simbiosi. Inoltre, l'importante presenza di Mylène aiuta entrambe, fatta salva la loro diversità, a maturare una perfetta autodisciplina, che passa anche attraverso la pratica dello sport: ogni giorno le ragazze vengono accompagante dalla governante al parco di villa Pamphili per svolgere gli esercizi ad esse assegnate (e Nina scopre presto di avere un grande talento per la corsa, che si aggiunge alle molte qualità che fanno sì che Maddi - sofferente di asma bronchiale - la guardi un pizzico di invidia).

Lisa Ginzburg

 Crescendo, Maddi e Nina disegnano traiettorie esistenziali, in un certo senso, specularmente divergenti, senza che il feeling tra loro venga mai meno: Nina, sempre disinvolta e decisa nei rapporti interpersonali, conosce precocemente l'amore e il sesso, resta incinta a diciotto anni di un produttore cinematografico (che intendeva scritturarla per un film) e perde il bambino per via di un aborto spontaneo; la vita la porterà poi a trasferirsi a New York, dove comincerà a occuparsi del mercato dell'arte e intreccerà una tormantata relazione con Brian, un brillante gallerista.
 Maddi, invece, lasciata Roma per la Francia grazie a una borsa di studio quando è ormai all'Università, conosce Pierre, un giovane diplomatico in impetuosa ascesa, se ne innamora, presto lo sposa e quasi subito gli regala due figli, trovando in lui la tranquillità e il senso di protezione di cui ha sempre avuto bisogno. Il titolo del libro, Cara pace - leggibile anche come un'unica parola, "carapace", con riferimento al guscio della tartaruga, l'animale preferito di Maddalena -, allude sia al desiderio di tranquillità della protagonista, sia alla sua tendenza a ricercare un rassicurante riparo.  
 Il problema è che la psicologia umana sfugge alle nostre semplificazioni, e la vita - che ha sempre più fantasia di noi - sembra fatta apposta per confondere i nostri schemi. 
 Maddi, che fino a lì ha seguito un percorso perfettamente coerente con quelle che ella stessa riconosce come le sue caratteristiche specifiche, a un certo punto, si trova sorprendentemente a contraddire l'immagine di sé che si è costruita nel tempo: tornata a Roma da sola sull'onda di una vaga nostalgia per una breve vacanza durante la quale rivedere i luoghi in cui è cresciuta insieme alla sorella, proprio nel vecchio parco di villa Pamphili, incontra Tommy, un ragazzo con quasi la metà dei suoi anni. I due si parlano, si piacciono, sentono nascere una inopinata e irresistibile attrazione reciproca. La donna, travolta dalle emozioni - a dispetto del marito e dei figli -, si abbandona istintivamente con lui a una settimana di passione profonda, viscerale, spensierata, necessaria; una cosa che ci si sarebbe aspettati piuttosto da Nina.
 Nina, invece, che sembrava sul punto di mollare Brian come aveva fatto con molti altri fidanzati prima di lui, riconosce il proprio bene nell'impegno a coltivare il suo affetto nei confronti di un uomo che ha dimostrato più volte di tenere a lei e di saperle stare vicino: come avrebbe fatto la Maddi che ha sempre conosciuto.
 In questo rovesciamento di ruoli tra le due sorelle, sembra stare il senso del libro: l'esplorazione delle possibilità sentimentali insite nell'animo umano è un insindacabile bisogno a cui le circostanze talvolta possono condurci e che travalica imprevedibilmente le rigidità della morale, del senso comune, delle istituzioni sociali, degli stessi modelli identitari sulla base dei quali tendiamo a giudicare gli altri e a percepire noi stessi. La nostra cara pace, in realtà, alberga di necessità al di fuori del rifugio in qualsiasi carapace
 Il romanzo è interessante, ben concepito e si legge tutto sommato con piacere, ma la scrittura precisa e un po' fredda di Lisa Ginzburg non riesce a evitare l'effetto-diorama: certe situazioni narrative sembrano frutto di una ricostruzione un po' troppo artificiale, in cui la restituzione dei sentimenti che dovrebbero animarle appare astratta o esangue, totalmente priva di drammaticità; tanto che a volte si ha addirittura la sensazione che la scrittrice non abbia davvero idea di ciò di cui parla quando rappresenta determinati comportamenti. 
 
In poche parole dire che l'ultimo romanzo di Lisa Ginzburg, nipote di Natalia, è imperniato sul tema della famiglia è certamente suggestivo, ma a mio parere non è del tutto esatto. Cara pace, piuttosto, ha come tema centrale quello delle imprevedibili geometrie degli affetti individuali, che sono in larga parte indipendenti dalle rassicuranti ma precarie strutture dell'istituto familiare.
Tanto che le due sorelle protagoniste della vicenda narrata, Maddi e Nina, cresciute senza privazioni materiali, ma di fatto senza poter contare sui genitori, dando vita a un rapporto saldissimo, in cui ciascuna ha caratteristiche peculiari e ricopre un ruolo ben definito, da adulte scoprono di poter uscire dai rispettivi personaggi, di essere in grado anche di scambiarsi le parti; di avere anzi il bisogno di travalicare i limiti dei modelli identitari sulla base dei quali tendono a percepirsi e a giudicare gli altri per sentirsi vive e vere. In questo modo, possono anche arrivare a meglio comprendere la scelta difficile della propria madre di abbandonare la famiglia tanti anni prima.
Il libro si legge con piacere, ma la scrittura precisa e un po' fredda di Lisa Ginzburg non riesce a evitare l'effetto-diorama: certe situazioni narrative sembrano frutto di una ricostruzione un po' troppo artificiale, in cui la restituzione dei sentimenti che dovrebbero animarle appare astratta o esangue, totalmente priva di drammaticità; tanto che a volte si ha addirittura la sensazione che la scrittrice non abbia davvero idea di ciò di cui parla quando rappresenta determinati comportamenti.

Voto: 6

domenica 13 giugno 2021

Giulia Caminito, "L'acqua del lago non è mai dolce", Bompiani

 
 Sebbene L'acqua del lago non è mai dolce sia un titolo degno di una fiction televisiva di serie B, il libro che lo porta è opera seria e concreta. La storia, tutta raccontata in prima persona con piglio emotivamente assertivo, è quella di Gaia, una ragazza dai lunghi capelli rossi che cresce all'ombra e a volte a dispetto di una famiglia estremamente problematica.
 Tre sono i nodi principali di questo romanzo di formazione: il primo è la figura della madre Antonia, vero capofamiglia, amata e odiata dalla figlia che la sente terribilmente simile a sé e, nel contempo, subisce la sua tirannica inflessibilità; il secondo è la lotta continua con la rabbia che Gaia sente di serbare nel fondo della sua coscienza, e che non sempre riesce a contenere; il terzo è il rapporto della protagonista con i luoghi in cui i fatti narrati si svolgono e con il tessuto sociale che li caratterizza: la Roma delle borgate popolari prima, e Anguillara Sabazia, sul lago di Bracciano, poi.
 Antonia, la madre, ha avuto una vita difficile: incinta a diciassette anni del fratello maggiore di Gaia - Mariano - e abbandonata dal suo seduttore, ha conosciuto più tardi Massimo, uomo bello ma poco volitivo, senza un soldo e senza un impiego "vero". La famiglia si è presto allargata: cinque anni dopo Mariano è nata Gaia medesima, e più tardi due gemelli. Tuttavia, la situazione economica di Antonia e Massimo non è per nulla migliorata: lui lavora in nero come manovale in un cantiere edile, lei arrotonda facendo le pulizie in casa di gente ricca. 
 Genitori e bambini vivono tutti in due misere stanze senza alcuna comodità e senza nessuna privacy; i due gemelli hanno addirittura per culla un grosso scatolone imbottito di coperte. L'indomita Antonia, con la sua indole da sindacalista, è eternamente in lotta con burocrati annoiati, assistenti sociali distratti e funzionari pubblici corrotti per farsi assegnare l'alloggio popolare a cui la famiglia avrebbe diritto.
 La casa popolare arriva solo quando un drammatico incidente contribuisce ad aggravare ulteriormente il quadro familiare: mentre lavora in nero in un cantiere, Massimo cade da un'impalcatura e rimane paralizzato dalla vita in giù; non essendo assunto regolarmente, non può neppure fruire di qualche forma di risarcimento e, confinato su una sedia a rotelle, finisce per trasformarsi in un uomo passivo e depresso: un peso morto per chi gli sta accanto.
 Nonostante ora possano contare su una casa degna di questo nome, Antonia e i suoi non si trovano affatto bene nel condominio dove il Comune li ha collocati: gli altri inquilini guardano con malcelato disprezzo quei "poveracci", si preoccupano del decoro del palazzo e del deprezzamento dei loro immobili, e se la prendono al minimo pretesto con i ragazzi che giocano in cortile insieme alla figlia disabile della portinaia dello stabile. 
 Così, con una delle sue decisioni repentine, Antonia porta tutta la famiglia lontana da lì: trova la titolare di un altro alloggio popolare ad Anguillara Sabazia - sul lago di Bracciano - interessata a rientrare a Roma e, senza dire nulla a nessuno, scambia la propria abitazione con lei. Gaia, che si appresta allora a cominciare le scuole medie, si trova dunque a crescere in un contesto totalmente diverso da quello dei suoi primi anni di vita.
 
Giulia Caminito
 
 Anguillara è una cittadina di provincia, e la provincia, con la sua singolare capacità di mettere crudelmente l'individuo di fronte alle sue debolezze e di esplicitare le sue idiosincrasie, infuenzerà nel bene e nel male la formazione della protagonista.
 Tutte le tappe della crescita di Gaia, così, si svolgeranno sullo sfondo di quella località lacustre dove la gerarchia sociale degli abitanti è chiara a tutti e dove la suggestiva opacità del grande specchio d'acqua finisce per diventare metafora del carattere grintoso e ombroso della protagonista.
 Lì Gaia conoscerà il primo amore, le prime amicizie e i primi tradimenti; trasformerà la lettura e lo studio accanito, cui la costringe la madre che nutre grandi aspettative nei suoi confronti, in un efficace mezzo di autopromozione; imparerà a farsi valere e a difendersi dai soprusi degli altri persino con la violenza.
 L'univocità del punto di vista attraverso il quale si svolge la narrazione filtra e connota in maniera drammatica tutti gli avvenimenti che segnano le tappe di uno sviluppo emotivo che non è lineare, ma procede a strappi e per una progressiva e talvolta dolorosa conquista di una nuova consapevolezza di sé. Così, ad esempio, il suicidio a quindici anni di un'amica dalla quale la protagonista si era allontanata rilascerà lentamente e per anni la sua tossicità, e potrà molto più tardi essere parzialmente esorcizzato solo da un altro atroce lutto, la morte per malattia, a meno di 25 anni, di un'altra grande amica di Gaia.
 Così, l'acquisizione da parte della protagonista della facoltà di controllare i suoi accessi di violenza - che pure l'aiutano a difendersi dai prepotenti quando è ancora una ragazzina - passa per la quasi uccisione della bella Elena, che le porta via il suo storico fidanzato. 
 Così la capacità di tenere alla giusta distanza Antonia matura in Gaia solo quando si rende conto che ella è meno simile a sé di quanto non abbia mai pensato, e che il vero erede delle lotte della madre contro tutto e contro tutti è in realtà suo fratello Mariano.
 Due parole merita lo stile con cui il libro è scritto. Il linguaggio usato da Giulia Caminito è asciutto e preciso, privo di autocompiacimenti e scevro dell'abitudine di indugiare con enfasi sui soliti luoghi comuni narrativi. Nelle descrizioni, la scelta dei termini usati è ricercata (quasi a incorporare l'abitudine della protagonista di soffermarsi, sfogliando il vocabolario, su termini peregrini e "difficili"), ma sciolta da qualsiasi forma di vanità letteraria, e perciò estremamente efficace: spesso bastano poche frasi all'autrice per rendere alla perfezione l'idea di un personaggio o di una situazione.
 Qualche cedimento, soprattutto nella scansione ritmica che caratterizza la successione degli episodi oggetto del racconto, si può riscontrare solo nella parte finale del romanzo; cosa che, del resto, non compromette la sua complessiva piacevolezza.
 
In poche parole: romanzo di formazione tutto narrato in prima persona dalla viva voce della protagonista Gaia con piglio emotivamente assertivo, L'acqua del lago non è mai dolce - nonostante il titolo, che sembra quello di una fiction televisiva di serie B - è un libro interessante e originale per tono, stile, contenuto e ambientazione.
Tre sono i nodi principali della storia raccontata: il primo è la figura della madre Antonia, vero capofamiglia alle prese con continui problemi economici e drammatiche difficoltà esistenziali, amata e odiata dalla figlia che la sente terribilmente simile a sé e, nel contempo, subisce la sua tirannica inflessibilità; il secondo è la lotta continua con la rabbia che Gaia sente di serbare nel fondo della sua coscienza, e che non sempre riesce a contenere; il terzo è il rapporto della protagonista con i luoghi in cui i fatti narrati si svolgono e con il tessuto sociale che li caratterizza: la Roma delle borgate popolari prima, e Anguillara Sabazia, che si affaccia sulle acque opache del lago di Bracciano, poi.

Voto: 7