venerdì 25 marzo 2016

Ernst Jünger, "Trattato del Ribelle", Adelphi


 Ho letto una prima volta il Trattato del Ribelle diversi anni fa, senza trovarlo particolarmente significativo, e anzi costruito su una struttura argomentativa debole e non priva di contraddizioni; l’ho ripreso in mano ora perché mi sembra curioso che venga citato come testo di riferimento da esponenti di spicco della destra italiana contemporanea (come Giorgia Meloni) perfettamente integrati nella classe dirigente politica che si specchia con serenità nelle istituzioni dello Stato, proprio come lo citavano i loro padri ideologici di estrazione neofascista, che invece con quelle istituzioni avevano un rapporto quantomeno controverso.
 Il saggio venne composto nel 1951, e riflette tutto il disorientamento e l’inquietudine della borghesia tedesca del dopoguerra, che – uscita con le ossa rotte dalle disastrose esperienze del conflitto mondiale e del nazismo (in cui aveva creduto) – non si sentiva adeguatamente tutelata dalle istituzioni democratiche (le quali, del resto, in verità, non avevano impedito nel 1933 la presa del potere da parte di Hitler) al cospetto dell’incombere della minaccia del socialismo reale incarnato negli assetti politici a cui era stata destinata la DDR.
 Ciò che sembra sconcertare di più Jünger è l’assoluta impotenza del singolo cittadino elettore di fronte al potere schiacciante della maggioranza, soprattutto quando essa costituisce la plastica rappresentazione del controllo sulle menti e sui cuori di un’autorità statale di matrice totalitaria (identificabile con il Leviatano di hobbesiana memoria), per la quale le elezioni costituiscono solo l’occasione per ribadire teatralmente la propria legittimità (ragion per cui la presenza di un modesto dissenso – quantificabile più o meno con il 2 percento dei votanti – diventa funzionale agli scopi dell’autorità stessa).
 L’unica forma di opposizione possibile per il singolo sta allora nel trasformarsi in un Ribelle; il termine italiano è l’approssimativa traduzione del tedesco Waldgänger, letteralmente “colui che passa al bosco”, “colui che si dà alla macchia”, insomma colui che rifiuta l’integrazione nel sistema sociale in cui si trova a vivere, non accetta di essere semplicemente un membro di una collettività, e cerca dentro di sé le risorse spirituali per affermare la propria libertà, la propria superiore individualità, la natura immortale della propria essenza.
 Si capisce bene come gli irriducibili del neofascismo, in preda a una sorta di “sindrome da accerchiamento” all’interno del nuovo regime democratico, fossero portati a identificarsi e a trarre ispirazione da questa suggestiva figura, tanto più che Jünger la proponeva in chiave non troppo velatamente antibolscevica.
 Il Ribelle viene dipinto con una serie di caratteristiche, alcune tratteggiate con vaghezza, altre specificate con estrema precisione: egli “non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore, né con i mezzi della propaganda, né con la forza”; “è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”. Il suo orientamento è sostanzialmente antimodernista, perché si oppone a qualsiasi forma di automazione introdotta dalle macchine; e tuttavia “nell’ambito delle terapie mediche, del diritto e dell’uso delle armi la decisione sovrana spetta solamente a lui”; per di più, “anche in campo morale le sue azioni non si conformano in alcuna dottrina”.

 Un giovane Ernst Junger in uniforme, con le decorazioni ricevute nel corso della Prima guerra mondiale

 Questo complesso di caratteristiche non possono che condurre a riconoscere nel Ribelle un individuo dalle qualità d’animo eccezionali, nettamente al di sopra della media, e ben conscio della propria superiorità sulla massa degli altri uomini.
 Significativo e piuttosto interessante, in relazione a tali caratteristiche, è l’atteggiamento di Jünger nei confronti della proprietà, perché sembra abbastanza in contrasto con lo “spiritualismo” che per il resto connota la fisionomia del Ribelle; rifiutando il concetto secondo cui “la proprietà è un furto”, e sostenendo anzi che “l’esproprio che prende di mira la proprietà come idea ha come conseguenza inevitabile la schiavitù”, il filosofo tedesco arriva ad affermare che, in un certo senso, “la proprietà è esistenziale, vincolata al suo detentore e indissolubilmente legata al suo essere”
 Così, gli sbocchi naturali di una simile impostazione finiscono per essere essenzialmente due : 1) l’individualismo sfrenato; 2) Il culto delle élites. Il che lascia piuttosto perplessi.
 D’altra parte bisogna ammettere che tutto ciò che definisce la “singolarità” e la “diversità” del Ribelle può anche risultare molto affascinante; ma mi sembra che a lasciarsene affascinare sia soprattutto il sociopatico che alberga in ognuno di noi: tutto sommato, infatti, nella maggior parte dei casi, professarsi un Ribelle significa trovare una comoda giustificazione per assecondare passivamente le proprie idiosincrasie o il proprio egoismo, senza darsi la minima pena di provare a confrontarsi con gli altri con un pizzico di umiltà.
 Personalmente, dunque, posso affermare senza remore di preferire alla figura del Ribelle quella del Conformista come lo intendeva Antonio Gramsci quando, nel Quaderno 14, diceva: " Conformismo significa niente altro che socialità; ma piace usare la parola conformismo appunto per urtare gli imbecilli".

Voto: 6  
 

domenica 20 marzo 2016

Fabio Stassi, "Il libro dei personaggi letterari", Minimum Fax


 Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo, Gesualdo Bufalino si era fermato prima della Seconda guerra mondiale; dal termine del conflitto riprende l’opera Fabio Stassi, dando vita a una singolare, affascinante Spoon River letteraria in cui ciascuno dei personaggi prende la parola e si racconta in prima persona, cercando di spiegare il carattere della propria umanità.
 Ma un personaggio, si sa, non è un uomo − anche se dell’uomo pretende talvolta di essere la quintessenza; viene alla luce solo nel momento in cui, congedato dal suo autore, incontra il lettore, e non muore mai davvero, anche se trova la morte nelle pagine di un libro. Così, ben lungi dall’essere epitaffi sepolcrali, queste vitali auto-presentazioni (o micro-autobiografie) riportano, accanto al nome del personaggio, soltanto la sua “data di nascita”, vale a dire l’anno di pubblicazione del romanzo che gli ha dato forma.
 Trecento sono le figure letterarie che vengono prese in considerazione, dal commissario Francesco Ingravallo del Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda (1946) al Turambo di Gli angeli muoiono delle nostre ferite di Yasmina Khandra (2013). Ogni personaggio tende a parlare di sé usando il proprio specifico linguaggio, l’idioletto che lo connota più di ogni altra cosa; quasi sempre si riecheggiano interi passi del romanzo in cui il personaggio vive, e di frequente Stassi riesce con notevole abilità a ricrearne anche la particolare atmosfera.
 Pensiamo, tanto per fare qualche nome, ai brani dedicati ad Anguilla (de La luna e i falò di Cesare Pavese), al capitano Bellodi (de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia), all’Ivan Denisovič di Alexandr Solženicyn, a quel naufrago della Storia che è 'Ndrja Cambrìa (di Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo), a Pedro Camacho (di La zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa) al Don Sebastiano de Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, al Red di un racconto della raccolta Stagioni diverse di Stephen King (sublimato cinematograficamente da Morgan Freeman nel film Le ali della libertà), alla protagonista di Sorgo rosso di Mo Yan, all’indimenticabile Long John Silver di Bjorn Larsson (La vera storia del pirata Long John Silver), al Barney Panofsky della famosa Versione di Mordecai Richler, a Ulises Lima e Arturo Belano, i detective selvaggi di Roberto Bolaño, a Jacques Austerlitz di W.G.Sebald, a Patty Berglund di Libertà di Jonathan Franzen, al fantastico Eduard Limonov raccontato da Emmanuel Carrère…
 Il libro si può leggere in molti modi diversi: si possono andare a cercare i personaggi dei romanzi che si ricordano con maggiore affetto o, al contrario, individuare i protagonisti delle opere che non si sono lette per lasciarsene incuriosire e imparare qualcosa di nuovo; si possono leggere le auto-presentazioni una dopo l’altra, nel loro ordine naturale, gustandole come se si trattasse di poemi in prosa aventi vita propria, oppure lasciarsi distrarre da questo testo andando a ricercare le pagine originali in cui un determinato personaggio ha preso vita; si può sfogliare il libro casualmente (o spingere avanti le schermate dell’e-book reader) fermandosi quando si incrocia un nome particolarmente evocativo, oppure procedere con metodo, soffermandosi specificamente sui libri pubblicati in un’annata determinata.

Fabio Stassi

 Io ho cercato soprattutto di ritrovare il sapore dei libri già letti, e ho preso nota dei titoli dei molti romanzi che ancora mi restano da leggere, specialmente se gli autoritratti dei loro personaggi risultavano particolarmente intriganti.
 Naturalmente, di fronte a un’opera di questo tipo, si innesca un meccanismo per cui si è tentati di mettere sotto esame le scelte dell’autore: perché mancano totalmente i protagonisti di alcuni romanzi? Perché, per un certo romanzo, si è scelto un personaggio anziché un altro che ci pare più significativo? Ad esempio, perché mancano i protagonisti di Il nudo e il morto di Norman Mailer, il Donnarumma di Ottiero Ottieri, il Duca Lamberti di Scerbanenco, il Gerolamo Aspri di Corporale di Paolo Volponi o il Fedro di Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig? Perché, per un libro immenso come Infinite Jest di David Foster Wallace, si è scelto di soffermarsi su Joelle Van Dyne, anziché su altri, più singolari personaggi che compaiono nel medesimo romanzo?
 È però questa una tentazione a cui occorre resistere: è chiaro, infatti, che quando si opera una selezione fra un gran numero di libri (e un numero ancora più grande di personaggi), in una certa misura l’incidenza dell’arbitrarietà diventa inevitabile, ed è forse persino salutare che i criteri discriminanti siano dettati anche dalle personali idiosincrasie dell’autore.
 Risulta allora meno ozioso, invece di pensare ai personaggi che non compaiono, concentrarsi su quelli che ci sono, e può essere magari divertente fare il gioco di stabilire quali, fra di essi, sono i propri preferiti.
 Personalmente voglio fare solo tre nomi, in rigoroso ordine cronologico: Zelinda Icci, in Casa d'altri di Silvio D'Arzo; Momò, in La vita davanti a sé di Romain Gary; e Seymour Levov, lo Svedese, in Pastorale americana di Philip Roth.

Voto: 7

domenica 13 marzo 2016

Gianni D'Elia, "Fiori del mare", Einaudi


 Calibrando il proprio passo sulla misura della quartina, con vario metro (ma con netta prevalenza dell’endecasillabo) e varia rima, Gianni D’Elia dà corpo al proprio “canzoniere adriatico”, ricco di risonanze culturali e di riferimenti autobiografici, esplorati sia in chiave esistenziale, sia – com’è abitudine del “pasoliniano” D’Elia – ideologica.
 I componimenti di questa raccolta sono in tutto 106, suddivisi in tredici “Sale”: un solo componimento dedicatorio (al francesista Mario Richter) per la Sala del Preludio, trentotto brevi componimenti per la Sala dei primi fiori, nove poesie per la Sala degli esercizi dal vero, appena due per la Sala della rêverie, sette vivaci componimenti per la Sala dei ritratti, tre per la Sala dei fiori proibiti, quindici per il Salone del cuore della città (dove la città è naturalmente la natia Pesaro), ancora due per la Sala dell’elegia e del madrigale, nove per la Sala dei viaggi (una delle sezioni meglio riuscite del libro), sette poesie “politiche” per la Sala del lungo tema, tre per la Sala della nostalgia (nostalgia che peraltro trova ampio spazio anche altrove), nove per la Sala del paesaggio della stanza, e infine un forzatamente antimalinconico componimento (Salut) nella Sala dei congedi.
 Il linguaggio utilizzato è quello aulico della tradizione letteraria italiana, piegato a volte a descrivere realtà semplici della quotidianità (come nelle poesie Barman, La casalinga, o ancora ne L’antennista) laddove il tono assume una forbitezza colloquiale degna di Umberto Saba, poeta che è stato giustamente richiamato dai commentatori di D’Elia insieme a molti altri: da Leopardi (com’è del resto quasi ovvio per qualsiasi lirico italiano, tanto più se di origine marchigiana) ad Attilio Bertolucci, a Baudelaire, presente fin nel titolo.
 Baudelaire, consapevolmente citato, ovviamente c’è, ma è come addomesticato, riportato a una dimensione che scambia la scontatezza glamour della classica “illuminazione” con la concretezza di un sentimento sospeso proiettato sulle asperità dell’oggi; come quando, in Presenza, lo sguardo della celebre passante baudelairiana viene sostituito da quello di una bambina per la quale “tu non sei che uno / dei tanti avventori del pianeta” e che porta l’io lirico a chiedersi: “dei tuoi giorni sorpresi ormai / soltanto sorpresi, senza un’intuizione, / colpiti così da un poco d’avara emozione, / vuoi dirmi in una carta, − in lei, // in te, resterà?...”.
 A mio parere, in alcuni versi, si può avvertire anche un tono quasi oraziano, quando all’emozionante descrizione del paesaggio adriatico si sposa il senso pervasivo della precarietà del tutto, e quello del carattere fuggevole della bellezza che dura un attimo; come ne I pescatori, che se ne stanno in attesa sul molo per ore e ore in attesa dello strappo del pesce, del luccichìo nell’aria dell’animale, bello come “la lama d’oro liquido del sole, / quel lampo riarso tra l’amore e il niente…”.

Il poeta Gianni D'Elia

 In questa prospettiva che, in senso lato, potremmo definire esistenzialistica, trova posto anche la passione civile, che costituisce da sempre il tratto caratterizzante del modo di fare poesia di Gianni D’Elia. Prendiamo, ad esempio, Notte della memoria, dedicata ad un amico che nel 1974 ha perso la compagna nella strage di Piazza della Loggia a Brescia: “Milano, Brescia, Italicus, Bologna, / negli occhi di Manlio, compagno e amico, / ogni giorno d’Italia è una vergogna”. O ancora, prendiamo quella sorta di appello a tener vivo l’antifascismo attraverso l’impegno e la partecipazione, con cui si chiude il componimento Fasci della Costa: “E come ride il giovane nazista, / si risvegliano in noi tutti i terrori: / ma più tu fuggi e ne ignori la vista, / più spuntano ovunque gli orridi fiori… // Oh, una gran falce sui crani-tumori…”.
 Tra la riflessione filosofica sull’esistenza umana e la passione politica si insinua poi spesso una vena nostalgica che rende più vero il discorso poetico; come nella lirica Gioventù: “Come l’anima nel corpo, sei scoperta, / come il diavolo in corpo, resti eterna, / rosa tardiva, che a un capanno s’afferra, / parola schiva, ora ch’è persa la guerra?... // Ecco la nostra storia, che s’inverna, / l’aria del Novecento nei polmoni, / la neve del Duemila, che conferma / Siberia l’Adriatico qui fuori”.
 L’equilibrio migliore si raggiunge probabilmente quando le varie componenti dell’approccio di Gianni D’Elia alla realtà, vale a dire l’attenzione rivolta a tutte le pieghe dell’esistenza individuale e collettiva, la passione civile e il ripiegamento nostalgico riescono a convivere nella naturalezza del susseguirsi dei versi; come in alcuni passaggi di Canto dell’Autunno inoltrato: “L’economia, la politica, la noia, / ci sfiniscono e ci uccidono il cuore, / e noi aspettiamo, sotto questa ploia, / cogliendo l’ansia, al tonfo di stagione… // Ora ci tocca l’Autunno inoltrato, / l’umido atroce, il reuma del Mercato, / e di quel grande Vivente Teatro / il dolceamaro di un sogno sfumato…”.    
 Devo però confessare che, nonostante l’indubbia perizia tecnica dell’autore e gli accenti di verità presenti in tante liriche, raramente la poesia di Gianni D’Elia riesce a scaldarmi il cuore.
 Il componimento migliore della raccolta, comunque, per me, è Il treno:

E riecco le figure che riscatta,
mentre lampa nel buio al litorale
la più grande pellicola che sappia
con la sua corsa il cinema imitare,

il treno, che rifischiando di rabbia,
inquadra ogni fotogramma mortale...
Nei finestrini accesi e via fuggenti, 
e al rutilìo dei vagoni smorenti,

rivedi le ombre nette dei viventi
fiorire, e lampo a lampo dileguare,
rispento anche il rombo della Statale,
al remoto rifrangersi del mare...

Riecco gli anni, lumini svanenti,
il salve del silenzio e del girare,
come le ruote, che si porta il vento
al ritmo tamburino degli assali,

nel doppio battito dei quattro gravi,
infinitamente, sopra i binari...
Riecco l'alba, che cova i tremendi
incubi e risvegli del Capitale,

qui, sotto il Monte, che cinguetta ai venti
l'amore della vita e del cantare...

Voto: 6-

domenica 6 marzo 2016

Gianfranco Ravasi, "Le pietre di inciampo del Vangelo", Mondadori


 Possiamo ascrivere quest’opera del cardinale Gianfranco Ravasi, uno dei migliori biblisti al mondo, alla divulgazione di alto livello della più aggiornata riflessione teologica.
 Nello specifico, Ravasi si sofferma sui passi più “scandalosi” dei quattro Vangeli, quelli che risultano di difficile interpretazione, che sconcertano il lettore, che sembrano a prima vista incoerenti rispetto al solco principale della predicazione di Gesù, che suscitano dubbi o, semplicemente, curiosità inappagate (insomma, sui passi che, secondo l’etimologia della parola scandaloso, costituiscono una “pietra d’inciampo” per il frequentatore dei Vangeli), proponendone una lettura sempre profonda e sagace.
 Innanzitutto Ravasi sottolinea come i vari racconti evangelici presentano delle discrepanze perché gli evangelisti non si comportano come storici in senso stretto o freddi estensori di verbali documentari, bensì come interpreti la cui fedeltà alla sostanza del messaggio di Cristo si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e la storia di Gesù devono essere trasmesse in modo concreto e incarnato.
 Ad esempio, nella presentazione delle Beatitudini espresse nel cosiddetto Discorso della Montagna, Matteo, che scrive per un pubblico di fedeli di origine ebraica, incastona la predicazione di Cristo in una rappresentazione simbolica che richiama la tradizione di Mosè e delle Tavole della Legge; Luca, al contrario, racconta in maniera più realistica il contesto nel quale il discorso venne storicamente pronunciato da Gesù, e riporta in maniera più retoricamente verosimile le sue parole.
 All’interno della cornice teorica definita in questo modo, è possibile stabilire l’interpretazione più attendibile dei singoli passi del racconto di ogni evangelista, sulla base del loro retroterra culturale, del loro “orizzonte di attesa” e della loro specifica personalità.
 Così, quando Matteo riporta la sua versione della preghiera capitale del Padre Nostro, la frase tradizionalmente attribuita a Gesù “non indurci in tentazione” (peraltro recentemente corretta dalla traduzione della Bibbia ad opera della Conferenza Episcopale Italiana in “non abbandonarci alla tentazione”, sulla base di considerazioni di carattere linguistico-filologico svolte sia sul testo greco originario, sia sull’aramaico verosimilmente parlato da Gesù) risulta imbarazzante, perché farebbe discendere il male da Dio stesso, e ridimensionerebbe l’importanza del libero arbitrio dell’uomo e della sua capacità di non cedere al peccato. In realtà, Matteo aveva di sicuro in mente sia il topos della tentazione-insidia con cui Dio mette più volte alla prova l’uomo nel Vecchio Testamento, sia le parole pronunciate dal Signore nel libro di Isaia: “Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco il male”. Su queste memorie ricalcò il resoconto della preghiera trasmessa agli uomini da Cristo stesso.
 O ancora, quando Matteo parla dei “fratelli” di Gesù, non si deve necessariamente pensare che essi fossero figli carnali di Maria (cosa che metterebbe in discussione la verginità della Madonna), perché nel contesto socio-culturale giudaico il termine fratello può indicare anche un cugino o qualsiasi appartenente al clan parentale di cui Gesù faceva parte.
 A volte capita che Ravasi si soffermi su una vexata questio, per provare a sciogliere un dubbio che ha impegnato molti interpreti, fornendo una sua meditata versione. È il caso della famosa formula “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio”; secondo alcuni esegeti si dovrebbe sostituire il termine greco kámêlon, cammello, con kámilon, gomena, per sanare l’inverosimiglianza  dell’immagine. Ma per Ravasi le immagini dai toni accesi che possiedono una forza paradossale sono tipiche dell’antico Vicino Oriente, tanto che vi sono testi rabbinici di poco posteriori all’epoca di Gesù che parlano dell’impossibilità di far passare “un elefante per la cruna di un ago”; il cammello può dunque tranquillamente restare tale, salvando la straordinaria originalità della sequenza “psichedelica” proposta da Cristo.

Gianfranco Ravasi

 Altre volte Ravasi cerca di prevenire lo sconcerto del lettore di fronte a comportamenti di Gesù che risultano iperbolici, capricciosi, “strani”; come quando, ad esempio, nel Vangelo di Marco, egli maledice e condanna a essere disseccata una pianta di fico che si rifiuta di dare frutti fuori stagione per sfamarlo. Si tratta, in questo caso, di un’azione simbolico-spirituale dello stesso tipo di quelle dei Profeti veterotestamentari (basta pensare ad Ezechiele) volta a sottolineare il fatto che la fede, quando è vera, ha una potenza invincibile.
 Particolarmente interessanti sono taluni tentativi di riportare alla loro autentica radice evangelica credenze fortemente radicate nella tradizione popolare, come quella, rappresentata nel presepe, che contempla la nascita di Gesù in una grotta, dove viene deposto in una mangiatoia e scaldato dal fiato di un bue e di un asino. Ora, l’evangelista Luca parla semplicemente di un alloggio (katályma), probabilmente la casa di alcuni parenti di Giuseppe che risiedevano a Betlemme; e tuttavia la casa di una famiglia media di allora possedeva spesso un vano, sovente scavato nella roccia, dove, accanto all’abitazione principale, venivano ospitati gli animali. Non è inverosimile pensare che Maria e Giuseppe, nel villaggio agricolo-pastorale di Betlemme, avessero passato la notte proprio in un luogo simile.
 Alcuni dettagli riconducibili alla quotidianità di duemila anni fa possono addirittura far sorridere. Quando, in Luca, Gesù dice “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”, l’immagine pare abbastanza sgangherata. In realtà, nell’arida Palestina, capita spesso di vedere degli scorpioni biancastri, lunghi anche una quindicina di centimetri, che quando si arrotolano su se stessi nascondendosi sotto una pietra assumono, appunto, la forma e l’aspetto di un uovo. Gli interlocutori di Gesù dovevano averli ben presenti per essersi spesso imbattuti in essi − forse con un certo spavento −, e quindi non trovavano nessun paradosso nell’immagine usata da Cristo.
 Un caso a sé stante, nei quattro Vangeli, è costituito dai paralleli istituiti da Gesù tra talune dinamiche spirituali e particolari situazioni di carattere economico-finanziario; come quando, in una parabola, il padrone loda l’amministratore disonesto per aver agito con scaltrezza, oppure, nel Vangelo di Luca, Cristo invita a farsi degli amici “con la ricchezza disonesta, perché, quando verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Tali paradossi, per Ravasi, rappresentano un tentativo di sottolineare ironicamente la scarsa prontezza dell’uomo nel fare il bene, quando invece è sempre zelante nel seguire le vie del male, e per operare implicitamente una distinzione tra le ricchezze materiali, che incorporano sempre elementi di corruzione, e le ricchezze spirituali, a cui dobbiamo tendere con tutte le nostre forze barattando per esse i beni materiali, che siano ottenuti onestamente o no.   
 Le parti più appassionanti del libro, però, sono forse quelle in cui ci si sofferma sui passi evangelici di maggiore intensità e spessore filosofico. Essi sono particolarmente numerosi nel Vangelo di Giovanni, la più profonda tra le quattro narrazioni della vita di Gesù. Ad esempio, l’apertura stessa del Vangelo giovanneo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. “Verbo” è la traduzione del greco Lógos, che oltre ad avere implicazioni più vaste del termine italiano, funge nella frase da predicato, a esprimere nella maniera più sintetica e insieme più intensa la pienezza della divinità manifestatasi attraverso la parola.
 O ancora, quando si dice che Dio va adorato “in spirito e verità”, la frase si presta a varie interpretazioni, fra le quali particolarmente suggestiva è quella che conduce al rifiuto di ogni esibita ritualità esteriore, riferendo la fede alla segreta intimità del cuore, anche se Ravasi spiega come Giovanni intende invece sottolineare la pienezza spirituale che il credente può conseguire soltanto attraverso il “respiro vitale” infuso dai sacramenti.
 In ciascuno dei casi proposti, insomma, gli interventi esplicativi di Gianfranco Ravasi sono improntati a finezza, sensibilità e rigore, supportati da una straordinaria erudizione.
 Il problema è che tutto questo non basta a chi, come il sottoscritto, conserva un approccio da agnostico ai testi sacri, a dissipare l'impressione che tanta acribia e tanta sagacia siano strumentalmente messe al servizio di una aprioristica volontà di giustificare una lettura dei Vangeli volta a legittimare i dogmi su cui si fonda il credo della Chiesa Cattolica, scansando abilmente tutto quello che proprio quei dogmi potrebbe mettere in discussione.

Voto: 6,5