domenica 31 gennaio 2021

Matsumoto Seicho, "Un posto tranquillo", Adelphi


 Tsuneo Asai, a quarantadue anni, è uno stimato funzionario del Ministero dell'Agricoltura, esperto, abile nel suo lavoro, rispettoso delle gerarchie, abbastanza furbo da intuire quali dei politici che si succedono al dicastero sono destinati a fare carriera e quali no, e da trarre vantaggio da questa sua perspicacia. 
 Un giorno, mentre si trova nella prefettura di Kobe in compagnia del suo diretto superiore, il capo di Gabinetto Shiraishi, riceve per telefono dalla cognata Miyako una notizia terribile: la sua seconda moglie Eiko è morta improvvisamente di infarto ad appena trent'anni. 
 Eiko, nonostante la sua giovane età, aveva in effetti problemi di cuore, e per questo conduceva una vita assolutamente tranquilla e regolata: la musica tradizionale e la composizione di haiku - disciplina nella quale eccelleva - eranno i soli suoi svaghi, cercava di evitare ogni sforzo, e perfino la sua vita sessuale col marito aveva dovuto subire rigide limitazioni da quando si erano manifestati i primi problemi di salute. Del resto Asai, che si sentiva fortemente attratto dalla moglie, anche prima della malattia aveva dovuto arrendersi al fatto di suscitare ben poco interesse da quel punto di vista in Eiko, donna apparentemente poco incline ad accendersi di passione.
 L'infarto che l'ha uccisa ha colto Eiko nel quartiere residenziale di Yoyogi, al termine di una strada in salita; sentendosi mancare, la donna è entrata in una piccola profumeria affacciata sulla strada per chiedere aiuto, e lì è spirata prima che la proprietaria, Takahashi Chiyoko, avesse il tempo di far venire un dottore. 
 Tutto sembra essere avvenuto in modo tragicamente lineare, e tuttavia Asai non può fare a meno di tormentarsi con un interrogativo, che a poco a poco diventa ostinato come un tarlo: cosa ci faceva Eiko in quel quartiere? La scuola di haiku che frequentava, infatti, si trova in un'altra zona di Tokyo, e nessuna delle sue amiche, per quanto ne sappia il marito, abita lì vicino. In compenso il quartiere è ricco di alberghi ad ore, quelle strutture, assai diffuse in Giappone, in cui gli amanti possono trovare rifugio, in assoluta riservatezza, per i loro incontri clandestini...
 Ossessionato dall'idea che la moglie lo tradisse, Asai comincia a visitare tutti gli alberghetti della zona, intervista inservienti e cameriere, ma non riesce a raccogliere nessuna informazione utile, nessun indizio che possa in qualche modo avvalorare i suoi sospetti.
 Non sentendosi comunque tranquillo, l'uomo cambia strategia e prova a ricostruire gli ultimi momenti di vita della moglie (a quell'ora la terra a Tokyo ha tremato, come sovente avviene, per un piccolo terremoto) e a concentrare la propria attenzione sul luogo in cui Eiko ha esalato l'ultimo respiro. 
 Ciò che complica le cose è il fatto che presto, per iniziativa di Takahashi Chiyoko, la profumeria lascia il posto all'ennesimo albergo a ore di Yoyogi. La trasformazione, peraltro, è strana: per aprire un nuovo albergo occorrono molti soldi, e la profumeria non sembrava essere un'attività così redditizia; nonostante questo, l'albergo ha inglobato anche la grande villa che sorgeva sul terreno proprio accanto al piccolo esercizio commerciale. Affidandosi a un investigatore privato, Asai questa volta riesce a raccogliere informazioni interessanti: scopre infatti che Chiyoko, la proprietaria della profumeria, è lagata sentimentalmente a un imprenditore molto danaroso e del tutto privo di scrupoli; che la villa inglobata nel nuovo albergo apparteneva a Kubo Konosuke, un uomo a sua volta abbastanza ricco da poter declinare un'offerta anche piuttosto vantaggiosa per la sua casa, a meno che non vi fossero altri motivi a consigliargli di accettare la transazione; che Kubo vive solo, perché la moglie, malata di tubercolosi, è ricoverata in un sanatorio nello Shinshu, e che l'uomo colleziona rari oggetti artigianali fabbricati in carta di riso.
 
Matsumoto Seicho
 
 Ora, Eiko aveva composto degli haiku in cui venivano descritti proprio oggetti artigianali identici a quelli conservati nella casa del signor Kubo. E se la moglie - conclude dunque Asai - non fosse morta nella profumeria, bensì nella casa di Kubo, del quale era diventata l'amante, e fosse poi stata trasportata in un secondo momento nel negozio di Chiyoko, la quale, coprendo il vicino, lo aveva reso debitore nei propri confronti?
 Asai, via via sempre più convinto che le cose stiano proprio così, decide di affrontare Kubo, dal quale pretende almeno delle scuse. Una domenica segue dunque l'uomo fino a Fujimi, nella prefettura di Nagano, dove sorge il sanatorio in cui è ricoverata la moglie malata. Purtroppo il confronto fra i due degenera in un violento scontro: Kubo scarica l'intera responsabilità della vicenda erotica in cui è stato coinvolto su Eiko, rifiuta di scusarsi e, convinto che Asai lo voglia ricattare, minaccia di denunciarlo ai suoi superiori. Asai, che dopo aver perso la moglie si trova di fronte all'incubo di vedersi stroncare anche la carriera, la cosa a cui tiene di più al mondo, perde la testa e in un accesso di rabbia colpisce Kubo con una pietra uccidendolo.
 Da questo momento e per i mesi successivi, la vita di Asai sarà caratterizzata da un'ansia continua, nella costante paura di essere scoperto e di perdere tutto. Alla fine si tradirà da solo, in maniera assai sciocca, di fronte a due contadini di Fujimi che, dopo il delitto, gli avevano dato un passaggio in automobile fino alla stazione ferroviaria e che erano stati interrogati dalla polizia a proposito dell'uomo incontrato lungo la strada provinciale vicino al luogo del delitto. Il finale del libro, però, non sancisce la punizione del colpevole; semplicemente, lascia intravedere la convergenza su Asai dei sospetti delle forze dell'ordine e permette di immaginare il successivo sviluppo dell'inchiesta.
 Sebbene Matsumoto Seicho sia spesso presentato come "il Simenon giapponese", Un posto tranquillo - pubblicato per la prima volta nel 1972 -, a rigore, non si può considerare un classico romanzo giallo. Innanzitutto, l'indagine su cui il libro è impostato non porta a scoprire un delitto, ma conduce semmai il protagonista a compiere un delitto; in secondo luogo, mentre il poliziesco occidentale è perlopiù giocato sul contrasto tra il potenziale eversivo degli istinti e delle emozioni, e la geometrica esattezza dell'azione investigativa, volta a ristabilire verità, ordine e giustizia, qui siamo di fronte a uno schema diverso, perché assistiamo a una sorta di "intellettualizzazione delle emozioni" che genera un netto contrasto tra apparenza e realtà e problematizza l'idea secondo la quale risolvere un caso significa ristabilire la verità; infine, mentre la maggior parte dei polizieschi che conosciamo giunge a una conclusione che costituisce un ineludibile punto fermo della storia raccontata, in questo caso il finale è in qualche modo lasciato "aperto" di proposito.
 La volontà dell'autore, insomma, con tutta evidenza non è quella di definire un percorso attraverso il quale ricostruire una verità, ma raccontare una storia che si traduce in una critica implicita alla società giapponese, ai suoi costumi, alla mentalità dalla quale è dominata. Il ruolo ancillare della donna, l'ipocrisia per la quale una buona reputazione conta assai più di una sostanziale rettitudine morale, la supina accettazione della gerarchia - che si traduce spesso in vile condiscendenza nei confronti dei soprusi degli uomini di potere -, l'opportunismo senza scrupoli che caratterizza il mondo degli affari, la disciplina militare con cui viene inteso e declinato il rapporto di subordinazione sul posto di lavoro, la corruzione tollerata fino a quando si è abbastanza abili da celarla, l'assoluto predominio della sfera pubblica su quella privata: tutte queste cose vengono rappresentate con una chiarezza tale da trasformare il libro in una vera e propria denuncia dei difetti di un mondo in continua evoluzione, ma eternamente sospeso tra congenite arretratezze e proiezione verso il futuro. E' questa prospettiva che rende Un posto tranquillo un romanzo davvero notevole.
 
In poche parole: sebbene Matsumoto Seicho sia spesso presentato come "il Simenon giapponese", in virtù dell'eccezionale numero di libri pubblicati e della sua perizia nel declinare gli schemi del romanzo poliziesco, Un posto tranquillo non è certo un classico romanzo giallo. Prima di tutto dall'indagine scaturisce il delitto stesso e non la sua soluzione; in secondo luogo, anziché giocare sul contrasto tra il potenziale eversivo degli istinti e la geometrica esattezza dell'azione investigativa, volta a ristabilire la verità, l'ordine e la giustizia, la narrazione è tutta basata su una intellettualizzazione delle emozioni che genera un netto contrasto tra apparenza e realtà, e problematizza l'idea secondo la quale risolvere un caso significa ristabilire la verità. Così, l'inchiesta su cui il libro è imperniato, piuttosto che portare a restituire un ordine turbato, finisce per risolversi in una critica implicita della società giapponese, delle sue ambiguità, dei suoi elementi di arretratezza: il ruolo ancillare della donna, l'ipocrisia per la quale una buona reputazione conta di più di una sostanziale rettitudine morale, la supina accettazione della gerarchia, che si traduce spesso in vile condiscendenza nei confronti dei soprusi degli uomini di potere, l'opportunismo senza scrupoli che caratterizza il mondo degli affari, l'assoluto predominio della sfera pubblica su quella privata.

Voto: 7

domenica 24 gennaio 2021

Edoardo Nesi, "Economia sentimentale", La nave di Teseo


 Edoardo Nesi, sulla scorta della propria storia vissuta e delle tante storie scritte, prova a ragionare in termini economici sulla fase che stiamo vivendo: quella puntuale, segnata dagli sconvolgimenti che la pandemia ha determinato, squassando dalle fondamenta interi settori produttivi - specie nel nostro Paese -, e quella più genericamente attuale, individuata dall'esaurirsi del lungo ciclo espansivo industriale iniziato intorno al 1870 e poi proseguito per oltre un secolo, per arenarsi nelle secche del nuovo millennio.
 Questi due piani si alternano e si intersecano, tenuti insieme, da una parte, dal medesimo registro espressivo - che unisce i tecnicismi del gergo economico e l'affabilità di una lingua familiare impostata sintatticamente e lessicalmente sul vernacolo toscano - e dall'altra parte da un approccio ai problemi economici che, correttamente, il titolo del libro definisce sentimentale, perché Nesi "sente" come pochi altri scrittori che è l'economia a determinare la qualità del tessuto della nostra vita quotidiana, su cui come ricami si innestano emozioni e pensieri; volenti o nolenti, è l'economia a stabilire per buona parte di noi la possibilità di essere felici.
 L'autore cita libri importanti (come The Rise and Fall of American Growth di Robert J. Gordon, facendo riferimento alla recensione del testo del premio Nobel Paul Krugman sul New York Times) e libri popolari (come World's Fair di E.L. Doctorow), intervista specialisti di Economia e Statistica (come Enrico Giovannini, già presidente dell'ISTAT), esperti di finanza come Guido Brera, tira in ballo scrittori, artisti, imprenditori e li cala nel racconto vivo della propria personale esperienza per rendere più che mai concreto ciò di cui parla: la depressione indotta dalla grande quarantena collettiva della primavera 2020, dopo la strana euforia delle prime settimane; l'apprensione per tutti quegli ambiti produttivi considerati dal Governo "non necessari", e quindi sacrificabili sull'altare della salute pubblica, anche se da sempre costituiscono il cuore pulsante del made in Italy (in particolare l'amato settore dell'industria tessile e quello collegato della moda, in cui Edoardo Nesi, fino a qualche anno fa, era impegnato in prima persona); la paura di aver vissuto il culmine di un'epoca di sviluppo irripetibile, che però ci siamo ormai lasciati alla spalle e dopo la quale non ci può che essere un lungo declino; il sospetto che l'economia digitale non porti benessere diffuso e lavoro per molti, ma solo un'illusione di progresso e la certezza di una crescente polarizzazione della ricchezza a beneficio di pochi e a discapito di tutti gli altri; il desiderio di aggrapparsi alla speranza - non si sa quanto fondata - che la capacità di guardare al futuro con ottimismo torni ad essere, come un tempo, un elemento caratterizzante dello Zeitgeist, lo spirito della nostra epoca.
 A punteggiare questo saltellante discorso con cui si cerca di costruire un'interperetazione coerente del presente, vi sono i ricordi di un tempo più felice, quello in cui uno stile di vita più leggero e senza l'ossessione del denaro, ad avere il carattere giusto, si poteva scegliere, come dimostra la parabola esistenziale di Fabio il Bernabei, il conte Mascetti di Prato; quello in cui dei piccoli artigiani potevano aspirare, con il loro lavoro, al lusso di una Mercedes; quello in cui in via Tornabuoni a Firenze era ancora aperta la libreria Seeber, con le volte affrescate e gli scaffali in legno istoriato; soprattutto, quello in cui era ancora vivo e attivo il padre di Edoardo, Alverado, imprenditore tessile.
 
Edoardo Nesi
 
  Il ricordo di Alverado, a cui il libro è dedicato, informa di sé l'intero testo. Alverado, con il suo nome inverosimile e altisonante, con il suo senso pratico, il suo amore per il lavoro, la sua legittima ambizione, il suo spirito di iniziativa, il suo fiuto per gli affari diventa un simbolo di quel culmine - secondo gli storici dell'economia toccato negli anni settanta del Novecento - dell'epoca di maggior benessere che la storia dell'umanità abbia conosciuto, quella innescata nella seconda metà dell'Ottocento dalle "grandi invenzioni", ovvero dal maturare delle applicazioni tecnologiche delle grandi scoperte scientifiche degli anni precedenti, e proseguita per decenni con una crescita impetuosa sostenuta da una mentalità dominante informata ai valori borghesi della libera iniziativa, della fiducia in se stessi e del desiderio di sperimentare, capace di investire a cascata tutti i ceti produttivi nell'Occidente sviluppato, spazzando via persino il ricordo della miseria dei secoli precedenti.
 La coloritura nostalgica che la narrazione assume deriva dal dubbio fondato che la prospettiva di una crescita continua che ha caratterizzato l'epoca dei nostri padri e dei nostri nonni - la constatazione che oggi va meglio di ieri, e la convinzione che domani andrà indefettibilmente meglio di oggi - sia in effetti irrecuperabile, nonostante l'ottimismo (illusorio?) con cui molti riconoscono alla rivoluzione informatica la facoltà di creare nuovi posti di lavoro, o predicano la necessità di puntare sull'economia sostenibile e "green" per dare nuovo impulso al mercato. Se vogliamo essere realisti dobbiamo ammettere che, oggi più che mai, sono valide le parole del Guicciardini, per il quale De' futuri contingenti non v'è scienza.
 Per la verità, molte delle convinzioni dell'autore su una presunta età dell'oro - che in Italia, come in altri Paesi occidentali, avrebbe raggiunto l'acme negli anni cinquanta, sessanta e settanta del secolo scorso -, per quanto suggestive, non sembrano poggiare su solide basi: Nesi sembra ignorare totalmente tutti i contrasti e le battute d'arresto che hanno costellato il secolo delle "magnifiche sorti e progressive" dell'economia occidentale, il gran numero di coloro che questo sviluppo ha lasciato indietro, il peso non piccolo del colonialismo e dell'imperialismo nel processo di crescita che ha determinato la massima espansione di diversi comparti produttivi occidentali, e - non ultimo - il fatto che quel modello di sviluppo basato sui tradizionali "valori borghesi" incorporasse già i fattori che, a un certo punto, hanno determinato, nel contesto di un mercato finalmente globalizzato, prima una brusca frenata e poi l'inizio di un lento declino per l'economia di quelle regioni del mondo che più avevano in precedenza beneficiato di quello che Gordon chiama "il Secolo Speciale".
 Pur tenendo conto di tutto ciò, Economia sentimentale, come parecchi altri libri di Edoardo Nesi, ha un suo fascino indubilitabile e una sua utilità: prima di tutto, restituisce all'economia, al lavoro, alle attività produttive quel ruolo di primo piano che hanno nella vita di tutti noi - ma che la maggior parte delle opere narrative (quelle in cui la vita dovrebbe trovare posto in tutti i suoi aspetti) sembra ignorare - e lega tutte queste cose alla nostra visione del mondo, alle intime passioni e agli affetti che modellano il nostro modo di essere; poi, cosa ancora più importante, porta a interrogarsi su problemi dalla cui soluzione dipenderà moltissimo del futuro nostro e dei nostri figli. Per questo, nonostante i suoi limiti, lo considero un libro da leggere.
 
In poche parole: De' futuri contingenti non v'è scienza afferma Francesco Guicciardini; e questo sembra più che mai vero se guardiamo alla fase economica che stiamo attraversando, caratterizzata da instabilità, incertezze, problemi che la pandemia ha esasperato mettendo in ginocchio interi settori produttivi, quelli considerati "non necessari", e quindi sacrificabili sull'altare della salute pubblica, anche se da sempre costituiscono il cuore pulsante del made in Italy, basato sul riconoscimento dell'importanza del suprefluo. Eppure Edoardo Nesi non rinuncia ad analizzare la situazione e a esplorare le possibilità di ricostruire una speranza di recupero futuro. Lo fa con l'aiuto delle opinioni dei migliori economisti, degli specialisti di finanza e di statistica e anche delle visioni degli scrittori più amati, ma soprattutto sulla scorta della nostalgia per l'età che ci siamo lasciati alla spalle, quella iniziata nel 1870 e culminata negli anni settanta del Novecento, che egli - forse un po' troppo acriticamente e in maniera non del tutto fondata - considera l'epoca di maggior benessere diffuso che la storia del mondo abbia conosciuto. L'epoca della quale lo scrittore riconosce nel caro ricordo della figura del padre Alverado, imprenditore del tessile a Prato, un esempio paradigmatico. 

Voto: 6

domenica 17 gennaio 2021

Peter Cameron, "Cose che succedono la notte", Adelphi


 Più che un romanzo onirico, What Happens at Night è un romanzo mistico: un libro in cui paure e desideri non sono solo il materiale da costruzione di una complessa cattedrale narrativa nella quale ogni particolare possiede un rilievo simbolico, ma diventano anche porte di accesso a un mondo sontuoso e strano, più vero del vero, concreto e invitante ma per nulla rilassante, come tutte le realtà a cui non si è abituati e sulle quali occorre riparametrarsi.
 Il libro inizia con una coppia di newyorkesi - marito e moglie - in viaggio in treno in un paese buio e freddo. Non viene detto di quale parte del mondo si tratti, ma l'onnipresenza della neve, l'essenzialità del paesaggio, la scarsità e la laconica impemeabilità degli abitanti, la severa cupezza dell'architettura dominante, le inflessioni misteriose e profonde della lingua parlata, e la tipizzazione degli stranieri che frequentano quella terra fanno pensare a una remota località della regione siberiana.
 La coppia si è recata lì per adottare un bambino dal locale orfanotrofio, dopo aver tentato inutilmente per anni di avere un figlio proprio; l'età non più giovanissima dei due e le condizioni di salute della donna - che ha subito un'isterectomia ed è gravemente malata, tanto che forse le rimane poco da vivere - renderebbe arduo ricorrere in patria a un normale iter adottivo.
 La donna soprattutto vuole più che mai un bambino perché sente la morte vicina, e desidera lasciare al marito qualcuno che gli faccia compagnia dopo la sua scomparsa, e gli ricordi il loro amore e gli anni passati insieme.
 Dopo essere scesi dal treno in una stazione semideserta, i due approdano al Borgarfjaroasysla Grand Imperial Hotel, un albergo immenso e vuoto, in cui le stanze hanno il pavimento ricoperto da una moquette folta e antiquata e sono scaldate da poderosi termosifoni di ghisa. La donna, stanchissima, si corica subito sotto le coltri pesanti del letto e si addormenta, mentre il marito torna nell'atrio monumentale dell'edificio e comincia a fare la conoscenza dei pochi, singolari personaggi che popolano l'hotel: innanzitutto Larus, il barista, un giovane alto, scuro e rigido, dai lineamente vagamente asiatici, che rimane eternamente impalato in un angolo dietro il bancone, davanti a una porta capitonné verde, a fissare il nulla; poi un equivoco uomo d'affari - mediatore nel settore petrolifero - che sembra avere qualcosa da nascondere e, con patente volgarità, comincia a fare al protagonista proposte oscene; infine Livia Pinheiro-Rima, un'artista ormai anziana ma ancora affascinante, che nella propria vita è stata trapezista in un circo, ballerina, cantante, attrice, e ora anima le serate degli sporadici clienti di quel grande albergo nell'estremo nord.
 Tutti costoro, ciascuno in modo diverso, incoraggiano l'uomo a confidare le sue pene e, a poco a poco, si trasformano, per lui e per sua moglie, nelle guide che svelano loro gli arcani di una dimensione diversa da quella che conoscono. In quella dimensione, ogni cosa assume una fisionomia diversa da quella apparente e l'esito di ogni iniziativa finisce per suggerire la possibilità che essa abbia uno scopo segreto differente da quello dichiarato. Presto si scopre che anche il viaggio dei due coniugi ricade in questa casistica.
 Non lontano dall'albergo, infatti, sorge non solo l'orfanotrofio, ma anche un altro grande edificio isolato - forse una ex scuola - presso il quale risiede padre Emmanuel, un misterioso guaritore; e le due realtà risultano segretamente legate. Quando marito e moglie cercano di recarsi all'orfanotrofio per conoscere il bambino che intendono adottare, il tassista, forse per errore, forse imbeccato da Livia Pinheiro-Rima, li porta dal guaritore. 
 
Peter Cameron
 
 Dopo quella visita apparentemente casuale - e dopo aver conosciuto a sua volta Livia Pinheiro-Rima - la donna inizia a sentirsi inspiegabilmente meglio. Addirittura, comincia a coltivare la convinzione di essere sulla via della guarigione e, assurdamente, di dover rinunciare all'adozione per riprovare ad avere figli propri, nonostante l'isterectomia subita lo renda ormai impossibile.
 Naturalmente, la convinzione della donna di essere destinata alla guarigione è fallace, e anzi il momento della morte per lei si sta avvicinando a grandi passi; eppure, nell'atmosfera ovattata dell'albergo, per il marito e per la moglie si compie un processo di trasfigurazione che porta entrambi a chiarire e a esplicitare i rispettivi desideri, e a identificarsi pienamente in essi.
 Questi desideri inducono l'uomo a coltivare la propria sete di vita e di avventura (che passa attraverso un paio di avventate e pericolose scorribande in compagnia dell'equivoco uomo d'affari, e si concretizza nell'effettiva adozione di un bel bambino dai capelli biondi, Simon, destinato a crescere solo con lui); e conducono la donna ad assecondare il suo desiderio di libertà e di riposo per abbandonarsi finalmente nelle braccia del sonno eterno (allontanandosi sempre più dal marito, la protagonista dimenticherà definitivamente la pratica dell'adozione, si affiderà totalmente a padre Emmanuel e morirà nella casa del guaritore).
 Il libro si conclude con l'uomo che, insieme a Simon, riprende il treno verso sud, cercando inutilmente di convincere Livia Pinheiro-Rima - che si è ormai trasformata per lui in una sorta di sostituto materno - ad accompagnarlo a New York e, poco dopo la partenza, in una piccola stazione di transito, incontra il fantasma della moglie avvolta in una calda pelliccia; i due si salutano affettuosamente e si congedano l'uno dall'altra, in una malinconica ma serena accettazione del loro diverso destino.
 E' un romanzo, questo, che sembra di leggere quasi sotto ipnosi: molto di quello che vi accade è inspiegabile, quasi assurdo, eppure il flusso narrativo riesce a catturare il lettore con un fascino magnetico, nutrendosi delle logiche che governano l'inconscio e strutturandosi sulla sua specifica grammatica. Si finisce così per trovare perfettamente plausibile, addirittura normale, quello che non siamo abituati a ritenere tale, ma che rivela rispondenze profonde nella nostra vita interiore. 
 L'abilità dell'autore è quella di modulare questo meccanismo attraverso uno strumento linguistico duttile, che designa gli oggetti con precisione, come fossero appigli a cui le nostre percezioni possono aggrapparsi con sicurezza, per farli svanire subito dopo in una nebbia di emozioni in cui il surreale arriva a prevalere sul reale.
 
In poche parole: Cose che succedono la notte è un romanzo che riesce a catturare il lettore con il fascino quasi ipnotico del flusso narrativo, sebbene quello che vi accade sia spesso inspiegabile e quasi assurdo. Nella singolare avventura di due coniugi newyorkesi in viaggio nella neve e nel buio di un Grande Nord, verso il luogo dove sperano di riuscire ad adottare quel figlio che non sono mai riusciti ad avere, avvenimenti, personaggi e oggetti, sebbene designati con precisione, sono solo apparentemente degli appigli sicuri per le nostre percezioni; ogni cosa viene subito avvolta da una nebbia di emozioni e trasfigurata surrealisticamente, nutrita delle logiche dell'inconscio e strutturata sulla base della sua specifica grammatica, in maniera tale da perdere aderenza rispetto alla realtà effettuale e da trovare rispondenze profonde nella nostra vita interiore.  
 
Voto: 7 

domenica 10 gennaio 2021

Milena Agus, "Un tempo gentile", Nottetempo

 In un piccolo borgo rurale del Medio Campidano lontano dal mare, che "non ha mai avuto il fascino sardo di torbide vicende e di anfratti selvaggi", dove l'agricoltura tradizionale, gli antichi vigneti e l'allevamento sono stati abbandonati "per i carciofi e le biomasse" senza che questo abbia portato prosperità agli abitanti - rendendo anzi il paesaggio ancora più desolato -, improvvisamente arriva un composito gruppo di migranti con i volontari che li accompagnano.
 Tutti pensano a un errore: il paese non possiede strutture e risorse per poter accogliere quelli che subito la gente del posto chiama "gli invasori". O forse i politici locali, preoccupati delle proteste di chi avrebbe avuto a che fare con i migranti e i problemi che portano con sé, hanno pensato di minimizzare l'impatto di questi sgraditi ospiti relegandoli in un luogo irrilevante; il borgo, infatti, è considerato di importanza marginale da quando ha perso l'autonomia amministrativa ed è stato accorpato ad un Comune vicino, ridotto al rango di frazione.
 Il gruppo degli invasori comprende profughi di guerra provenienti dalla Siria (tali sono Said e Saida Amal, con il nipote Abdulrahman), bellissimi ragazzi e ragazze di colore, dalla "pelle di velluto nero blu"  (come Asad o Naima), provenienti dall'Africa subsahariana, bambini come il piccolo Mashmoud - che non dà confidenza a nessuno, dopo che ha visto morire tragicamente i suoi due fratelli durante la traversata del Mediterraneo -, persino una donna incinta in seguito agli stupri subiti in Libia per opera dei trafficanti di uomini. Tutti insieme formano un quadro variopinto e chiassoso, non dissimile da quelli che le cronache televisive degli sbarchi clandestini lungo le nostre coste meridionali offrono quotidianamente agli spettatori. 
 Insieme a loro vi sono i volontari, che formano una compagnia non meno eterogenea: dal distinto Ingegnere, che è abituato ad avere a che fare con clienti assai facoltosi, ama esprimersi in inglese, e non si sa se abbia una donna che lo aspetta a Cagliari, a Ziuccia, una signora di mezza età che per telefono aiuta sempre il nipote nello studio dell'Iliade; dal Professore, colto affascinante e un po' bohémien, a Lorena, la studentessa che ne è perdutamente innamorata e che lo ha seguito in questa strana avventura; da Robin un ex piccolo spacciatore per il quale occuparsi di migranti è diventata una forma di riscatto personale, al "Volontario del Porno-Shop", così chiamato perché concilia curiosamente la cura del proprio negozio per soli adulti nel nord dell'isola all'impegno a favore degli stranieri.
 Tutti costoro si stabililiscono in via provvisoria in un grande edificio molto malridotto che sorge dove le case cedono il posto alla campagna, e che in paese è significativamente definito "il Rudere". 
 Gli abitanti del borgo, superata l'iniziale sorpresa e la fase dei mugugni, si dividono nettamente in due fazioni: coloro che, con naturalezza e senza farsi troppe domande, lasciano prevalere l'umana solidarietà, decidono di mostrarsi amichevoli con i nuovi arrivati e di dare loro una mano per quanto possibile; e coloro che trasformano il proprio malcontento in aperta ostilità nei confronti degli stranieri, e non perdono occasione per manifestare la propria avversione con piccoli, crudeli dispetti o meschini atti di sabotaggio, convinti che i migranti non meritino nessuna forma di assistenza e che le organizzazioni che se ne prendono cura lo facciano non per generosità ma per mero interesse.

Milena Agus

 Nemmeno gli stranieri, peraltro, sono contenti del luogo al quale sono stati destinati: la meta ultima del loro viaggio è il Nord Europa, o comunque il Continente; un contesto dove poter costruire davvero un futuro per sé e per i propri figli. Il paese, invece, è così squallido da non consentire di sperare in un domani migliore.
 Il fatto è che, a poco a poco, i rapporti reciproci che si stabiliscono tra "invasi" e "invasori" consentono in qualche modo al paese di sbocciare a nuova vita: il Rudere viene sistemato e reso più accogliente (cosa che l'Amministrazione comunale, in tanti anni, non era mai riuscita a fare, nonostante l'intenzione dichiarata di trasformarlo in un centro di aggregazione sociale); su un appezzamento di terreno incolto viene addirittura creato un neighbourhood garden o, per dirlo alla sarda, un "poderetto del vicinato" capace di riportare in voga colture che nelle campagne campidanesi sono state abbandonate da tempo. Gli stranieri riescono persino nel miracolo di fare finalmente uscire dal loro borioso isolamento le due "Dame" del villaggio, donna Ruth e sua figlia Lina, moglie e figlia dell'ultimo Sindaco del borgo, che aprono la propria antica, elegante dimora ai nuovi venuti e ai loro accompagnatori.
 Le vicende a volte terribili dei migranti inducono nel gruppo delle mature - ma non ancora vecchie - donne che costituiscono il nerbo della comunità paesana, precedentemente anestetizzate dalla propria quotidiana routine, un ripensamento di tutta la propria esistenza: il rapporto con i mariti, troppo assorbiti dai propri impegni per badare a loro; la lontananza dei figli, a loro volta emigrati, dopo aver studiato, in città che consentissero loro di esercitare professioni più interessanti di quelle che sarebbe stato possibile svolgere nel luogo d'origine; il buon uso del proprio tempo.
 Gli stranieri, a loro volta, si rendono conto che i componenti della comunità paesana - almeno della sua parte più accogliente - costituiscono degli interlocutori con i quali ricominciare a rapportarsi civilmente dopo anni di sofferenze, di soprusi subiti, di trattamenti indegni di esseri umani; persone con le quali imparare a discutere, o addirittura a litigare, senza mai venire meno al reciproco rispetto.
 I mesi di permanenza dei migranti nel borgo finiscono così per configurarsi come una parentesi felice: un "tempo gentile" che - è facile prevederlo - verrà rimpianto a lungo da tutti coloro che l'hanno vissuto. 
   Milena Agus riesce a narrare in maniera esemplare l'esperienza dell'incontro tra italiani e migranti senza edulcorare la realtà, senza ricorrere a facili semplificazioni e senza indugiare in pigri ideologismi; ricorrendo invece a quella rappresentazione stilizzata del mondo che è tipica del suo modo di fare letteratura e che risulta, in questo caso, quantomai efficace. 
 La scrittrice, infatti, non rinuncia al realismo nella descrizione di luoghi e personaggi: certi aspetti della Sardegna di oggi (e di quella di una volta, richiamata anche attraverso numerose citazioni deleddiane) emergono con assoluta chiarezza, e niente viene nascosto né delle sofferenze patite dai migranti, né dell'istintiva ostilità nei loro confronti di buona parte degli italiani, né delle difficoltà di interazione fra persone di cultura e provenienza differenti. Tuttavia, vi è nelle descrizioni una ricerca di "tipizzazione" che tende a rendere ogni situazione e ogni personaggio esemplare, capace di vivere al di fuori della situazione o del contesto specifico che lo esprime e di diventare un simbolo.
 Significativo, fra l'altro, è il fatto che a essere individualizzati e a risultare memorabili siano soprattutto gli stranieri e i volontari; gli italiani appartenenti alla comunità paesana vengono relegati nell'anonimato della coralità (tanto più quelli ostili ai migranti), quasi non sapessero esprimere pensieri originali o non avessero ormai cose particolarmente interessanti da raccontare.
 L'effetto complessivo che si ottiene è diverso da quello provocato da molti libri ascrivibili alla categoria della "letteratura dell'immigrazione": non si formulano giudizi recisi, non si fa leva sulla compassione, non si cerca di suscitare né rabbia, né raccapriccio, né indignazione nel lettore, non si porta neppure testimonianza di un fatto che non può assolutamente essere dimenticato. 
 Piuttosto, il romanzo prova a mostrare come la cordialità - quello che dovrebbe essere il più semplice e naturale degli atteggiamenti umani - possa contribuire a superare di slancio tutte le difficoltà e tutti gli attriti che normalmente nascono nell'incontro fra genti diverse.

In poche parole: facendo leva sulla sua particolare tecnica di stilizzazione della realtà, Milena Agus narra la storia dell'incontro fra gli abitanti di un piccolo centro del Medio Campidano e un composito gruppo di migranti destinati a passare alcuni mesi nell'entroterra sardo in attesa di essere ricollocati altrove. Dopo le difficoltà iniziali, grazie alla buona volontà di alcuni tra gli stranieri e delle più tolleranti fra le donne del paese, il periodo di convivenza si viene configurando come "un tempo gentile", capace di far sbocciare a nuova vita quel borgo sonnolento e marginale. Un miracolo che solo in nome della cordialità si riesce a compiere.
 
Voto: 6 +

domenica 3 gennaio 2021

Jan Brokken, "I giusti", Iperborea


 Lo scopo di questo libro non è banalmente celebrativo, e non consiste neppure nell'appassionata ricostruzione storica di alcuni aspetti poco noti della travagliata fase della Seconda guerra mondiale in cui i paesi baltici subirono, una dopo l'altra, le invasioni prima delle truppe dell'Armata Rossa poi delle divisioni corazzate dell'esercito nazista impegnate nell'Operazione Barbarossa (per vedere infine il ritorno dei sovietici e la perdita dell'indipendenza per i successivi cinquant'anni).
 La tensione che anima Jan Brokken è un'altra: capire e mostrare come, in circostanze assai difficili, quando tutto congiura nel risvegliare negli uomini gli istinti peggiori, o nel far sì che essi si chiudano nei loro pregiudizi, o per sopravvivere sfoderino il loro volto più egoista e opportunista, alcuni individui riescano invece a fare appello alla propria dignità, alla propria onestà, al proprio altruismo e al proprio senso di giustizia, e - rischiando in prima persona - si spendano con la massima naturalezza per aiutare chi si trova in balia di una sorte drammatica.
 La storia che viene così restituita è quella dei tanti ebrei - soprattutto di nazionalità tedesca, polacca, olandese, ceca, lituana - che riuscirono ad abbandonare l'Europa e a sfuggire ai campi di sterminio partendo da Kaunas (allora "capitale provvisoria" della Lituania, visto che Vilnius era fin dal 1920 sotto il controllo polacco), passando per Mosca e percorrendo per intero la Transiberiana fino a Vladivostok con in mano un visto di transito attraverso il Giappone, in cui era indicata come destinazione finale l'isola di Curaçao, nelle Antille olandesi.
 Il protagonista principale di questa vicenda affascinante è Jan Zwartendijk, che nel 1940 era direttore a Kaunas della filiale lituana della Philips e, del tutto casualmente, si trovò investito ad interim della carica di console olandese nei paesi baltici. 
 Zwartendijk all'epoca aveva 43 anni, e non era certo un diplomatico di professione. Nativo di Rotterdam, a sedici anni si era imbarcato per l'Inghilterra contro la volontà dei genitori, convincendoli poi a lasciarlo studiare a Reading. Ancora giovane, insieme al fratello gemello Piet, aveva ereditato dal padre una manifattura che si occupava dell'importazione e della lavorazione di the e tabacco, ma l'impresa era fallita nella turbolenta fase economica seguita alla Prima guerra mondiale. Jan aveva allora provato a stabilirsi in Sudamerica per avviarvi un'attività di import-export con l'Europa; l'iniziativa, però, non aveva avuto il successo sperato, e l'uomo era stato costretto a tornare in Olanda e a cercare un impiego. 
 Van der Hoeven, grossista internazionale di olii vegetali aveva assunto sia Piet sia Jan. Mentre il, primo era rimasto a lavorare in patria, il secondo era stato destinato allo sviluppo delle attività commerciali dell'azienda all'estero, prima a Praga. 
 Nell'atmosfera vivace e cosmopolita di Praga, Zwartendijk si era subito trovato perfettamente a proprio agio: a Praga aveva conosciuto sua moglie Erni, a Praga era stato testimone della pacifica convivenza di genti di nazionalità, etnia, religione diverse, a Praga aveva stretto amicizia con Louis Aletrino, ebreo di nazionalità olandese, corrispondente del New York Times in Europa centrale.
 La fine dell'idillio praghese fu determinato dal crollo di Wall Street del 1929; Jan fu allora trasferito ad Amburgo - dove prese in odio la Germania e i violenti discorsi dei nazionalsocialisti che cominciavano a riempire le strade e a infiammare gli animi -, ma gli affari di Van der Hoeven non migliorarono, e nel giro di qualche anno Zwartendijk si ritrovò senza lavoro.
 Passò qualche tempo prima che la Philips, che allora produceva soprattutto apparecchi radiofonici ed era in piena espansione, proponesse un nuovo lavoro a entrambi i fratelli Zwartendjik.
 L'avventura lituana di Jan cominciò solo nel 1938, quando si cominciavano a profilare i terribili avvenimenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo. 
 A Kaunas, Zwartendijk sovrintendeva alla fabbricazione e alla vendita di apparecchi radiofonici (la manifattura che egli dirigeva, in seguito alla nazionalizzazione da parte dei sovietici, si sarebbe trasformata nel dopoguerra nella più grande fabbrica di radio dell'intera Unione Sovietica) e dedicava alla famiglia tutto il tempo libero da impegni lavorativi (Erni gli aveva dato tre figli, e i due maggiori entravano ormai nell'adolescenza).
 
Jan Brokken
 
 La proposta della nomina a console era arrivata da parte dell'inviato a Riga del Regno d'Olanda De Decker (oggi diremmo "ambasciatore") dopo che, nel maggio 1940, i Paesi Bassi erano stati invasi dai tedeschi, il Governo olandese si era ricostituito in esilio a Londra e il vecchio console, sospettato di simpatie filonaziste, era stato indotto a rassegnare le dimissioni. 
 Da console, Zwartendijk era stato subito costretto ad occuparsi della questione dei profughi ebrei che, sospinti dall'invasione tedesca della Polonia, avevano cercato asilo in Lituania (rinfocolando, fra l'altro, l'antisemitismo di buona parte della popolazione lituana, che aveva ascendenze germaniche e temeva, più dei carri armati di Hitler, quelli di Stalin). 
 Cogliendo al volo un geniale suggerimento venuto forse da Peppy Sternheim - una profuga ebrea originaria di Amsterdam e moglie di un rabbino -, forse da Nathan Gutwirth - uno studente ventitreenne di una scuola talmudica di Viulnius con cittadinanza olandese, che conosceva Jan fin dal 1938 e con lui condivideva la passione per il calcio -, Zwartendijk trovò il modo di accontentare gli ebrei che volevano lasciare il Paese per sfuggire alla morsa letale dei nazisti e dei sovietici (con l'intenzione di dirigersi verso le Indie olandesi). La formula da lui studiata prevedeva non un permesso formale per recarsi a Giava o a Sumatra - assai difficile da ottenere -, ma un visto in cui si diceva esplicitamente che "non era loro impedito" l'ingresso nella colonia olandese di Curaçao.
 Perché il piano avesse successo fu fondamentale la collaborazione di un altro console di stanza a Kaunas, quello giapponese Chinue Sugihara che, sfidando la possibile opposizione del suo stesso Governo (alleato di Hitler e di Mussolini), accettò di sottoscrivere il visto di transito attraverso il Giappone per i profughi in possesso dell'autorizzazione a dirigersi a Curaçao. 
 Nei mesi di luglio e agosto del 1940 - prima della definitiva chiusura delle sedi diplomatiche di Paesi Bassi e Giappone a Kaunas per volontà delle autorità sovietiche, che avevano preso possesso dei paesi baltici -, Zwartendijk e Sugihara, di comune accordo, lavorarono ininterrottamente per produrre un numero incredibile di visti (più di 3mila, secondo i calcoli più prudenti, che consentirono l'espatrio ad almeno 10mila persone, visto che i documenti emessi riportavano esclusivamente il nome del "capo famiglia") che consentissero ai richiedenti di attraversare l'URSS, di passare in nave da Vladivostok a Tsuruga, in Giappone, e da qui spostarsi a Kobe (o, più raramente, a Tokyo o a Yokohama). 
 Naturalmente era impossibile che tutti quei profughi trovassero realmente rifugio nell'isoletta di Curaçao. Dopo alcune settimane di attesa, i più fortunati riuscirono a imbarcarsi su navi dirette negli Stati Uniti; gli altri - la maggior parte - vennero invece ridistribuiti tra la Birmania e Shanghai dove, nel quartiere di Hongkou, venne creato una sorta di ghetto in cui numerosissimi profughi ebrei attesero che finisse la guerra in condizioni tutt'altro che facili, ma per nulla paragonabili a quelle dei campi di concentramento europei.
 Alcuni studiosi sostengono che il totale dei discendenti di coloro che sopravvissero alla Shoah grazie all'opera di Zwartendijk (passato alla storia come "The Angel of Curaçao"), di Sugihara e di altri "giusti" che supportarono o fecero proprio lo stratagemma da essi creato (si possono citare i consoli dei Paesi Bassi a Stoccolma e a Kobe, A.M. de Jong e Nicolaas de Voogd, o l'ambasciatore polacco in Giappone Tadeusz Romer) ammonti oggi a circa 100mila persone!
 Paradossale è il fatto che il contributo di Zwartendijk (la cui iniziativa avrebbe potuto esporlo alla rappresaglia dei nazisti, una volta richiamato nei Paesi Bassi occupati dalle truppe tedesche) alla salvezza di molti profughi ebrei fu a lungo misconosciuto, e che nel dopoguerra egli subì addirittura una sorta di reprimenda da parte del Ministero degli Esteri dei Paesi Bassi per aver violato le regole della correttezza diplomatica esercitando il proprio ruolo a Kaunas. 
 Solo molti anni dopo la sua morte, grazie alle testimonianze di diversi sopravvissuti, il suo nome - insieme a quello di Chinue Sugihara, fu incluso nello Yad Vashem fra quello dei "Giusti tra le nazioni", i non ebrei che, a rischio della propria vita e senza interesse personale, si adoperarono per salvare dal genocidio nazista anche un solo ebreo.
 Jan Brokken - dopo aver intervistato i superstiti, visitato i luoghi, frequentato coloro che conobbero Jan Zwartendijk, prima fra tutti sua figlia Edith - ricostruisce questa storia singolare con estrema meticolosità e con grande gusto narrativo, come suo costume lasciandosi portare lontano, via via, dalle parabole esistenziali di tutti coloro che con Zwartendijk ebbero a che fare (ricordo ad esempio l'anticonformista sorella di Jan, Didi, donna colta, generosa ed emancipata, critica d'arte per un giornale olandese; o il vulcanico Louis Aletrino, ucciso dai nazisti mentre tentava di fuggire dal campo di concentramento di Mauthausen; o Fritz Philips, che si trovò a gestire la "multinazionale di famiglia" negli anni dell'occupazione tedesca, barcamenandosi tra le fortissime pressioni del commissario che gli occupanti gli avevano affiancato, la lealtà nei confronti del Governo olandese in esilio, la volontà di salvaguardare i dipendenti dell'azienda - anche quelli ebrei - sottraendoli alle grinfie dei nazisti), o che grazie al visto per Curaçao si salvarono (vale la pena di nominare la piccola Nina Wertans fuggita attraverso la Transiberiana, rifugiatasi con la madre a Shanghai e trasferitasi nel dopoguerra negli Stati Uniti, dove si sarebbe laureata in Scienze politiche a New York e avrebbe conosciuto e sposato Nahum Admoni, futuro direttore del Mossad).
 Dal ponderoso, documentatissimo volume dello scrittore olandese (il libro conta più di 600 pagine) sembra emergere soprattutto la volontà di dimostrare come la rettitudine, l'amore per la giustizia e persino l'eroismo non siano doti da superuomini, ma derivino direttamente dalla razionalità, dal senso di responsabilità, dal rispetto per se stessi, dal rifiuto di essere schiavi di qualsiasi pregiudizio, e come tali qualità siano di solito associate all'estrema sobrietà di chi ne è portatore. 

In poche parole: il libro ricostruisce con estrema meticolosità e grande gusto narrativo la storia di Jan Zwartendijk, "l'angelo di Curaçao", il console olandese a Kaunas che, nel 1940, riuscì con uno stratagemma a individuare una peregrina via di salvezza per migliaia di profughi ebrei che, senza il suo aiuto, sarebbero inesorabilmente caduti vittime del genocidio perpetrato dasi nazisti. Accanto alla figura sobria e affabile del console emergono quelle di tutti coloro che con lui collaborarono affinché la giustizia, l'altruismo, la tolleranza e la rettitudine avessero la meglio sulla prepotenza di chi riteneva che simili valori non dovessero più trovare cittadinanza in questo mondo. Tutti costoro sembrano insegnarci una cosa importante: l'eroismo non è una qualità da superuomini, ma è quasi sempre figlio del pudore, dell'onestà intellettuale e della semplicità. 
 
Voto: 6,5