domenica 25 ottobre 2020

Andrea Bajani, "Dimora naturale", Einaudi

 Questa raccolta di poesie di Andrea Bajani consta di 50 componimenti (i primi quarantanove contrassegnati da un numero progressivo, l'ultimo preceduto dal simbolo dell'infinito), ciascuno costituito da otto versi di varia misura: in una partitura metrico-prosodica assolutamente libera, l'endecasillabo compare solo episodicamente, mentre abbondano esempi di versi che, pur riproducendone la scansione, ne travalicano il numero di sillabe; piuttosto rare, anche se non del tutto assenti, le rime.
 Ogni poesia è caratterizzata da una notevole leggibilità; si rifuggono, infatti, costrutti sintattici aggrovigliati, espressioni troppo peregrine, formule ermetiche. Nonostante questo, il discorso non tende affatto alla prosa: la brevità e il ritmo del dettato, infatti, portano a enfatizzare un'immagine o un concetto - spesso incorniciato dall'efficacia di un singolo verso o di una coppia di versi - che assume un significato di spicco, valorizzato da una rete di rimandi creata intorno ad esso. 
 Prendiamo il componimento n. 13: 
"Questo gabbiano, per esempio / che porta il mare sul terrazzo. / Qual è lo scempio, mi domando, / la mia dimenticanza, ignorare / quanto dista il litorale, oppure / il suo disorientamento, prendere / una palazzina anni cinquanta / per la propria dimora naturale?"
 L'immagine poetica centrale è quella del gabbiano, con tutto il suo potere evocativo (derivante anche da una lunga tradizione letteraria), per nulla intaccata, anzi accresciuta dal fatto di essere fuori contesto. Su di essa, e sulle reazioni che suscita, si sviluppa una riflessione che insiste sul tema del progressivo distacco emotivo dell'uomo dall'ambiente naturale di cui fa parte; è tutto da stabilire se questo scollamento vada maggiormente a detrimento dell'uomo stesso, ormai incapace di rapportarsi correttamente alla natura e di leggerne l'alfabeto, o delle entità che dell'ambiente naturale sono ancora parte integrante a pieno titolo - gli animali soprattutto. 
 Quello del rapporto dell'uomo con la natura, del resto, è il tema unificante dell'intera raccolta. L'idea di partenza, declinata liricamente in molti modi diversi, è che l'uomo non possa in alcun modo prescindere dalla sua "animalità", dalla natura biologica del suo essere, che nessun pensiero metafisico può rimpiazzare e obliterare.
 Della natura l'io lirico osserva i fenomeni e, insieme, si rieduca a sentirsi parte. In questo senso, le sovrastrutture culturali che inducono a interpretare metaforicamente, riducendoli alla misura delle nostre elucubrazioni, processi che sono semplice manifestazione dei cicli naturali (come l'arrivo dell'inverno, ad esempio) vengono smantellate in nome di una più precisa e serena constatazione della realtà che ci circonda (si veda il componimento n. 17: "A volte è questione di un istante, / l'inverno arriva come un crollo / le foglie tutte insieme vanno giù. / Oggi invece è solo illusionismo, / la caduta delle foglie d'improvviso / si fa volo, toglie lo spazio sottostante. / Sembrava una morte a precipizio / e invece sono rondini che vanno.").
 La pretesa di essere "speciali", di essere superiori agli altri animali e di godere di uno statuto particolare all'interno del novero dei viventi deve essere ampiamente ridimensionata (componimento n. 19: "Ecco, non siamo poi così diversi / dalle seppie che colorano i fondali / e traducono in cromatica l'attacco / e la difesa. Non abbiamo i loro / gialli, forse, la nostra tavolozza / è meno estesa. Ma guàrdati / allo specchio, l'amore ti fa rossa, / il bianco è il tuo colore della resa."; o ancora, componimento n.29: "Chi glielo dice, e in quale lingua, / alla marmotta o allo stambecco / chi glielo dice adesso al picchio / alla vipera e a camoscio, chi dice / alla foglia sconfinata per il vento / che c'è una soglia, che è dentro / un altro stato, che chi l'ha detto / che la terra è uguale dappertutto.").
 
Andrea Bajani

  Tutto ciò non comporta però il rifiuto della specificità dell'uomo, della sua vocazione per il pensiero astratto; il ragionamento, e l'elaborazione letteraria che lo porta a esprimere in maniera verbalmente complessa le sue emozioni - soprattutto attraverso la poesia - si possono in certo senso considerare il suo "verso" naturale (componimento n.5: "Forse è proprio la voce della specie / questo pervicace battere e levare / sulle lettere, la riga che va via / e sprisce dentro il bianco terso. / Non è un grugnito o un miagolio / è un po' belato un po' starnazzo. / E' la poesia, lo strazio vocale di ogni io. / Bello o brutto, è il verso che facciamo.").
 La capacità di astrazione, il fatto di poter contare su un cervello particolarmente "performante", tuttavia, non devono essere visti come un privilegio; sono piuttosto una condanna (componimento n.30: "Risulta assai evidente, a guardarci / in una piazza, qual è la punizione / per la mela, qual era l'intenzione / che ha fatto del volo una caduta. / L'inserimento del cervello dentro / il cranio è la vendetta più spietata: / cercate invano, cercatela in eterno, / una ragione a questa insensatezza."). 
 Una condanna che la nostra vocazione per il divino, il nostro bisogno - in fondo sempre insoddisfatto - di cercare conforto in una superiore entità ultraterrena non fa altro che acuire (componimento n. 41: "Pare sia un fatto proprio degli umani / credere al divino, mettersi a pregare, / pensarsi niente davanti all'universo. / Per gli animali sembra sia diverso, / senza le parole il mistero diventa / mangiare e sopravvivere alla caccia: / finire nel presepe con Gesù bambino, / o dentro l'arca, è soltanto tempo perso.").
 Unica consolazione l'età infantile, quella che più ci avvicina l'uomo alla condizione animale e dunque all'armonia con la natura e, in qualche modo, alla felicità (componimento n.39: "Finisce tutto in tenerezza, dopo / la poppata, con le dita spalancate, / l'estasi del godimento disarmato.").
 Proprio a una originale e malinconica rievocazione dell'infanzia è dedicata quella che per me è la più bella delle poesie della raccolta, la numero 2:

Come mai di colpo poi spariscono
senza dare spiegazioni, come mai
nessuno vuole più sentire il verso
del cavallo, nessuno dice più nitrito,
raglio, nessuno vuole più un barrito.
Sono grandi glaciazioni, gli animali
se ne vanno dalle case nottetempo.
Ci si sveglia e non c'è più l'infanzia.

In poche parole: 50 poesie, tutte dello stesso numero di versi - e tutte giocate sull'efficacia di una scrittura lirica diretta e pianamente evocativa - per cercare di ristabilire il corretto rapporto tra uomo e natura; quella che è la nostra casa e, nel contempo, la nostra condizione fondamentale, ma che l'essere umano, reso superbo dalla propria capacità di coltivare il pensiero astratto, tende a misconoscere e a dimenticare.   

Voto: 6,5

domenica 18 ottobre 2020

Rocco Carbone, "L'apparizione", Castelvecchi

 Alcune settimane ho fa ho recensito un libro di Emanuele Trevi che ricordava le figure di due scrittori contemporanei molto diversi fra loro, scomparsi da pochi anni e meritevoli entrambi di continuare a essere letti: Pia Pera e Rocco Carbone. 
 Di Rocco Carbone prendo oggi in considerazione il romanzo forse più rappresentativo, un testo del 1992 di grande intensità espressiva, intitolato L'apparizione. Si tratta della breve storia di un delirio emotivo portato dal protagonista - che ne è vittima - fino alle sue estreme conseguenze, vale a dire fino alla propria autodistruzione.
 Nell'antichità classica, e nelle culture che ne sono in qualche modo derivazione, l'invasamento era un fenomeno paradossale, che portava l'invasato, ispirato da un dio, a svincolarsi dalle logiche utilitaristiche che governano questo mondo per attingere a una verità più profonda, capace di donare per un breve periodo un senso di pienezza esistenziale simile all'estasi, sovvertendo però le strutture stesse intorno alle quali si era costruita nel tempo la propria personalità. La più comune e la più potente delle forme di invasamento era quella determinata dal dio Amore.
 Carbone immagina qualcosa di simile nel suo romanzo: Iano, un insegnante quarantenne attivamente impegnato a combattere la dispersione scolastica andando in soccorso degli studenti in difficoltà, sposato con Rosa, una donna graziosa e amorevole, in un weekend di pioggia, mentre è ospite nella grande casa di campagna di una coppia di amici in attesa che la moglie lo raggiunga, incontra rientrando nella propria stanza un giovane malvestito accompagnato da un cane, con cui scambia poche parole. Lo stato di lieve alterazione dovuto a una modesta febbre da influenza e alle due aspirine che ha assunto circonfonde l'incontro di un'aura vagamente surreale. 
 Subito dopo Iano trova nella propria stanza uno stiletto acuminato, e contemporaneamente Sara, la padrona di casa, scopre nella sua camera da letto uno strumento analogo, ma con la punta piegata. Comprensibile spavento della donna. Tanto che, quando Iano riferisce l'episodio della misteriosa apparizione, tutti pensano ad un ladro o peggio; un ladro, però, sparito senza toccare nulla e senza lasciare traccia. Anche i carabinieri - chiamati e prontamente accorsi - ipotizzano che si tratti di uno sbandato o di un topo da appartamento, e promettono di fare ricerche fra i delinquenti comuni della zona. Ricerche che non portano a nulla.
 In seguito a questo misterioso episodio, giorno dopo giorno, nella mente del protagonista - che progressivamente realizza di essere preda di un sentimento nuovo - si fa strada una strana convinzione: quel giovane era un dio che voleva farsi latore di un messaggio. Iano, infatti, si è innamorato di Sara e crede di capire di essere destinato a intraprendere con lei una vita nuova.
 Un viaggio compiuto casualmente insieme all'amica diventa l'occasione per dichiararsi; la donna appare lievemente sconcertata di fronte all'atteggiamento di Iano, ma non si mostra scandalizzata, non prende drasticamente le distanze dall'amico e presume che tutto possa rientrare presto nella normalità.
 Invece Iano lascia la moglie - alla quale rifiuta qualsiasi spiegazione - prende congedo dal lavoro e, in preda a una strana euforia, comincia a riempire Sara di regali e a tempestarla di chiamate, che solo per fortuna sfuggono all'attenzione di suo marito Dario. 
 
Rocco Carbone
 
 Isolatosi sempre di più, divenuto irriconoscibile persino per gli amici di antica data, respinto definitivamente da Sara, Iano scivola a poco a poco dall'euforia alla depressione, senza però rinnegare la sua scelta e senza venire meno alla sua convinzione di essere stato eletto da un dio per compiere un'esperienza eccezionale.
 Devono intervenire coloro che gli sono più affezionati - che, anche su sollecitazione della moglie Rosa, gli stanno vicini - per convincere Iano a rivolgersi a uno psichiatra e ad accettare di farsi curare.
 Ma fra il protagonista e lo psichiatra (un luminare di nome Redondo) l'antipatia è immediata: la cura prescritta, a base di antidepressivi, non dà gli effetti sperati (probabilmente anche perché Iano continua a bere alcolici e a fumare moltissimo), la salute mentale e l'aspetto fisico di Iano continuano a peggiorare, e la sua esasperazione arriva fino a spingerlo, nell'ambulatorio di Redondo, ad aggredire il professore con un pesante portacenere, lasciandolo sul pavimento esanime e forse morto.
 Iano, a questo punto, è un latitante; sfuggendo alla polizia cerca prima rifugio presso un amico, poi fa un'ultima visita al preside della scuola nella quale lavorava, infine si reca brevemente dalla moglie Rosa - che lo tratta con delicatezza. 
 Prima di lasciare la propria città incontra anche Nino, un bambino rimasto orfano di genitori che egli è riuscito a convincere a tornare a scuola, e sua sorella diciottenne Cata, che forse è innamorata di lui. Dopo di che si mette in macchina e raggiunge l'anziano padre che vive in una località di mare nel sud Italia (i riferimenti geografici sono sempre piuttosto vaghi nel libro, ma si può facilmente dedurre che la città nella quale Iano risiede è Roma, mentre la città del padre è forse Reggio Calabria).
 L'incontro con il padre è pieno di calore e quasi commovente; ma l'incalzare delle forze dell'ordine costringe nuovamente Iano a mettersi in macchina e a fuggire. 
 A questo punto all'uomo, che sembra non avere più vie d'uscita, durante una sosta, appare ancora il giovane malvestito accompagnato da un cane che egli crede un dio, e la cui originaria comparsa in casa di Sara ha dato inizio a tutta la sua avventura. La visione conforta Iano, che crede una volta di più di avere fatto bene a seguire il suo sogno d'amore e a vivere i suoi ultimi giorni con una pienezza prima sconosciuta.
 Il suicidio - compiuto lanciandosi con l'auto in mare giù dalla scogliera a una curva delle strada - sarà il sigillo a una esperienza umana che egli percepisce come straordinaria.
 Sotto l'aspetto stilistico il libro è ammirevole: attraverso una scrittura estremamente pulita e precisa, minuziosa come quella di un verbale, ma filtrata attraverso il punto di vista necessariamente straniato di Iano, si raggiungono effetti di eccezionale trasparenza e, insieme, di notevole concretezza, che conferiscono al romanzo l'ideale fisionomia di un cristallo. 
 E' solo attraverso la sapiente gestione dei tempi narrativi - che ci consente di mettere a confronto lo Iano dopo il delitto per il quale è ricercato con quello di prima del delitto - che riusciamo a ricostruire il delirante percorso del protagonista e, in qualche modo, a oggettivare la sua condizione, che nella sua stravaganza egli vive con assoluta naturalezza. 
 Tale impostazione si traduce in un profondo rispetto delle facoltà interpretative del lettore, che è messo di fronte al resoconto dettagliato e assolutamente neutro di un'esperienza umana assai singolare, senza che gli sia data una chiave di decodifica di questa particolare vicenda diversa da quella - invero bizzarra - proposta dell'inaffidabile protagonista.
 Così, il piano della razionalità e quello dell'irrazionalità slittano l'uno sull'altro chiamando chi legge, sulla base della propria sensibilità e delle propria apertura alle più varie suggestioni, a inserire nella giusta prospettiva quanto viene raccontato.
 
In poche parole: il romanzo, avvalendosi di una scrittura di assoluto rigore e di grande precisione, capace di creare geometrie stilistiche di cristallina purezza, racconta la storia di un uomo - Iano - che, in seguito alla strana e inspiegabile apparizione di un ragazzo sconosciuto accompagnato da un cane a cui gli capita di assistere, si convince di essere destinato a perseguire una vita nuova, coltivando l'amore per una donna diversa da sua moglie. 
Questo "invasamento", simile a quello di coloro che, nei miti classici, venivano scelti da un dio per compiere un'esperienza fuori dal comune, si trasforma presto in vero e proprio delirio autodistruttivo che né la vicinanza degli amici, né l'intervento di uno psichiatra consentono al protagonista di arrestare. Anzi, con l'aggressione fisica dello psichiatra che lo ha in cura, il protagonista imbocca una strada senza ritorno, che lo porterà al definitivo rifiuto di tutto ciò che umanamente è stato fino a quel momento e, infine, all'inevitabile suicidio.
 
Voto: 7  

domenica 11 ottobre 2020

Angelo Carotenuto, "Le canaglie", Sellerio

 
 
 Le canaglie è un romanzo che gemma da una storia di sport capace, come poche altre, di fungere da compendio di un'epoca impura, appassionata e violenta - gli anni settanta del Novecento - in una città tormentata e difficile - la Roma dei ministeri e delle squallide borgate, dei cineasti e delle battone, degli omicidi politici e delle tifoserie politicizzate, degli scontri di piazza e dei meridionali in cerca di fortuna, dei palazzinari e dei faccendieri, dei giornalisti e dei questurini, delle armi da fuoco e degli adolescenti scomparsi nel nulla.
 Carotenuto affida il compito di raccontare a un immaginario narratore interno che si trova in una posizione privilegiata per osservare (e, in parte, per vivere in prima persona) tutti gli avvenimenti reali che vanno componendo questa storia: Marcello Traseticcio è un fotografo che ha ormai superato la trentina e ha alle spalle una notevole esperienza come ritrattista di dive durante gli anni ruggenti della "dolce vita"; possiede una discreta cultura e una sensibilità da artista, che gli consente, nei suoi scatti, di andare oltre gli aspetti puramente documentari dei fatti su cui punta l'obiettivo della sua macchina fotografica, e dunque di cogliere il senso profondo di ogni episodio di cui è testimone, e i presagi di cui esso è carico.
 All'inizio degli anni settanta, preso atto che i tempi stanno cambiando, il direttore del giornale romano per cui egli lavora sposta Marcello dal cinema ai settori a lui sconosciuti dello sport e della cronaca nera. E' così che comincia a frequentare il campo di allenamento di Tor di Quinto dove, sotto la guida intelligente dell'allenatore Tommaso Maestrelli, sta prendendo forma una squadra di calcio - la Lazio di Chinaglia e di Lenzini - destinata, con i suoi singolari interpreti, a incarnare lo spirito dei tempi tanto nella stagione breve e luminosa dei suoi successi quanto in quella per molti versi tragica del suo declino, che vedrà diversi componenti di quel gruppo perdersi in direzioni differenti, decretando il malinconico esaurirsi di quella magnifica epopea.
 Di Maestrelli, presentato come il personaggio più positivo fra quelli di cui viene restituito il profilo, Marcello diventa amico e confidente, impara ad apprezzarne la profonda umanità, a rispettarne la riservatezza, ad amarne l'assoluta mancanza di banalità nelle idee professate, nella pazienza, nella tolleranza, nella finezza psicologica con cui è solito rapportarsi ai propri giocatori.
 Degli altri (i calciatori e le loro mogli, i dirigenti, i tecnici, i magazzinieri, i tifosi, i giornalisti e tutti coloro che intorno alla Lazio gravitano) il protagonista-narratore arriva a conoscere la personalità, a capire pregi e difetti, a studiare passioni e debolezze, spesso molto prossime a  - e a volte assai distanti da - quelle che informano la cronaca degli anni settanta e appartengono ai sentimenti universalmente diffusi fra la gente comune nell'Italia di allora. 
 I calciatori - tutte facce e personaggi degni, come è stato detto, di un film di genere - vengono descritti con grande concretezza, in maniera tale da lasciarne intatto il fascino un po' "sporco" senza indulgere in mitizzazioni di maniera: li ritroviamo tutti, dal portiere Felice Pulici, allampanato e un po' ingenuo, assuefatto alla nicotina al punto di rendersi conto che la partita si sta avvicinando al novantesimo minuto dall'insopprimibile bisogno di fumare che si impadronisce di lui, al "Tufello" Giancarlo Oddi; da Franco Nanni, pisano di famiglia operaia, a Sergio Petrelli, ex della Roma, appassionato di armi al punto tale da contagiare tutti i suoi compagni; dal regista Mario Frustalupi a Renzo Garlaschelli, "reverendo del puttanesimo"; da Luigi Martini, fascista, paracadutista, principale antagonista di Chinaglia, all'indimenticato Luciano Re Cecconi, il Biondo, morto tragicamente per uno scherzo assurdo; da Vincenzino D'Amico, la giovane promessa, a Pino Wilson, il capitano, lo stopper mezzo inglese grande amico di Chinaglia. E poi lui, "Long John", Giorgione, il bomber e il leader della squadra, grintoso, prepotente, sempre sopra le righe, manesco e fragile, generoso e ingenuo, "adottato" da Maestrelli quasi come un figlio, allevato dalla nonna durante l'infanzia, e poi partito da solo ad appena undici anni alla volta di Cardiff per raggiungere i genitori emigrati senza di lui.        
 
Angelo Carotenuto
 
 Le vicende personali e quelle sportive di tutti questi uomini incrociano i problemi e gli avvenimenti che in quegli anni riempivano i giornali: le violenze per strada, le zuffe davanti ai licei, l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, la politicizzazione dei gesti quotidiani, i pregiudizi di parte, la conquista dei diritti civili, con i referendum sul divorzio (tenutosi proprio nel giorno della vittoria dello scudetto da parte della Lazio) e sull'aborto, destinati a svecchiare costumi e mentalità di un italia arretrata e sessista. 
 Nello stesso tempo, ai fatti sportivi fa da controcanto l'insieme di avvenimenti che investono la famiglia di Marcello: la malattia e poi la morte della moglie Maria - che riecheggia la malattia e la morte dello stesso Maestrelli - e la scomparsa improvvisa, a 17 anni, della figlia Clara, come accadde a tanti adolescenti in quel periodo, spariti senza lasciare traccia, inghiottiti da una città ancora criminosa e misteriosa, avventurosa e maledetta.
 L'amalgama che ne scaturisce è di un'apprezzabile freschezza letteraria, grazie anche al tono stilistico che assume la voce del narratore, caratterizzata da accenti popolareggianti senza scimmiottare un romanesco di maniera, capace di tenersi lontana da effetti pedissequamente cronachistici, carica di una notevole sostanza emotiva.
 Uno degli aspetti davvero interessanti di questo libro è la sua capacità di sfuggire alla trappola della pura e semplice epica sportiva, a cui sarebbe stato facile appellarsi per trovare effetti di sicura suggestione. I fatti di calcio costituiscono la cornice (una cornice sontuosa, ma pur sempre una cornice) delle vicende individuali e degli umanissimi sentimenti dei protagonisti.
 Allo stesso modo, Carotenuto evita accuratamente la retorica dell'eroe e quella - ad essa speculare e di cui sovente si abusa quando si parla della Lazio del 1974 - dell'antieroe: gli esponenti dei due clan in cui lo spogliatoio laziale era allora diviso vengono trattati senza troppo compiacimento; la controversa figura dello stesso Chinaglia viene analizzata con perfetta aderenza alla realtà effettuale e grande equilibrio, senza nascondere il fascino grezzo che l'uomo senza dubbio ebbe, ma senza indugiare troppo su di esso e senza che la narrazione ne diventi schiava.
 Se qualche difetto si può trovare nel romanzo, esso risiede in qualche zeppa eccessiva nella prima parte (forse ritenuta utile dall'autore per la corretta contestualizzazione degli eventi) e nei passi abbastanza farraginosi che vedono protagonisti il misterioso Preminenza, vecchio orditore di trame occulte, e il giovane studente che per lui si occupa della rassegna stampa, detto "il Solerte". In generale si può però dire che viene gestita benissimo la non facile fusione fra la finzione romanzesca e la realtà effettuale su cui essa insiste e che spesso - ma non qui - crea problemi, sfasature, inverosimiglianze e prolissità capaci di zavorrare in maniera esiziale opere di questo tipo.

In poche parole: attraverso l'occhio attento di un fotografo, avvezzo a cogliere particolari e sottointesi in tutto ciò che osserva ed è chiamato a immortalare, viene ricostruita la storia di una squadra di calcio che ha fatto epoca ed è rimasta nell'immaginario collettivo per la singolarità umana e l'anticonformismo dei suoi interpreti, e il tragico destino che investì alcuni di loro: la Lazio degli anni settanta. Le vicende di cronaca si intrecciano a quelle relative alla finzione narrativa, fino a creare un amalgama capace di rappresentare letterariamente l'atmosfera di Roma e dell'Italia intera in quel periodo, senza scivolare nelle banalità che talvolta caratterizzano l'epica sportiva né nella piattezza del documentarismo storico, e senza scadere nella retorica schematica della dicotomia "eroe acclamato-antieroe dal fascino sinistro". Il risultato è un romanzo che intriga e appassiona.
 
Voto: 6,5 

domenica 4 ottobre 2020

Raffaele La Capria, "Ferito a morte", Mondadori

  

 Capita, a chi si occupa quotidianamente di letteratura per professione o per diletto, di girare a lungo attorno a un certo numero di "grandi libri" senza mai affrontarli direttamente, magari assaggiandoli appena o traendone un'impressione mediata attraverso i commenti di altri. 
 Questo può accadere perché si aspetta il "momento giusto" o il giusto stato d'animo per intraprendere una lettura che si sa importante e impegnativa, o perché di questi libri si è sentito parlare talmente tanto da avere l'impressione che le valutazioni altrui si siano stratificate in pregiudizi che avvertiamo in qualche modo di aver fatto nostri e che, nostro malgrado, comprometterebbero il piacere di una lettura libera da condizionamenti. Occorre così uno sforzo supplementare per dedicarvisi facendosi guidare semplicemente dalla curiosità.
 Per me, uno di questi libri è stato fino ad oggi Ferito a morte di Raffaele La Capria: pubblicato nel 1961, viene considerato da molti critici uno dei vertici toccati dalla lettura italiana nel corso del Novecento; d'altra parte, è stato semplicemente ignorato da alcuni altri, forse perché, per la sua singolarità, poco si presta a rientrare in categorie interpretative consolidate.
 Il romanzo fa proprie tecniche narrative, quale quella del flusso di coscienza, sperimentate e codificate nella prima metà del XX secolo soprattutto da James Joyce e Virginia Woolf, e le utilizza magistralmente come catalizzatore - per collegare fra loro e lasciare che si espandano liricamente le problematiche che, incrociando la biografia del personaggio principale, vengono sostanziate letterariamente -, e come lente deformante, per sovrapporre e mischiare fra loro diversi piani temporali, facendo convergere in un unico momento avvenimenti fra loro cronologicamente distanti, o dilatando a dismisura fatti che assumono particolare importanza nell'economia della narrazione.
 Tutto comincia con il dormiveglia di Massimo De Luca, protagonista e alter ego dell'autore, che in un splendida giornata del 1954, alla vigilia del suo definitivo trasferimento da Napoli a Roma per lavoro, dal suo letto in una stanza di palazzo Medina - che sorge direttamente dalle acque trasparenti del mare di Posillipo - rievoca episodi e personaggi della sua recente giovinezza napoletana e borghese, costellata di gite in barca, tuffi, immersioni e battute di pesca subacquea, splendide ragazze ammirate e corteggiate, bravate e pettegolezzi di amici e conoscenti, pigri pomeriggi passati al circolo nautico fra accaniti giocatori di carte, piccoli millantatori, danarosi esibizionisti, "principi delle apparenze".
 Dietro la disordinata e indolente rievocazione del passato, si cela però la più acuminata delle spine che continuano a pungere il cuore di Massimo: l'amore indimenticato e indimenticabile per Carla Boursier, conosciuta nel 1943 durante un'incursione aerea alleata che aveva costretto pescatori e diportisti che se ne stavano in barca sul mare davanti a Castel dell'Ovo a rifugiarsi in una grotta; rivista - più adulta - nel dopoguerra, frequentata almeno fino al Capodanno 1949, e infine perduta dopo un umiliante fallimento per "troppo amore" durante un emozionato approccio sessuale; sempre rimpianta, comunque, nonostante i presunti tradimenti di lei con dei dongiovanni di seconda schiera. 
 La clamorosa defaillance erotica, la Grande Occasione Mancata, viene metaforicamente evocata attraverso il sogno ovattato di una pesca subacque che vede Massimo armato di fucile incrociare una spigola grossa "come una fortezza volante" senza che il suo braccio riesca a scoccare l'arpione al momento giusto per catturarala.
 Quella Grande Occasione Mancata, descritta a stento e in maniera ellittica, riecheggia poi per tutte le stanze del libro, divenendo il simbolo del fallimento di tutta la generazione di cui Massimo è parte e, nello stesso tempo, della borghesia napoletana, incapace di incidere sulla realtà, inetta perfino nel preservare la bellezza della propria città, l'armonia del paesaggio; condannata a vedersi rimpiazzata da palazzinari e nuovi ricchi di una volgarità sconcertante.
 
Raffaele La Capria
 
 Il senso malinconico e lievemente struggente di ciò che poteva essere e non è stato unisce la prima e la seconda parte del libro: la prima abbraccia i sette capitoli iniziali, e prende le mosse proprio dal dormiveglia di Massimo, che lo porta avanti e indietro nel tempo permettendogli di soffermarsi su quelli che sente come i momenti cruciali della sua avventura umana. La seconda abbraccia invece gli ultimi tre capitoli e vede Massimo, ormai residente a Roma, ritornare a più riprese a Napoli fra il 1954 e il 1960, incontrando i vecchi amici dell'ormai scomparso Middleton - Glauco, Cocò e soprattutto Sasà - constatandone l'inevitabile invecchiamento e ricordando come erano un tempo; sentendo contemporaneamente raccontare da altri come lo scettro della brillante capacità di intrattenere e di sedurre donne e potenti danarosi sia ora stato raccolto da suo fratello minore Ninì, mitizzato ma inafferrabile.
 La circolarità narrativa che questo corto circuito fra passato e presente crea contribuisce alla rappresentazione di Napoli, della sua gente e delle sue aspirazioni come di un mondo condannato dalle proprie debolezze intrinseche, da vizi storici ereditati e dal fatalismo pervasivo (dall'incapacità di riconoscere davvero e di superare i limiti di una visione del mondo improntata a una filosofica forma di rassegnazione che sfocia nel culto dell'effimero) a sprecare le proprie potenzialità. 
 Il senso di spreco è il sentimento che realmente Massimo De Luca, e con lui l'autore stesso, sembrano dolorosamente maturare ed esprimere nel testo: la rappresentazione più efficace che ne viene data si trova nella scena in cui il costoso motoscafo di Glauco (acquistato con gli ultimi soldi rimasti dopo la sua avventura come cercatore d'oro in Venezuela) naufraga miseramente girando in tondo nel mare agitato tra Napoli e Capri, con alla guida un ubriaco incapace di pilotarlo. 
 Due sono le cose assolutamente ammirevoli in questo romanzo, quelle che fanno sì che possa essere giustamente considerato un classico: la capacità di incarnare la sofferenza del protagonista, e la sua incerta ricerca dei motivi di quella sofferenza, in opzioni stilistiche che non rispondono mai all'esibizione di uno sperimentalismo formale fine a se stesso, ma diventano le lacrime e il sangue del racconto; e la limpidezza della scrittura, che rende godibile anche da parte del lettore medio un libro strutturalmente e narratologiocamente complesso.
 Caratteristiche che fanno di Ferito a morte, se non un modello (perché assai difficile da imitare), certo una pietra miliare della nostra letteratura negli ultimi 80 anni.
 
In poche parole: nel flusso di coscienza indotto dal dormiveglia in cui si crogiola - alla vigilia della sua definitiva partenza per Roma - nel mattino di una splendida giornata del 1954, sentendo i rumori del mare, Massimo De Luca rievoca la sua gioventù passata a Napoli, fra i tuffi, la pesca, gli scherzi con gli amici, l'indolente contemplazione della propria città; soprattutto, però, gli attraversa la mente il ricordo della Grande Occasione Mancata, il suo amore frustrato per Carla, la bionda ragazza di cui forse è ancora innamorato. Il senso di spreco che da quel ricordo, come un'ombra, si stende sugli anni passati, tornerà anche nelle sue successive visite a Napoli, incontrando gli amici ormai invecchiati che gli trasmettono il senso inesorabile del tempo che passa, ma che non riescono a trattenerlo dal cercare di scorgere ancora fra la folla l'oscillare di una bionda coda di cavallo. Indimenticabile divagazione su una città e un rimpianto d'amore, Ferito a morte è oggi da considerare un classico contemporaneo per la perfetta integrazione tra i mezzi tecnico-espressivi impiegati e la sostanza del racconto, e per l'assoluta limpidezza del dettato. 
 
Voto: 8