domenica 28 giugno 2020

Shirley Jackson, "Pomeriggio d'estate", Adelphi


 Se c'è una scrittrice alla quale l'aggettivo "ipnotica" calza a pennello, questa è di sicuro Shirley Jackson. Nei suoi racconti, la descrizione di momenti di ordinaria quotidianità nella provincia americana, popolata dalla piccola borghesia disinvoltamente perbenista così caratteristica del tessuto sociale statunitense, si sfilaccia puntualmente dando luogo a fughe immaginarie in cui si riflettono le paure e i desideri di autorealizzazione delle protagoniste femminili; oppure, altre volte, degenera addirittura in scenari di puro orrore in cui si manifestano, da una parte, la ferocia insita nelle relazioni umane (di solito graziosamente schermata dietro le convenzioni della buona creanza o del buon vicinato), dall'altra l'intollerabile precarietà della stessa condizione ontologica degli uomini tutti. 
 Il campione più noto di questa suggestiva impostazione letteraria è probabilmente il famoso La lotteria dove, in un piccolo centro di poche centinaia di onesti abitanti, colui (o colei) il cui nome ha la ventura di essere sorteggiato dalla vecchia e ormai usurata bussola di legno dipinto portata in piazza una volta all'anno per la tradizionale cerimonia subisce il destino tremendo di una collettiva lapidazione a morte da parte degli astanti, a cui anche i familiari più stretti partecipano volonterosamente.
 In questo piccolo libro, che contempla solo due racconti (Invito a cena e l'eponimo Pomeriggio d'estate), tali aspetti - così caratterizzanti e capaci di mettere in atto una vera e propria mutazione genetica del realismo letterario - ritornano in maniera particolarmente originale.
 Invito a cena vede come protagonista e narratrice Dimity Baxter una giovane impiegata nubile che invita a casa propria Hugh Talley, un collega famoso, oltre che per la sua straordinaria avvenenza, per la sua bravura ai fornelli, in virtù della quale si sente autorizzato a criticare aspramente - fino a demolirle dal punto di vista psicologico - tutte le donne che hanno la ventura di cucinare per lui.
 Dimity non è una brava cuoca; anzi, si può dire che quando cucina per sé si accontenti quasi sempre di cibo in scatola. Così, mano a mano che il momento della cena (che di primo acchito doveva esserle parsa molto allettante) si avvicina, si rende conto del fatto che la prospettiva di essere esposta alle probabili bordate sarcastiche di Hugh non solo la infastidisce ma addirittura la inquieta, come se dalle parole dell'uomo dipendesse la sopravvivenza della sua stessa autostima.

 Shirley Jackson

 Per fortuna, in aiuto di Dimity interviene un'anziana inquilina del suo stesso stabile, Mallie: una sorta di mamma o di nonna putativa. Mallie praticamente rifà per Dimity tutti i piatti che alla giovane donna non riescono come si deve. A tratti pare quasi che Mallie sia per la protagonista una specie di amica immaginaria che, più che agire in prima persona nella realtà effettuale, infonde a Dimity la sicurezza di cui ella ha bisogno. Ad ogni modo, l'intervento di Mallie non basta per tramutare in lodi le critiche che Hugh aveva preventivamente in serbo per Dimity. Alla quale, per difendere la propria rispettabilità e il buon nome di tutto il genere femminile, non resta altro che tirare in piena faccia al suo ospite la torta che aveva preparato per lui.
 Nella sua amara comicità il racconto nasconde una consapevole, risentita, moderna ribellione alla condizione di sudditanza nei confronti dei maschi alla quale i pregiudizi vigenti nella società americane del Novecento hanno consegnato generazioni di donne.
 L'altro racconto, Pomeriggio d'estate, è costruito sulla negazione del patetismo (ottenuta grazie all'utilizzo di un punto di vista straniato) e percorso da un profondo brivido nero. Narrato in terza persona, descrive il pomeriggio trascorso giocando da due bambine ancora piuttosto piccole che abitano in due villette adiacenti del quartiere residenziale di una piccola città. La focalizzazione interna ci consente di vedere il mondo con gli occhi delle due bambine e di seguire le capricciose fantasie che, esaurirti i soliti giochi con le bambole, le portano a compiere da sole, sul marciapiedi, un giro intorno al proprio minuscolo isolato gettando sguardi curiosi attraverso le finestre, all'interno delle abitazioni dei vicini. Fra queste, c'è anche la casa di "Tippie", una bambina che pare faccia parte delle loro conoscenze anche se non la frequentano abitualmente.
 In realtà, come verremo a sapere dalla conversazione serale di una delle piccole con la propria madre, non esiste nessuna Tippie: la bambina  - figlia di Mrs Archer - che davvero abitava lì è morta alcuni anni prima. Improvvisamente il lettore è piombato da un'atmosfera da commedia nel bel mezzo di una tragedia e, insieme, in una vera e propria ghost story.
 Il meccanismo su cui simili racconti sono impostati lascia sgomenti, perché l'originario patto narrativo stretto in apertura del testo viene stravolto, e la dominante nota realistica iniziale viene efficacemente trasfigurata proiettandoci in un mondo diverso da quello supposto, che "arriva" alla nostra attenzione con la stessa evidenza di ciò che è banale ed ordinario, ma spiazza, sconcerta e spaventa.    

Voto: 7

domenica 21 giugno 2020

Sandro Veronesi, "Il colibrì", La nave di Teseo


 Il colibrì è il più minuscolo e grazioso degli uccelli ma, soprattutto, possiede l'eccezionale capacità di muovere le proprie ali alla spaventosa frequenza di 70 battiti al secondo per rimanere fermo a mezz'aria o, addirittura per procedere a ritroso. Questa sua straordinaria facoltà lo rende simbolo della persistenza consapevole, dell'impegnativa resistenza all'entropia universale, al mutare, trascorrere, deteriorarsi e scomparire di tutte le cose immerse nel flusso del tempo.
 Per associazione di idee può anche rappresentare l'emmenalgia (dal greco Emméno, persevero, continuo strenuamente), vale a dire "un senso di struggimento malinconico per il desiderio di voler continuare a oltranza" e, insieme, "l'ostinata volontà di sottrarsi alle leggi di altri". Ed è curioso constatare come la suggestione di questo piccolo volatile abbia colpito persino gli aztechi, che immaginavano che in esso si trasformassero, come se si trattasse del premio supremo, i guerrieri gloriosamente caduti in battaglia.
 Protagonista del romanzo di Sandro Veronesi è Marco Carrera, fiorentino, classe 1959, che da ragazzino è stato soprannominato dalla madre Letizia proprio "colibrì" per via della sua piccola statura - dovuta a una forma di ipoevolutismo staturale moderato -,  dell'armonia delle membra, della sua agilità e della sua bellezza.
 Nonostante, crescendo, Marco raggiunga poi una statura perfettamente normale - grazie anche a una cura ormonale a cui suo padre Probo ha convinto la moglie a sottoporlo -, l'antico soprannome continua ad attagliarsi alla perfezione al suo modo di essere per via delle qualità che egli mostra nel corso della sua vita costellata di eventi traumatici che lo mettono alla prova e che egli riesce ad affrontare con mirabile fermezza e con assoluta fedeltà alla sua storia e ai suoi affetti di sempre: la scomparsa della sorella Irene, morta suicida nel mare del lido davanti a Bolgheri nel 1981; la dissoluzione, in seguito a quel tragico evento, della sua famiglia, già minata da un'incompatibilità di fondo da sempre esistente tra la madre, l'inquieta Letizia, architetto, e il padre, il riservato Probo, ingegnere; la tempestosa separazione dalla moglie Marina, affetta da gravi turbe psichiche, nel 1999; lo sviluppo soffocato dell'irrisolta relazione, piena di segreti, di strappi, di ricongiungimenti, con Luisa Lattes, il suo primo e forse unico vero amore; la "fuga" negli Stati Uniti del fratello minore Giacomo, ben determinato a tagliare i ponti con la sua famiglia d'origine; la morte, nel giro di pochi mesi, di Probo e Letizia nel 2005; l'imprevista gravidanza della figlia Adele, a soli vent'anni, nel 2010; la morte straziante della stessa Adele nel 2012 per lo spezzarsi di una corda difettosa durante un'arrampicata in falesia.
 Al cospetto di questa sequenza di traumi sembra che Marco utilizzi tutte le sue forze per non farsi spazzare via dal destino, per non perdere nulla per strada, per conservare nel suo percorso esistenziale una coerenza che gli consenta di preservare in qualche modo - magari anche solo nella memoria - tutti i legami che la vita gli ha consentito di creare, di portarseli dietro, di nutrirsene consapevolmente e di giovarsene psicologicamente anche quando le circostanze li hanno portati a un naturale esaurimento, o la morte li ha semplicemente estinti.    

Sandro Veronesi

 Proprio come il volo di un colibrì, il flusso narrativo procede a scarti, per spostamenti fulminei, con fughe in avanti e ritorni al passato, in un continuo andirivieni temporale attraverso il quale sembra tessersi la tela del racconto di una vita intera vissuta, rammemorata, raccontata.
 La comunicazione al lettore, nelle sue continue evoluzioni e nei suoi cambi di direzione, utilizza gli strumenti più disparati: dalla più tradizionale voce narrante esterna alle missive "ottocentesche" che Marco e Luisa Lattes continuano a scambiarsi per gran parte della loro esistenza, dai messaggi whatsapp alla pedissequa registrazione delle conversazioni telefoniche che intercorrono tra il protagonista e il dottor Carradori, dalle email - sempre senza risposta - che Marco invia al fratello Giacomo in America alle liste di oggetti appartenuti ai loro genitori incluse nell'inventario di quanto rimasto nella vecchia casa della famiglia Carrera in Piazza Savonarola.
 L'ultima parte del testo contempla addirittura una proiezione nel futuro: il tempo della storia, infatti, arriva fino all'anno 2030 quando Marco Carrera, ormai settantenne e affetto da un tumore al pancreas, decide di anticipare la sua fine con un aiuto farmacologico circondato da tutti coloro che in vita ha amato, come il protagonista del film Le invasioni barbariche, che viene esplicitamente citato.
 A riunire l'ex moglie Marina, la figliastra Greta, il fratello Giacomo e Luisa Lattes è stata la nipote Miraijin, la figlia di Adele, il simbolo della speranza di una possibile rigenerazione dell'umanità di là da venire.
 Il libro, a mio avviso, è intrigante ma sa un po' troppo di laboratorio; sembra uno di quei romanzi che non nascono "di necessità", ma vengono costruiti per titillare i gusti del pubblico dei lettori "forti".
 In questa prospettiva, uno scrittore colto come Veronesi integra nel corpo del testo diverse citazioni di libri, film, opere d'arte o canzoni d'autore non banali, ma abbastanza facilmente decifrabili (tipica quella de La patente di Pirandello), e si compiace di impreziosire talvolta il suo lessico - mediamente palatabile - con alcuni termini decisamente peregrini (mi vengono in mente crissare, iamatologia, estrusione ad esempio) che, insieme al complesso trattamento dei meccanismi spazio-temporali, innescano una torsione letteraria sicuramente suggestiva, ma che poco aggiunge alla sostanza del testo.
 La spensierata prolessi dei capitoli che parlano della crescita di Miraijin e degli ultimi anni di Marco Carrera, poi, rappresenta un espediente un po' troppo facile per chiudere il cerchio della vicenda narrativa nel segno del colibrì, non all'altezza del carattere sofisticato di tutto il congegno romanzesco.
 Fra gli aspetti molto convincenti del libro, invece, vi sono i personaggi di Probo e Letizia Carrera - lui ingegnere appassionato di modellismo e di romanzi di fantascienza, disperatamente innamorato di una moglie che non lo ama, lei architetto d'avanguardia e abile fotografa, persa dietro i suoi innumerevoli amanti, prigioniera della psicoanalisi e di un malessere senza sbocchi - e, in generale, i dialoghi, impostati con disinvoltura e plasmati con efficacia.
 In conclusione: si tratta di una piacevole lettura ma, considerando gli elogi e le segnalazioni che ha ricevuto da più parti Il colibrì, mi aspettavo decisamente di più.

Voto: 6 +

domenica 14 giugno 2020

Remo Rapino, "Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio", Minimum Fax


 Mi sembra che i modelli principali e gli antecedenti diretti nell'ambito della letteratura italiana di questo singolare romanzo di Remo Rapino siano due testi diversi, ma entrambi piuttosto importanti: Memoriale di Paolo Volponi e Terra matta di Vincenzo Rabito. 
 Il primo è il capolavoro della cosiddetta "letteratura industriale" e mette in scena un giovane operaio affetto da una severa psicosi, le cui condizioni mentali e fisiche sono aggravate dalla logica inumana sottesa all'impostazione del lavoro in fabbrica - nel quale egli aveva sperato inizialmente di trovare in realtà un'occasione di rigenerazione personale. Il secondo è lo straordinario libro di memorie di un cantoniere siciliano semianalfabeta, che racconta la propria vita con rara genuinità narrativa e con una densità comunicativa tale da rendere la rovinosa ruvidezza grammaticale non un ostacolo alla comprensione, bensì un tratto stilistico caratterizzante che pone il libro al di fuori di qualsiasi canone accademico o antiaccademico.
 Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio mutua da Volponi la critica radicale al modello sociale e produttivo sulla base del quale l'Italia si è sviluppata a partire dal secondo dopoguerra, portata attraverso il punto di vista, stravagante ma a suo modo acutissimo, di un "diverso", di uno spostato, di un eccentrico, di un isolato reso più sensibile proprio dalla sua solitudine e dalla sua eccentricità; di Terra matta, invece, fa propria l'indole picaresca della storia del protagonista e l'umiltà della sua voce, impastata di dialettismi e irta di solecismi, ma eccezionalmente espressiva, quasi espressionistica (resa tale, nel caso di Rabito, dal carattere grezzo della competenza linguistica dello scrittore, mentre per il colto Rapino si tratta di una precisa scelta formale).
 Liborio Bonfiglio, il protagonista-narratore del romanzo, viene al mondo nel 1926 in Abruzzo, in una imprecisata località tra la Majella e il mare. Al momento della sua nascita, la madre non viene assistita né dalla levatrice né dal medico, impegnato in una partita a carte nel circolo ricreativo comunale: è questo il primo dei numerosi "segni neri", i presagi di sfortuna che costelleranno la sua esistenza.
 Del resto, fin dall'inizio del suo percorso, Liborio non può contare sul supporto e sulla rassicurante presenza di un padre: il suo è partito da emigrante per l'America con la moglie incinta, e non farà più sapere nulla di sé. Pare che avesse gli stessi occhi del figlio, ma il protagonista non sarà mai in grado di appurarlo.
 Il bambino cresce così con accanto soltanto la madre e il nonno Peppe, un vecchio muratore socialista, seguace convinto di Pietro Nenni e fieramente antifascista, che però muore tragicamente cadendo da un'impalcatura. Invece la mamma, che per mantenersi fa le pulizie in casa d'altri, si ammala presto di tisi, e Liborio fa appena in tempo a finire le scuole elementari (durante le quali si dimostra uno studente curioso, diligente e di buon profitto, grazie anche agli incoraggiamenti del maestro Romeo Cianfarra, che rimarrà per il protagonista un ideale e quasi mitico punto di riferimento) e a trovare un lavoro presso un fabbricante di funi - che lo sfrutta e lo maltratta ma gli permette di mantenersi autonomamente -, prima di vedere spegnersi anche lei.
 Rimasto solo, Liborio lascia il fabbricante di funi e s'inventa garzone presso la bottega di barbiere di mastro Girolamo De Angelis, imparando a poco a poco un mestiere che gli piace. Rimane con mastro Girolamo anche dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, fino all'8 settembre e all'inizio dell'occupazione tedesca, quando la bottega chiude.  

 Remo Rapino

 Passato indenne attraverso le atrocità dell'ultima parte della guerra, durante la quale il giovane Bonfiglio parteggia con tutto se stesso per i giovani partigiani che cadono sotto i colpi dei nazisti, pur senza trovare modo di unirsi a loro, con il dopoguerra Liborio entra nell'età adulta, conosce l'amore con la bella Teresa Giordani (anzi, Giordani Teresa, come quasi burocraticamente la designa la voce narrante) - che però, dopo averlo illuso, sposa un altro più ricco di lui - e inizia le sue avventurose peregrinazioni su e giù per l'Italia. 
 A portarlo lontano è, prima, il servizio militare (prestato a Tauriano di Spilimbergo), poi la necessità di sostentarsi, che lo conduce nella Milano del boom economico, dove trova lavoro alla Borletti (famosa allora per la produzione delle macchine per cucire). Inserito in catena di montaggio (dove, fra l'altro, nella finzione narrativa, conosce anche Giorgio Scerbanenco, non ancora giallista famoso), Liborio non riesce ad adattarsi ai ritmi innaturali del lavoro, ai rumori assordanti, all'ambiente malsano, e sperimenta le prime manifestazioni di un disagio mentale che gli impedisce di continuare a fare l'operaio. 
 Si tratta in realtà non di un addio ma di un arrivederci alla fabbrica, perché il protagonista, trascinato dalla sorte in Emilia Romagna, si mette in un primo momento a fare il bracciante a Bagnocavallo (dove risiede un suo ex commilitone prostrato dalla sifilide, contratta durante le sue abituali scorribande nelle case di tolleranza), poi, trasferitosi a Bologna, entra alla Santa Rosa, fabbrica di confetture alla frutta. Nel mutato clima politico degli anni sessanta e settanta, Liborio si avvicina agli ambienti dell'estremismo militante di sinistra, con gli esponenti del quale, pur senza mai acquisire una vera coscienza di classe, sente una vaga affinità e intuisce una comunanza di interessi. Decisivo, in questo senso, sarà anche il suo ingresso alla Ducati di Borgo Panigale, in qualità di operaio specializzato.
 La Ducati diventa teatro di un'altra delle svolte della sua esistenza: colpito nel profondo dall'incidente occorso a un collega di lavoro, che ha perso un braccio sotto una pressa, tormentato dall'esigenza di rispettare tempi di lavoro sempre più serrati, rigorosamente scanditi dai cronometristi, Liborio finisce per aggredire e picchiare a sangue un caporeparto particolarmente oppressivo. Licenziato, arrestato e trascinato in tribunale, viene giudicato incapace di intendere e di volere, e rinchiuso in un ospedale psichiatrico a Imola.
 In manicomio avvengono altri due incontri decisivi per la vita del protagonista: quello con Alvise Mattolini, lo psichiatra che lo prende in cura e riconosce la sua schiettezza e la sua dolcezza di fondo, e quello con Teresa Balugani, una giovane paziente di cui Liborio si innamora ma che, affetta da una forma grave di depressione, si suicida gettandosi nel vuoto dall'ultimo piano dell'ospedale, prima che la loro relazione possa prendere davvero quota: un altro dei "segni neri" che inchiodano Liborio alla sua eterna infelicità.
 Dal manicomio l'ex operaio esce ormai sessantenne: non gli resta, a quel punto, che fare ritorno al paese natale per vivere, nella sua vecchia casa, della modesta pensione che ha maturato. Lì, sempre più solo, sempre più svagato, sempre più eccentrico - oggetto dello scherno dei ragazzi del posto -, Liborio diventa noto a tutti come cocciamatte, "testa pazza", gira per le strade con le tasche piene di sassi per non farsi trascinare via dal vento, legge e rilegge l'unico libro che abbia mai posseduto, Cuore di Edmondo De Amicis, si nutre della contemplazione della natura e di immaginarie visioni popolate di tutti coloro che ha incrociato durante la sua lunga esistenza e che hanno contato qualcosa per lui. 
 Giunto oltre gli ottant'anni, a ridosso della contemporaneità, il nostro protagonista-narratore comincerà a raccontare la sua storia turbolenta e commovente: ciò che rimarrà di lui dopo la sua morte, arrivata infine nel 2010.
 Il romanzo è bello, ma il lettore odierno è poco abituato ad avere a che fare con libri di matrice sperimentale come questo; e all'inizio, invero, la lettura può risultare piuttosto faticosa, fra l'idioma semi dialettale del narratore, la quasi totale assenza di punteggiatura, le frequenti sgrammaticature che sono parte integrante dell'impasto linguistico ideato da Remo Rapino. 
 Tuttavia, dopo che ci si è abituati a questo stile e al passo narrativo impetuoso, quasi torrentizio di queste pagine, la voce gentile di Liborio Bonfiglio e la sua storia riescono davvero a conquistare e a far innamorare di sé; e poi bisogna riconoscere che il protagonista risulta assolutamente memorabile nell'ambito della nostra letteratura recente. 
 Insomma, siamo di fronte a un libro che merita di essere letto e valorizzato più di tanti testi modellati sui gusti attuali del pubblico, e perciò sicuramente accattivanti, ma certo meno originali e autentici di questo.

Voto: 7  

domenica 7 giugno 2020

Pier Antonio Quarantotti Gambini, "L'onda dell'incrociatore", Mondadori


 Torno oggi a occuparmi di un classico del Novecento, L'onda dell'incrociatore di Pier Antonio Quarantotti Gambini, romanzo del 1947 recentemente riedito da Mondadori nella collana degli Oscar moderni. Per tematiche trattate e sensibilità di fondo il libro ricorda in qualche modo Agostino di Alberto Moravia: al di là della differente ambientazione, il racconto dello scrittore romano è giocato forse su atmosfere più intime e su una rappresentazione più limpida, raffinata e profonda dell'affettività preadolescenziale, quello dell'autore istriano è narrativamente più vivace e riesce a mettere in scena una dialettica emozionale più tesa e inquieta. L'uno è l'altro sono consapevolmente costruiti su logiche psicanalitiche.
 Il protagonista della storia raccontata è Ario, un ragazzino che vive in una casa galleggiate nel mandracchio (una piccola darsena che si allunga a ridosso di un molo secondario) del porto di Trieste insieme alla madre, che si occupa del ricovero e della cura dei natanti da diporto per conto del locale circolo velico. Il padre ha abbandonato la famiglia tempo prima, partendo per l'America con la scusa di accompagnare un atleta alle "regate di San Francisco", e da allora non ha più fatto sapere nulla di sé.
 Nella casa che sorge sul pontone gemello di quello del circolo velico - sede del circolo vogatori - vivono Berto e Lidia, pressoché coetanei di Ario, con i loro genitori; Berto e Lidia, per la verità, sono fratellastri, perché la ragazza è nata da una relazione prematrimoniale della madre di Berto con un uomo diverso da suo marito.
 Ario, Lidia e Berto sono praticamente cresciuti insieme: hanno passato tutta l'infanzia dentro il mandracchio, dividendosi fra l'aiuto ai loro genitori nella gestione delle canottiere (per cui hanno imparato a ricoverare e lucidare gli skiff, sistemare i remi sulle rastrelliere, raccogliere e arrotolare fiocchi e vele, accatastare cordami e pezzi di pagliolo, assicurare le imbarcazioni ai gavitelli, ecc.) e le libere e avventurose scorribande in tutta l'area del porto. Con il caicio, una piccola barca a remi, i tre ragazzi si sono sempre mossi con agilità fra trabaccoli, bragozzi, maone e rimorchiatori, i velieri che scaricano sabbia o legname e le chiatte che trasportano il carbone destinato ad alimentare le caldaie delle imbarcazioni più grandi; sono abituati a correre sui moli - dove giungono i binari ferroviari che permettono ai vagoni di trasportare fin sotto le murate delle navi i carichi destinati a lunghi viaggi per mare - e a nascondersi sul ponte degli scafi in disarmo.
 Lì hanno inventato tutti i loro giochi e concepito tutti i loro sogni per l'avvenire; lì, diventando grandi, hanno conosciuto i loro primi brividi erotici, con Lidia che, con naturale sfrontatezza, si alzava la gonna di fronte ai due compagni, o accettava di spogliarsi nuda "per penitenza" e di distendersi sul ponte rovente di un natante attraccato in un angolo appartato del porto.
 Finché, a sconvolgere la vita dei tre amici, non è arrivata l'adolescenza con tutte le complicazioni personali e relazionali dovute a un modo più articolato di interagire con il mondo. A rompere l'armonia che fino ad allora aveva regnato fra i ragazzi del mandracchio ha contribuito la comparsa al circolo vogatori di Eneo, un giovane atleta dal fisico eccezionale che promette di diventare un campione di canottaggio.
 Eneo, in effetti, nonostante le sue indubbie qualità non si allena con la determinazione che un aspirante professionista dovrebbe avere, un po' perché - non essendo di estrazione borghese - è costretto a lavorare duramente come fuochista sui rimorchiatori che prestano servizio nel porto, un po' perché ama troppo le donne e la bella vita, e vede nello sport solo un facile mezzo di promozione sociale e un possibile passaporto per entrare nel bel mondo.

Pier Antonio Quarantotti Gambini

  La sola presenza del giovane, con il suo vigore muscolare e l'aura di predestinato che lo circonda, però, riescono a gettare scompiglio nell'universo di Ario. Non solo, infatti, sua madre - che da qualche tempo, per lo sgomento del figlio, ha ricominciato a frequentare le taverne dei marinai e, di tanto in tanto, di notte si porta un uomo nello stanzone in cui dorme - diventa l'amante di Eneo; ma anche Lidia, in segreto, comincia ad accompagnarsi all'aitante vogatore.
 Ario, nella sua ingenuità, non lo capisce subito: per lui Lidia è la stessa ragazza che per anni è stata sua compagna di giochi, ed egli fatica persino a realizzare di esserne innamorato. E' Berto - che, a sua volta, è acceso da una torbida attrazione nei confronti della sorellastra - a raccontargli la verità: Lidia ha concesso a Eneo tutto quello che poteva concedergli; e questo non perché abbia perso la testa per lui, ma per pura lascivia, dato che, mentre Eneo era impegnato nella sua sfortunata spedizione a Napoli per i campionati italiani di canottaggio, la ragazza non si è peritata di mettergli le corna con altri giovani marinai.
 Ario è sconvolto dalla rivelazione al punto da tale da essere sommerso e accecato da una tempesta di sentimenti contrastanti: l'umiliazione cocente per essere stato trattato da Lidia alla stregua di un ragazzino, il risentimento impotente verso Eneo, l'odio, il disprezzo e il dolore concepiti vedendo la madre lottare per i favori del maschio con una donna molto più giovane di lei, un cupo e masochistico bisogno di complicità con Berto, la gelosia - tanto forte da arrivare a stordirlo - nei confronti di tutti loro, la voglia di scappare lontano da casa (come un tempo ha fatto suo padre), un insopprimibile desiderio di rivalsa su chiunque unito a un senso di assoluta solitudine.
 Il modo di prendersi una rivincita glielo suggerisce proprio Berto, presentandoglielo come uno scherzo un po' forte, proprio nel giorno in cui gli incrociatori della Regia Marina arrivano in porto trasportando i reduci della guerra d'Etiopia, acclamati dalla folla dopo la conclusione vittoriosa del conflitto. Dato che ogni sera, al tramonto, Lidia ed Eneo si rifugiano a fare l'amore nella cabina della maona, una zattera ormeggiata poco lontano dai loro pontoni e caricata ogni pomeriggio col carbone destinato a rifornire i natanti in partenza all'alba del giorno successivo, perché non praticare con un trapano tre fori nello scafo dell'imbarcazione ancora vuota, chiuderli con dei tappi di sughero e, sul far della sera, dopo che la zattera è stata riempita del suo carico e la linea di galleggiamento si è abbassata, tornare a togliere i tappi allagando la cabina diventata nel frattempo un'alcova per i due amanti, così da costringerli a uscire nudi sul molo e da svergognarli davanti a tutti?
 Ario fa sua l'idea dell'amico e si impegna a fondo nella sua realizzazione per rifarsi aspramente delle delusioni patite; ma lo scherzo gli sfuggirà di mano e finirà in tragedia, perché la maona, occupata in realtà non da Lidia ed Eneo, ma da qualcun altro, appesantita dall'acqua filtrata all'interno della cabina dopo la rimozione dei tappi, sarà travolta e rapidamente affondata dalla grande onda sollevata dagli incrociatori in uscita dal porto dopo la giornata di festa.
 Il libro è strutturalmente e stilisticamente equilibratissimo: 22 capitoli, una grande fluidità narrativa, la scena d'apertura che fotografa l'ingresso in porto degli incrociatori da battaglia la mattina, e poi un lungo flashback che, occupando tutta la giornata, ricostruisce la storia dell'amicizia di Ario, Berto e Livia e dei difficili rapporti tra Ario e sua madre, per tornare infine al presente con lo scherzo dall'esito drammatico che ha luogo in concomitanza con l'uscita degli incrociatori dal porto sul far della sera.
 L'utilizzo frequente di un gergo specificamente marinaresco, ricco di termini peregrini (almeno per me) crea atmosfera e aggiunge fascino alla scrittura; ma ciò che risulta più interessante è il contrasto tra l'equilibrio formale di cui si è parlato e l'intensità amara che, nella prospettiva di Ario assumono eventi in sé e per sé non eccezionali, fino al terribile incidente finale. E' come se una scossa di corrente percorresse tutto il libro trasmettendosi al lettore. E' un romanzo, questo, che meriterebbe di essere frequentato di più anche in ambito scolastico.

Voto: 7,5