venerdì 29 luglio 2022

Claudio Piersanti, "Quel maledetto Vronskij", Rizzoli

 

 La gelosia altro non è, in fondo, che timore di vedere intimamente lacerata la propria identità; in questo senso la sua parentela con la paura della morte è strettissima. 
 Se ne rende conto, nella sua avventura coniugale con la splendida moglie Giulia, Giovanni, un piccolo tipografo di Milano, non particolarmente colto, non particolarmente intraprendente, non particolarmente brillante, e tuttavia sensibilissimo al cospetto dei sentimenti e dei turbamenti della donna, che ama teneramente e con la quale vorrebbe vivere quasi in simbiosi.
 Ma Giulia è stata malata, forse lo è ancora, e la malattia ha depositato dentro di lei aridità, solitudine e un senso di disperazione difficile da fronteggiare. 
 Una sera, tornado a casa dal suo laboratorio, Giovanni trova nella cucina della propria casa un biglietto con cui Giulia lo lascia e gli intima di non cercarla. Il pover'uomo si interroga su quella decisione inattesa senza riuscire a spiegarsela: che cosa l'ha spinta a questo passo? Il suo sguardo corre sugli scaffali della libreria della moglie, lettrice molto più solida e costante di lui, fino a cadere su un volume decisamente ponderoso, che le ha visto spesso fra le mani e che certamente ella amava:  Anna Karenina di Lev Tolstoj.
 Giovanni non ha mai letto il romanzo, ma ora pensa che proprio lì dentro ci possa essere il motivo segreto dell'abbandono che ha subito. Comincia allora a compulsarlo furiosamente, e poi a leggerene interi brani, entrandone a poco a poco nella trama; si sofferma in particolare sul personaggio di Vronskij, colui che porta via Anna a suo marito, e che egli vede come un fatuo bellimbusto indegno di stima.
 Ecco allora farsi strada in lui un'idea insidiosa e prepotente: Giulia gli è stata portata via da qualcuno capace di essere più attraente ai suoi occhi di quanto egli non sia mai stato; con ogni probabilità un volgare seduttore, ma armato di un fascino di cui Giovanni è totalmente sprovvisto. Vronskij assume a poco a poco nella mente di Giovanni una fisionomia mostruosa: è colui che, macchiatosi di ogni nefandezza, ha conquistato con l'inganno la sua donna, e ora la possiede furiosamente; Vronskij ride alle sue spalle; Vronskij è il nemico giurato che egli non sapeva di avere, ma che ha sempre tramato alle sue spalle.
 L'ossessione di Giovanni si sublima infine in un'impresa che ha a che fare con la sua abilità professionale: egli preparerà un'edizione preziosa di Anna Karenina in onore di Giulia perduta, ripercorrendo il testo parola per parola, in maniera tale che il rovello della gelosia scavi in profondità in lui fino a portare alla luce le sue colpe nascoste nei confronti della moglie.
 L'umore di Giovanni si fa sempre più cupo, anche in considerazione del fatto che gli amici gli riportano la notizia che Giulia è in città, sta bene, conduce una vita lontana da lui ma, evidentemente, non ha nessuna intenzione di rivederlo.
 Anche le donne che chi gli è più vicino tenta di presentagli non lo interessano; il pensidero di Giulia perduta lo occupa tutto e, sotto la superficie tranquilla della sua consueta urbanità, lo sconvolge completamente.
 
Claudio Piersanti
 
 
 Il fatto è che Giulia non si è allontanata per amore di un altro uomo; si è allontanata invece per paura di essere ghermita dalla morte, per timore della malattia che crede di continuare a covare in lei. In realtà voleva uccidersi, per far soffrire meno il suo Giovanni: aveva organizzato tutto, ma non ha avuto il coraggio di gettarsi sotto un treno, come la protagonista del romanzo di Tolstoj.
 Quando torna, molti mesi dopo la sua partenza da casa, confessa al marito la sua disperata debolezza, gli chiede di riprenderla con sé e dichiara la propria inermità di fronte alla morte. E Vronskij, lo spettro di Vronskij non scompare dalla vita dei due coniugi; si trasforma invece nell'ombra della morte, sempre incombente e minacciosa, sempre furtivamente presente come infausta ipotesi, tragica opzione futura.
 Molti anni vivranno ancora insieme Giovanni e Giulia, in armonia quasi perfetta, in invidiabile confidenza, in assoluto accordo.
 Eppure Vronskij, il maledetto Vronskij, alla fine inesorabilmente arriverà, a ghermire la preda che gli spetta di diritto, a spazzare via ogni traccia di felicità, che di sicuro c'è stata, ma che allora sembra poco più di un'illusione.
 Il mal d'amore per eccellenza, l'orrida gelosia, si trasforma così - tragicamente - in mal di morte, in invidia per l'eterno e per la letizia inscalfibile degli dei.
 Il libro, tutto impostato su uno stile narrativo pacato e su ritmi morbidi e isocroni, è decisamente bello; la sua linearità non impedisce di leggerlo con piacere e insieme con emozione. E poi, la trovata di trasfigurare un famosissimo e sommamente ambiguo personaggio letterario, trasformandolo nell'emblema di tutte le nostre peggiori paure, a mio parere, è strepitosa.
 
In poche patrole: il libro si basa sulla trovata strepitosa di trasfigurare uno dei personaggi letterari più conosciuti e dalla fama più dubbia, il Vronskij di Anna Karenina, trasformandolo nell'emblema di tutte le nostre peggiori paure. In fondo, la gelosia che all'azione di un personaggio come Vronskij è indissolubilmente legata, altro non è che il timore di vedere lacerata in modo irrimediabile la nostra identità; e non è questo che più ci spaventa, nella morte?
 
Voto: 7

sabato 9 luglio 2022

Veronica Raimo, "Niente di vero", Einaudi


 "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
 Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
 L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. Veronica (Verika per la madre, Oca per il padre, Veronika per se stessa quando sogna di diventare una rockstar) è una ragazza nata nel 1978, che cresce insieme ai genitori (madre insegnate, padre dirigente d'azienda) e al dotatissimo fratello maggiore in un appartamento non troppo grande nel quartiere romano di Rebibbia. 
 Nell'intento di permettere a ciascuno dei componenti del nucleo familiare di conservare la propria autonomia e di salvaguardare la propria privacy, il padre suddivide con dei tramezzi in cartongesso l'appartamento in una serie di microscopici stanzini, che trasformano la casa in una sorta di alveare dalle cui cellette è possibile origliare le pseudo-solitudini degli altri, interiorizzarne le nevrosi, abituarsi alle loro idiosincrasie. L'appantamento parcellizzato diventa un po' il simbolo dell'angustia delle relazioni familiari di Veronica: quella con la madre Francesca ansiosa e leggermente sessuofobica, ossessionata dai figli non avuti, capace di telefonare sempre nel momento meno opportuno; quella con il padre premuroso e collerico insieme, patofobico e malato di lavoro, famoso per la sua espressione deprecativa "siamo arrivati al paradosso"; quella con il fratello devoto e prodigiosamente intelligente, destinato a diventare un politico e uno scrittore.
 Lo stile con cui vengono ricostruiti numerosi episodi dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, e alcuni snodi essenziali della vita della protagonista è contemporaneamente analitico e svagato, divagante e capzioso: si può passare dalle visite in Puglia a nonna Muccia alla scoperta del sesso, dalla morte del padre alla carriera scolastica di Veronica, dalle sue avventure con la storica amica Cecilia al sentimento religioso da cui vengono conquistati il fratello o il suo ex fidanzato.
 
Veronica Raimo
 
 Ciò che a poco a poco emerge con nettezza, però, è innanzitutto l'impossibilità di fissare quello che effettivamente è stato con assoluta certezza. Emblema di questo assioma è la constatazione che il falso diario concepito da ragazzina da Veronica per ingannare e tranquillizare sua madre (che - ella sapeva - di certo l'avrebbe letto di nascosto) sembra, riletto con gli occhi di oggi, più che plausibile: perfettamente, addirittura sentimentalmente attendibile.
 L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino. Al contrario, mi sembra che si ostenti una sorta di compiaciuta eccentricità, un soslipsismo estetizzante, che evidentemente si ritiene possa nobilitare il sostanziale disinteresse per punti di vista diversi dal nostro. Certe sinuosità stilistiche, certe ricercate immagini, così, più che impreziosire il dettato acuendo la sua acribia analitica, finiscono per esaltarne la piega narcisistica. Temo che tutto questo configuri un modo di apparire alternativi e anticonformisti un po' troppo a buon mercato.
 
In poche parole: "Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti" afferma la voce narrante di questo strano romanzo autobiografico nell'ultima pagina del libro. Sicuramente è così: la lettera del testo, infatti, consta di una meticolosa, costante - e solo a tratti autoironica - negazione di quella fiducia nell'efficacia comunicativa della parola e nell'affidabilità della memoria da cui, in teoria, non può che partire la decisione di affidare alle stampe i propri personalissimi ricordi. 
Ogni aneddoto e ogni morale che si pretende di trarne, in questo modo, subiscono uno scarto e una sfocatura che lasciano il dubbio che tutto venga rievocato con imponderabile approssimazione o, addirittura, inventato di sana pianta, e creano nel lettore la frustrazione data dall'inafferrabilità del dato reale.
L'operazione appare tanto più spiazzante in quanto negli argomenti del libro sono riconoscibili le radici essenziali di ogni discorso identitario: la famiglia, la scuola, gli anni d'infanzia, gli amici, gli amori. 
L'elaborazione di questa analisi pessimistica della fenomenologia del ricordo, della sua sedimentazione emotiva e del suo recupero appare estremamente interessante; quello che, però, personalmente mi lascia perplesso è il fatto che essa venga perseguita senza il benché minimo interesse per il tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità di ciò che è stato, così da costituire un terreno comune sul quale provare quantomeno a confrontarsi sulla percezione del passato con chi ci sta vicino.

Voto: 6,5