domenica 25 aprile 2021

Beppe Fenoglio, "Il partigiano Johnny", Einaudi

 

 L'unico momento veramente epico della storia dell'Italia novecentesca è senza dubbio quello in cui si esplicarono le gesta della Resistenza ed è risaputo come Beppe Fenoglio sia di gran lunga il suo miglior cantore. Quest'anno ho deciso di celebrare il 25 aprile - settantaseiesimo anniversario della Liberazione - con una rilettura personale del suo libro più importante, Il partigiano Johnny.
 Che la vicenda editoriale di questo romanzo (che costituisce in larga parte una trasposizione letteraria di vicende vissute in prima persona dall'autore durante i suoi anni partigiani) sia particolarmente complessa e ponga problemi filologici delicatissimi è cosa nota: l'opera fu infatti lasciata inedita e incompiuta da Fenoglio alla sua morte; del libro esistono due diverse stesure che presentano una difforme scansione interna, notevoli differenze linguistiche, rilevanti discrepanze contenutistiche e, soprattutto, due finali diversi; l'edizione che da vent'anni a questa parte è data alle stampe, a cura di Dante Isella, unisce la prima e la seconda redazione, effettuando scelte filologicamente motivate con lo scopo di conferire coerenza, continuità e leggibilità al testo.
 Tutto ciò non impedisce al Partigiano Johnny di essere uno dei romanzi migliori del nostro Novecento, esattamente come analoghe criticità non impediscono all'Eneide - opera anch'essa incompiuta, a tratti ambigua, contraddittoria e pubblicata contro la volontà del suo autore e al di fuori del suo controllo - di essere uno dei capisaldi della cultura classica.
 Peraltro il suggestivo parallelo con l'Eneide appare pertinente sotto così tanti aspetti da far nascere la tentazione di lasciarsene prendere la mano: come Enea, Johnny è un eroe che non perde mai la sua umanità e che, anche nell'asprezza della battaglia, conserva la capacità di identificarsi nel nemico; sebbene il suo antifascismo e la sua scelta di aderire alla lotta partigiana siano radicali, Johnny non si presenta mai come un fanatico, un invasato, ed è sempre in grado di cogliere i limiti e i difetti dei partigiani stessi, esattamente come l'Enea virgiliano riesce sempre a presentarsi come un esempio di equilibrio, di lealtà e di moderazione; la descrizione della folle corsa di Johnny e dei suoi compagni attraverso le macchie boschive, le salite, le discese, i canaloni, i rittani, le creste delle Langhe per sfuggire al grande rastrellamento nazifascista del "preinverno" 1944 possiede lo stesso altissimo tenore emotivo della rocambolesca fuga di Enea dalla città di Troia in fiamme, descritta nel secondo libro del poema virgiliano; talvolta persino l'adesione degli elementi naturali alle vicende dei personaggi sembra autorizzare un accostamento tra le due opere ("Il sole tramontò, e fu enorme, abissale la sua perdita").
 Più che continuare a coltivare questa suggestione, però, mi piace qui individuare un paio di tratti distintivi che fanno del Partigiano Johnny un libro di fondamentale importanza e di vertiginosa bellezza nel panorama della letteratura italiana contemporanea.
 
Beppe Fenoglio in tenuta da calciatore
 
 Il primo è il paradosso del mito: Fenoglio nella sua rappresentazione non nasconde nulla. Nulla del tragico dilettantismo di molti partigiani; nulla della scoraggiante rozzezza di alcuni di loro (quando espone al comandante Nord la propria perplessità a proposito della decisione di prendere la città di Alba, Johnny si dimostra perfettamente consapevole del fatto che, sebbene i borghesi vedano i partigiani come arcangeli, questi non lo sono per nulla); nulla dell'opportunismo che serpeggia fra le loro file (molti di coloro che si arruolano fra i ribelli al momento della presa di Alba, si dileguano prontamente quando arriva il momento di difendere la città dalla controffensiva fascista); nulla dell'ambiguità e dell'incompetenza di alcuni comandanti (il commissario Nemega, che comanda il presidio di Mombarcaro durante la prima esperienza di Johnny in una formazione garibaldina durante l'inverno 1943-44, a dispetto della purezza ideologica che ostenta, si scopre avere dei precedenti come studente di "mistica fascista" a Torino; il capitano Marini, che comanda la piazza di Alba durante i 23 giorni della Repubblica partigiana nell'ottobre del 1944, sembra nascondere dietro l'imperturbabilità del suo luminoso sorriso una totale mancanza di acume strategico); nulla dell'irriducibilità a una mentalità e a un credo comuni del modo di pensare dei singoli membri delle varie formazioni partigiane (ogni divisione, ogni presidio, sembra incapace di coordinarsi con le altre formazioni di "ribelli"; partigiani rossi e azzurri coltivano una patente, reciproca avversione; all'interno degli stessi rossi e degli stessi azzurri è presente un'infinita varietà di posizioni ideologiche inconciliabili tra loro); nulla delle motivazioni spesso affatto personali che si mischiano con quelle ideali a spingere parecchi partigiani a gettarsi nella lotta o che li portano a operare dei distinguo anche nel campo fascista (il partigiano Kyra, che ha un fratello fra i repubblichini del presidio di Asti, trepida tutte le volte che un fascista catturato dai partigiani in missione viene portato alla fucilazione; Pierre stesso, grande amico e superiore diretto di Johnny, è fidanzato con una ragazza di Neive di famiglia fascista, "e anche lei è dell'idea"); nulla della crudeltà a cui l'asprezza dello scontro induce i partigiani nella fase più terribile della guerra (quando nasce l'esigenza di individuare e neutralizzare le spie che mettono a repentaglio la sicurezza dei ribelli sbandati sulle colline nell'inverno 1944-45, il comandante Nord ordina: "nel dubbio, sopprimete").
 Eppure, nonostante tutto questo,  al cospetto della viltà e della prepotenza fascista, la fermezza di chi si è impegnato a "dire di no fino in fondo", rischiando tutto - compresa la vita stessa - in un innegabile impeto di generosità trasfigura nel cielo del mito l'immagine del partigiano, di ogni partigiano, e dona i requisiti di una verità profonda (anche al di là del significato ad essa attribuito dal personaggio che la formula) alla frase pronunciata dal professor Cocito nella prima parte del libro, quando Johnny non è ancora salito sulle colline: "Partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità".
 Il secondo è un elemento squisitamente stilistico, ed è proprio di tutti i grandi libri: si tratta della perfetta integrazione tra forma e contenuto. Si è insistito anche troppo sull'invadenza di singoli termini e di frasi intere tratti dall'inglese nel romanzo di Fenoglio. A mio parere l'utilizzo dell'inglese, più che dalla cultura dell'autore e, di riflesso, del protagonista che costituisce il suo alter ego letterario, deriva dall'esigenza di forgiare una lingua nuova capace di descrivere il mondo che verrà e di dare conto del faticoso passaggio dalla vecchia alla nuova Italia. Non a caso, al di là dell'utilizzo frequente dell'inglese, notevoli in Fenoglio sono i neologismi (a volte derivati dalla cultura classica, a volte tratti dal dialetto, che è lo strumento espressivo del mondo contadino), una costruzione del tutto personale della frase e l'impiego massiccio di avverbi e sintagmi avverbiali volti a definire con la maggior precisione possibile ciò che non è facile definire.
 Mi sembra che questo stile venga forgiato in aperta opposizione tanto alla marcia retorica fascista quanto alle modalità espressive compostamente tradizionali caratterizzanti tutta una parte dell'intellettualità italiana che troppo tiepidamente o troppo tardivamente si era opposta al fascismo.
 Chiudo questo breve excursus  su un libro che meriterebbe pagine e pagine di riflessioni in maniera decisamente sentimentale: rievocando gli episodi del romanzo che più mi emozionano a rileggerli. 
 Ne citerò tre: il primo è quello della morte e del compianto sul corpo di Tito, il compagno dal volto "lombrosiano" di Johnny nella brigata garibaldina a cui si associa un po' per caso quando entra nei partigiani. 
 Il secondo è il ritorno di Johnny, sfinito e disperato, a Cascina di Langa, dopo essere sfuggito fortunosamente a un agguato fascista nel dicembre 1944 in cui crede siano caduti vittime Pierre ed Ettore, che invece trova riposati e sorridenti mentre accarezzano la cagna lupa della Cascina sul letto della padrona.
 Il terzo è il finale che oggi leggiamo nell'edizione del romanzo a cura di Dante Isella, in cui il racconto - condotto in terza persona ma dal punto di vista di Johnny - si interrompe bruscamente all'ennesimo crepitare del fucile semiautomatico che ha già abbattuto molti compagni del protagonista; al quale segue, semplicemete, la notazione didascalica: "Due mesi dopo la guerra era finita". Una breve frase neutra che riesce a racchiudere meglio di tante lamentazioni il senso del sacrificio estremo di moltissimi partigiani per un'Italia libera e antifascista che, nell'infuriare della lotta, sapevano bene che probabilmente non sarebbero riusciti a vedere; e nonostante questo continuavano a lottare. 
 "Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt", per tornare ancora una volta a Virgilio.
 
In poche parole: "Partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità". La frase riassume meglio di ogni altra il carattere mitico dello sfondo sul quale Beppe Fenoglio riesce a proiettare l'esperienza storica della Resistenza, senza tacere nessuno dei suoi limiti ed esaltando alla perfezione, in questo modo, l'indiscutibile grandezza dell'unico passaggio veramente epico del Novecento italiano. 
 
Voto: 9  

domenica 18 aprile 2021

Maria Grazia Calandrone, "Splendi come vita", Ponte alle Grazie


 Splendi come vita è uno dei libri più originali pubblicati in Italia negli ultimi tempi. Sebbene la sostanza del testo sia correntemente narrativa ed esso sia classificato come romanzo autobiografico, siamo di fronte a tutti gli effetti a un prosimetrum, vale a dire a una scrittura di natura ibrida, in cui gli a capo "inattesi" (così vengono definiti nella Nota dell'Editore posta in esergo) e le spaziature che rompono e scandiscono lo specchio della pagina isolano frasi o frammenti di frasi che pesano come veri e propri versi - e a volte addirittura come sequenze di versi.
 Del resto l'ibridismo non è qui soltanto un'evidenza tipografica, ma anche un dato di fatto stilistico: l'afflato lirico, incorporato nel racconto, è nello stesso tempo un approccio conoscitivo e un approdo espressivo, che consente di individuare e di dire verità che sfuggono al puro e semplice resoconto degli accadimenti.
 La storia narrata da Maria Grazia Calandrone è quella del complesso e tormentato rapporto con la propria madre adottiva, peraltro intensamente amata. L'autrice, figlia naturale di Lucia, una donna morta suicida nelle acque del Tevere per disperazione, dopo essere stata abbandonata dall'uomo per il quale aveva lasciato il marito - che l'aveva denunciata per concubinaggio -, fu adottata a soli otto mesi dalla bionda Consolazione, insegnante già vicina ai cinquant'anni ma bellissima e d'aspetto tale da dimostrare vent'anni di meno. 
 Moglie di Giacomo, eroe della guerra di Spagna nelle Brigate Internazionali, partigiano fra i garibaldini, dirigente del Partito Comunista Italiano e deputato al Parlamento nazionale, Consolazione non aveva avuto figli; l'arrivo nel 1965 di Maria Grazia innescò in lei un turbine di sentimenti che si tradussero presto in un eccesso di affetto e di trepidazione, in un frainteso senso di responsabilità che la portò fra l'altro a confessare alla bambina attonita, quando aveva solo quattro anni, di non essere la sua "vera madre".
 L'ansiosa dichiarazione non provocò nella piccola particolari scompensi, se non la nascita precoce di un atteggiamento protettivo nei confronti di Madre (così, con termine assoluto enfatizzato dalla maiuscola, viene sempre definita Consolazione nel romanzo), di cui Maria Grazia intuì oscuramente ma immediatamente la segreta debolezza, la paura tenuta a bada. Questo atteggiamento emotivo la accompagnerà lungo tutta l'infanzia e sarà ulteriormente acuito dalla morte precoce di Giacomo, nel 1975, con Maria Grazia appena undicenne.
 La costante apprensione di Madre e il traumatico evento che di fatto concluse la sua infanzia non impediscono alla protagonista-narratrice di ricordare con piacere i propri anni di bambina, rivissuti - come forse accade per tutti noi - attraverso episodi memorabili ed emblematici che, nel ricordo, appaiono circonfusi di un'aura quasi mitica, pur nella loro domesticità.
 
Maria Grazia Calandrone
 
 Più complicata risulta invece l'adolescenza della protagonista, durante la quale il rapporto con Consolazione, già reso difficoltoso dall'inquietudine mai veramente domata della donna e dal suo stato di vedovanza (abbracciato come un destino, tanto da portare Madre ad allontanare da sé senza troppi complimenti i diversi spasimanti che le ronzavano attorno), viene ulteriormente inasprito da quello che a poco a poco si paleserà come un profondo disagio psicologico sconfinante a tratti in una vera e propria patologia mentale.
 Da qui le esagerate reazioni a ogni piccolo contrasto, il tentativo di allontanare la figlia adottiva da amici e amiche ingiustamente e assurdamente ritenuti debosciati, la decisione di chiudere Maria Grazia in un collegio di suore e, più tardi - con la protagonista già giovane adulta -, le punizioni che fanno seguito alla più piccola infrazione nelle norme e degli orari stabiliti (un ritardo di pochi minuti poteva costare a Maria Grazia una notte intera chiusa fuori dalla porta di casa), l'accusa totalmente campata in aria di aver preso parte a una rapina a mano armata, la denuncia della figlia per percosse.
 E poi, con la definitiva crescita dell'una e l'invecchiamento dell'altra, l'approdo non già a una normalizzazione (che è la morte di ogni affetto autentico), bensì a una più profonda comprensione reciproca fra madre e figlia, in cui sfocia e si scioglie il groviglio di sentimenti - talvolta anche contrastanti - che ci legano alle persone in definitiva veramente amate.
 Fin qui i fatti che vengono ricostruiti. Come detto, però, più degli eventi narrati conta in questo libro l'espressione degli stati d'animo che quei momenti hanno reso reali. Così il racconto, tramato dello sforzo di mettere in ordine gli eventi a beneficio della tranquilla meticolosità dell'esposizione, si fa a tratti vibrante, scaldato dal rivivificarsi di emozioni un tempo turbinosamente attraversate e fatte proprie da Maria Grazia in tutta la loro pienezza. Come quando l'autrice parla di se stessa dodicenne che, nel 1976, si nasconde sotto il letto quasi a celarsi alla propria coscienza per paura di crescere. Il racconto dell'episodio viene coronato e compendiato da una massima intensamente lirica, la cui effusione trascolora anche graficamente nella poesia:
 
"Tempo, lasciami qui, in questa solitudine amante, in questo incondizionato
comprendere. Come maneggiare gli oggetti ipersensibili che vivono dentro i bambini?"
 
 Pare dunque che nella visione letteraria di Maria Grazia Calandrone la prosa sia il terreno del resoconto, della descrizione, dell'argomentazione; mentre le verità richiedono la poesia, le sue sospensioni, le sue enfatizzazioni:
 
"Vedo il tempo prezioso della vita di Madre
sprecato
a soffrire per niente. Ogni giorno, per niente, questo essere umano
non smette di morire sotto i miei occhi. Ogni giorno. Per anni. In molti
imprevedibili modi."
 
 Si procede in questo modo fino alle due liriche finali, che sigillano quello che personalmente sono restio a definire un romanzo, e che mi sembra possa essere piuttosto assimilato a una confessione, non certo nel senso religioso del termine, ma in un'accezione comunque a suo modo profondamente mistica. Ecco quindi alcuni dei versi più significativi della poesia finale:
 
"Davvero, Mamma, non sappiamo niente
e non siamo che corpo e non siamo
più in nessun luogo, dopo, probabilmente
 
e questo precipizio di parole
non è buono a rifare
neanche una molecola del tuo sorriso.
Era vivo, il tuo corpo, e lo guardavo
come si guarda la casa
distesa nella luce del tramonto e il colle
dove stiamo tornando.
 
Faticavo a raggiungerti, alla fine. Ma eri vita
accessibile, vita dovuta e vita che ho dovuto
lasciar andare. Addio, Mamma, Addio
           professoressa.
 
Senza difese, torni
vita che splende.
Senza difese, splendi come vita."
 
In poche parole: basato sul racconto del rapporto profondo e tormentato tra l'autrice e la sua madre adottiva, Splendi come vita è uno dei libri più originali pubblicati in Italia negli ultimi tempi. Sebbene la sostanza del testo sia correntemente narrativa ed esso sia classificato come romanzo autobiografico, siamo di fronte a tutti gli effetti a un prosimetrum, vale a dire a una scrittura di natura ibrida, in cui gli a capo "inattesi" (così vengono definiti nella Nota dell'Editore posta in esergo) e le spaziature che rompono e scandiscono lo specchio della pagina isolano frasi o frammenti di frasi che pesano come veri e propri versi - e a volte addirittura come sequenze di versi. 
Quasi che l'afflato lirico, incorporato nel racconto anche al di là dell'evidenza tipografica, sia uno strumento indispensabile per dire verità altrimenti inesprimibili, sfuggenti al puro e semplice resoconto degli eventi. 
 
Voto: 7,5  

domenica 11 aprile 2021

Anna Wiener, "La valle oscura", Adelphi


 Uncanny Valley di Anna Wiener (titolo tradotto in italiano in maniera approssimativa e a mio parere non del tutto efficace con La valle oscura) è un libro sofisticato e assai interessante. Anche se - come è stato fatto notare - le idee e le denunce che vi sono espresse non sono cosa nuova (sullo strapotere delle grandi aziende che controllano l'economia digitale e sul pericolo che tali conglomerati comportano per la sostanza della democrazia sono infatti usciti diversi saggi, e ultimamente questi temi sono entrati di prepotenza nel dibattito pubblico di tutti i Paesi occidentali), la rappresentazione di questi problemi in chiave narrativa è senz'altro originale: essa permette di descrivere le dinamiche del mondo che sta dietro l'espansione impetuosa del Web registratasi negli ultimi vent'anni, e i meccanismi che oggi di fatto lo governano senza incontrare limiti neppure nella giurisdizione e nelle istituzioni dei singoli Stati, con un'evidenza inattingibile a qualsiasi trattato teorico.
 Il testo si presenta come un memoir, anche se la sua organizzazione interna, le informazioni che corredano il racconto e le riflessioni che lo accompagnano portano a tratti ad accostarlo a una inchiesta giornalistica, a un corposo reportage; volendo ricorrere a una di quelle crasi che tanto piacciono agli americani potremmo parlare di "memotage". 
 La giovane protagonista-narratrice è inizialmente assistente in un'agenzia letteraria a Manhattan e collaboratrice esterna, come redattrice e correttrice di bozze, di un altro piccolo editore a New York: un lavoro, come spesso accade nel mondo dell'editoria - negli Stati Uniti come in Italia - che per una laureata in materie umanistiche si pretende sia quasi una vocazione, ma è tanto apparentemente prestigioso quanto patentemente precario e mal pagato. 
 Quando, a venticinque anni, si accorge che "il brivido voyeuristico di rispondere al telefono di qualcun altro" si è decisamente attenuato, che di spazio per crescere nel mondo della produzione libraria ce n'è davvero poco, e che continuare a contare sui propri genitori affinché integrino il magro stipendio percepito (che, in una città costosa come New York, se ne va quasi interamente per pagare l'affitto) è decisamente umiliante, Anna - quasi vergognandosi e senza confessarlo ai suoi amici - accetta di sperimentare un nuovo impiego nel settore delle nuove tecnologie immateriali.
 Dapprima si tratta di un ruolo poco definito in una piccola startup della costa atlantica, che ha sviluppato una applicazione di lettura per cellulari che dovrebbe consentire l'accesso a una sterminata biblioteca di e-book. Ma la app è ancora in fase sperimentale, la necessità di un profilo professionale come quello della protagonista non è ancora maturato nella piccola azienda, e Anna è presto costretta a cambiare di nuovo; ed è allora, nel 2013,  su suggerimento di uno degli ideatori dell'applicazione di lettura, che arriva il grande salto, con il trasferimento in California, a San Francisco, l'approdo in Silicon Valley, l'ingresso in una startup specializzata in analisi dei dati.
 E' un mondo totalmente nuovo quello che si dischiude davanti agli occhi curiosi della narratrice: giovanissimi imprenditori che hanno sviluppato progetti capaci di rastrellare in pochissimo tempo decine di milioni di euro di finanziamenti (spesso con la tecnica del crowdfunding), piccole aziende tecnologiche che, senza bisogno di promuovere i propri prodotti con specifiche iniziative di marketing, arrivano in pochissimo tempo a crescere tanto da poter ipotizzare di quotarsi in borsa attraverso una IPO, startup nate dal nulla che con impressionante rapidità arrivano ad aspirare realisticamente a diventare degli Unicorni (come vengono chiamate nel campo del Tech le società con oltre un miliardo di dollari di capitalizzazione), venture capitalists disposti ad investire cifre esorbitanti in aziende ancora allo stato embrionale.
 
Anna Wiener
 
 Non avendo specifiche competenze tecniche nel campo della programmazione, la protagonista viene destinata al servizio clienti; ma il solo fatto di essere nel novero dei primi dipendenti assunti da una startup in piena crescita le dà diritto a uno stipendio tre volte superiore a quello che percepiva a New York, l'accesso a tutta una serie di interessanti benefit (come l'opportunità di fruire di massaggi o di partecipare a sedute di yoga in ufficio), la possibilità di maturare una piccola parte delle future quote azionarie dell'azienda e il notevole vantaggio di poter lavorare in un ambiente molto più informale di quello dell'editoria, per di più con un orario d'ufficio assolutamente flessibile.
 E quando dalla startup di analisi dei dati Anna passa a un'altra assai più grande che si occupa di software open source, vengono addirittura aboliti l'orario di lavoro e il concetto stesso di ufficio: la protagonista può lavorare da casa propria oppure recarsi in un momento qualunque della giornata - o della notte - all'Headquarter, sistemandosi in una qualsiasi delle attrezzatissime scrivanie, in una delle sale a deprivazione sensoriale approntate per chi vuole lavorare senza essere disturbato, nel salotto che riproduce fedelmente lo Studio Ovale della Casa Bianca o nel bar interno che eroga gratuitamente ai dipendenti i suoi servizi.
 Sembrerebbe, da ogni punto di vista, una condizione ideale: un lavoro ben retribuito, unito alla sensazione di essere nel luogo più vivace del mondo, quello in cui - nei pressi della culla della controcultura americana - si costruisce il futuro escogitando soluzioni destinate a rendere la vita di tutti più facile e più piacevole...
 Ma è davvero così?
 In realtà le aziende della Silicon Valley e la logica che le guida hanno più di un lato inquietante, che dalla sua specola privilegiata la protagonista è a poco a poco in grado di mettere a fuoco. Innanzitutto, tradendo nei fatti la filosofia liberal da cui si pretendono ispirati, i giovanissimi imprenditori del settore digitale, a dispetto dei vantaggi apparentemente straordinari concessi ai propri dipendenti (grazie soprattutto agli esorbitanti finanziamenti che ricevono) tendono a riprodurre, dentro e fuori le imprese che creano, rapporti interpersonali e sociali di tipo veterocapitalistico: ai dipendenti è chiesto semplicemente di essere down to the cause, devoti alla causa, e di non mettere in discussione in nessun modo l'eticità del proprio lavoro, gli obiettivi dei propri dirigenti e la gestione interna dell'impresa; la massimizzazione dei guadagni fa premio su qualunque altro aspetto della realtà d'impresa; nei consigli di amministrazione delle società della Silicon Valley è scandalosamente schiacciante la presenza di maschi bianchi, e le denunce di molestie o di discriminazione in base al genere sono assai frequenti nel mondo delle nuove tecnologie; i tantissimi soldi che affluiscono alle imprese del settore informatico non portano nessun beneficio a chi di quel settore non fa parte, e tendono anzi a peggiorare le condizioni di vita di costoro - prova ne sia la brutale gentrificazione di alcuni quartieri storici di San Francisco.
 Il problema più grave della mostruosa crescita del comparto delle tecnologie elettroniche (i cui principali player vengono citati spesso senza mai nominarli, facendo ricorso a efficaci eufemismi come "il social network che tutti dicevano di odiare" - Facebook -, "il colosso dei motori di ricerca" - Google -, "il grande negozio online" - Amazon -, e così via), però, deriva dal potere senza limiti che esso concentra nelle mani di un numero ristretto di privati individui, a cui è consentito, di fatto, spiare i cittadini, raccogliere un numero enorme di informazioni su di essi, sulle loro abitudini e sul loro modo di essere, classificarle attraverso appositi algoritmi e disporne senza regole per condizionare gli orientamenti e i comportamenti collettivi (per fini prettamente commerciali oggi, per fini apertamente politici domani). 
 E' facile capire come tutto questo possa in breve tempo mettere in discussione la libertà di ciascuno di noi, la nostra possibilità di scegliere e di controllare democraticamente chi ci deve governare e, in definitiva, la nostra qualità della vita.
 Il bello di Uncanny Valley è che a queste considerazioni - che certo la Wiener non è la prima fare - si arriva gradualmente, attraverso un accumulo quasi frenetico di esperienze e di osservazioni che assomiglia molto alla stragrande quantità di stimoli e di informazioni che dalla frequentazione quotidiana del Web ci derivano, ma che lentamente - grazie anche alla formazione umanistica dell'autrice - si sedimentano, vengono sceverate e arrivano a comporre un quadro chiaro dei rischi che il dorato mondo nel quale le nuove tecnologie nascono e vengono sviluppate ha creato, e fino ad ora si è rifiutato di affrontare seriamente.
 Peraltro il libro è scritto molto bene: il linguaggio è preciso, incisivo, mai piattamente descrittivo; e se lo spin narrativo non è propriamente travolgente, alcune situazioni e alcuni personaggi - come il bidimensionale amministratiore delegato della statup di analisi dei dati, o il riflessivo neomiliardario ventenne Patrick - sono tratteggiati con grande finezza e una sensibilità degna della penna di un Jonathan Franzen.

In poche parole: libro nato dall'esperienza lavorativa condotta da Anna Wiener fra il 2013 e il 2018 presso alcune startup californiane, Uncanny Valley riesce a rappresentare con grande efficacia in chiave narrativa le virtù e i vizi inquietanti dell'eccezionale ecosistema nel quale si sviluppano le nuove tecnologie digitali, che sono diventate tanto invasive nella vita di ciascuno di noi. Soprattutto, l'autrice arriva a poco a poco a mettere a fuoco le ipocrisie e le distorsioni della pretesa, originaria filosofia liberal che più di vent'anni fa diede impulso alla crescita del Web; ipocrisie e distorsioni dalle quali oggi derivano tanto la logica veterocapitalistica che i giovani creatori di queste brillanti imprese tendono a riprodurre una volta affermatisi, quanto i rischi per la qualità e la sostanza stessa della democrazia che comporta il controllo di una massa enorme di informazioni concentrato nelle mani di pochi privati individui.
 
Voto: 7,5