lunedì 27 luglio 2020

Carson McCullers, "Invito a nozze", Einaudi

 
 Invito a nozze di Carson McCullers è un romanzo dalla trama elementare, quasi banale: siamo negli Stati Uniti nella prima metà degli anni quaranta e Frankie Jasmine, una ragazza che a 12 anni è alta già 167 centimetri e per molti versi sembra molto più matura della sua età, è in fibrillazione per l’imminente matrimonio del fratello e si fa coinvolgere ed emozionare tanto dalla prospettiva dell’evento da arrivare a comportarsi come se fosse lei quella che è destinata a sposarsi.
 Nelle sue fantasticherie in parte fanciullesche in parte già da adulta (tutte rivelate da un narratore esterno che fa ampio uso dell’indiretto libero, mimetizzandosi dietro la viva voce della protagonista) ella immagina di lasciare definitivamente la sua città natale – dove conta pochi amici, perché le ragazze più grandi con cui era solita accompagnarsi l’hanno esclusa dai loro “circoli”, e i bambini che folleggiano per la campagna sono davvero troppo piccoli per lei e il padre con cui vive (la madre, infatti, è morta dandola alla luce) per trasferirsi con i novelli sposi a Winter Hill; oppure sogna di partire con la coppia per una sorta di giro del mondo in cui si realizzerà il suo anelito di libertà.
 La storia è tutta qui: poco o nulla pare accadere concretamente. Eppure, le settimane che precedono il matrimonio, nella calda estate del sud degli Stati Uniti, sullo sfondo della guerra che infuria in Europa, costituiscono il tempestoso cimento psicologico in cui, fra pensieri bizzarri e pretese irreali, la ragazza vede in qualche modo, miracolosamente, inconsapevolmente, tormentosamente forgiarsi la propria identità.
 Anche l’arena nella quale Frankie si mette alla prova è la più strana che si possa concepire: si tratta della cucina della casa paterna, in cui la protagonista, mentre il padre è impegnato dal lavoro nel suo negozio da orologiaio, passa i pomeriggi in fitte conversazioni con Berenice Sadie Brown, la domestica di colore ultraquarantenne, e con John Henry West, il cuginetto di soli otto anni.
 Non potrebbe darsi una compagnia più scombinata: Berenice, infatti, funziona poco come sostituto materno, perché talvolta ha anch’essa un rapporto piuttosto astratto con la realtà, e tutta la saggezza che può regalare a Frankie deriva dal ricordo dei rapporti assai poco edificanti con i suoi tre ex mariti. John Henry, dal canto suo, non assomiglia per nulla a un bambino di otto anni, e ricorda invece per atteggiamenti, abitudini ed estemporanee affermazioni un anziano, pacato signore.

 Carson McCullers

 Berenice e John Henry non riescono neppure a tenere Frankie lontana dai pericoli: come quando un soldato, forse ubriaco, credendola più grande dei suoi dodici anni, la invita in una taverna malfamata, si apparta con lei e poi tenta di usarle violenza, tanto che la ragazza per respingerlo deve rompergli sul capo una brocca di vetro con una forza tale da arrivare a credere di averlo ucciso.

 L’episodio serve comunque a palesare la sostanziale impreparazione della pretenziosa Frankie di fronte alla prepotenza dell’attrazione sessuale (che aleggia per tutto il libro come qualcosa di molesto alla periferia dei suoi pensieri, filtrata attraverso il ricordo non piacevole del primo, parziale “incontro” con un coetaneo) come pure al cospetto di tanti altri aspetti dell’età adulta.

 Eppure nelle fantasticherie di Frankie, nei suoi interminabili soliloqui c’è una poesia che di primo acchito pare assurda, ma poi sembra rivelarsi come l’unica illuminazione possibile di un mondo dipinto a tinte fosche. Perché spesso la realtà è sopportabile solo quando è trapunta dai ricami dei nostri singolari desideri, mentre la concretezza dei fatti oggettivi è bene che perda consistenza, anche se si tratta di eventi non ignorabili: tali sono non solo il crollo del castello di carte costruito da Frankie sul matrimonio del fratello, ma anche, nell’autunno successivo al matrimonio, il trasferimento della protagonista e di suo padre in una nuova casa, la partenza definitiva di Berenice – che trova un nuovo marito e, soprattutto, la morte del piccolo John Henry a causa di una meningite fulminante; tutte cose che ci vengono rivelate alla fine del romanzo.

 Così il punto di vista di Frankie Jasmine “errante” nelle due accezioni di questa parola assume uno spessore lirico fuori dal comune; e tutte le descrizioni di oggetti, personaggi e situazioni su cui la ragazza proietta la sua emotività si trasformano in un caleidoscopio di sentimenti di incredibile intensità: qualcosa che sta fra il correlativo oggettivo di Thomas Stearns Eliot e quella personalissima declinazione del jazz che si riconosce nei testi e nella musica di Paolo Conte.

 Basta leggere qualche frase presa qui e là dal libro per comprendere quanto dico:

“l’estate non era che un sogno verde e languido o una giungla silenziosa e pazza come in una campana di vetro”.

“Il matrimonio era splendente e bello come la neve, ma il cuore era come distrutto”.

“Il firmamento era color lavanda e si andava lentamente oscurando. Nelle vicinanze, udì delle voci e percepì un profumo leggero e fresco di erba annaffiata”.

“Frankie aspettava la notte. Proprio in quell’istante un corno cominciò a suonare. In un punto non molto distante, il corno aveva attaccato un blues, una melodia dolente e sommessa. Era il canto triste di un ragazzo nero”.

 La vibrazione che da tutto ciò deriva ha il sapore autentico delle cose che appartengono alla sconnessa concretezza del vissuto individuale e non alle simmetrie artificiali di una morale senza sbavature.

Voto: 7

giovedì 16 luglio 2020

Kent Haruf, "La strada di casa", NN Editore


 Libro dopo libro, Kent Haruf ha legittimato la propria candidatura al ruolo di "Edgar Lee Masters della prosa americana". Lo conferma questo suo romanzo, l'ultimo fino ad oggi non ancora pubblicato in Italia, che mette in scena una manciata di nuovi indimenticabili personaggi di quell'esemplare microcosmo specchio dell'umanità universale rappresentato dall'immaginaria città di Holt, in Colorado.
 Protagonista della vicenda narrata è Jack Burdette, ex popolarissimo campione di football della squadra liceale della contea, uomo dall'indubbio, istintivo carisma, ma dall'intelligenza modesta e dalle ambizioni sproporzionate rispetto alle sue reali capacità.
 Burdette è colto nel momento in cui - a metà degli anni ottanta - torna a Holt al volante di una scintillante Cadillac nove anni dopo essere scomparso con i soldi derivanti da una colossale truffa ai danni del locale Consorzio dei produttori di granaglie, di cui era stato nominato presidente esclusivamente in virtù della sua affabilità.
 I soci del Consorzio sono ancora infuriati con lui; lo sceriffo, Bud Sealy, lo arresta immediatamente in attesa di sapere se il suo reato continui a essere penalmente perseguibile, ed è allora che il narratore comincia dal principio a raccontare la sua storia: la morte del padre, travolto da un treno al passaggio a livello incustodito mentre una sera tornava a casa ubriaco quando egli era ancora un bambino; gli anni faticosissimi della scuola, per la quale Jack era assolutamente negato; la sua trasformazione in una piccola stella dello sport locale grazie a una possanza fisica colossale; l'amore devoto di Wanda Jo Evans, destinata ad aspettare per anni di essere sposata solo per essere invece infine scaricata, un giorno, senza troppi complimenti; l'arrivo all'Università di Boulder con una borsa di studio per meriti sportivi e la quasi immediata espulsione dall'ateneo per un banale furto; il ritorno ad Holt, l'assunzione della presidenza del consorzio, l'improvviso e inatteso matrimonio con l'affascinante Jessie durante una trasferta a Tulsa, in Oklahoma - dove era stato inviato proprio dalla cooperativa per un convegno sui fertilizzanti agricoli -; la clamorosa truffa ai danni degli agricoltori di Holt; la scomparsa e l'abbandono di Jessie, lasciata con due bambini e incinta del terzo a fronteggiare l'ira implacabile dei truffati.

 Kent Haruf

 A raccontare tutte queste cose è Pat Arbuckle, che del cronista ha la stoffa e l'esperienza, perché è proprietario e direttore dell'Holt Mercury, il settimanale che vive su articoli di servizio e notizie di rilevanza provinciale, che egli ha ereditato dal padre.
 Pat, conosce bene Jack Burdette, che è un suo coetaneo e un ex compagno di scuola. Inoltre, dopo la scomparsa di Burdette, le circostanze hanno fatto sì che incrociasse in maniera singolare la sua storia: in seguito alla tragica scomparsa dell'amatissima figlia Toni e alla separazione dalla moglie Nora Kramer, Pat è infatti diventato il compagno di Jessie, l'ex consorte del truffatore, e il padre putativo dei suoi figli.
 Così sarà lui, al momento della scarcerazione del protagonista - perché il suo reato è ormai caduto in prescrizione -, a dover fare in conti con le conseguenze dell'inopinata reazione di un uomo determinato a reclamare anche con la violenza la sua vita di un tempo.
 Il romanzo è estremamente coinvolgente; vi si trova già l'eccezionale capacità di modellare in maniera raffinatissima ogni personaggio e quel senso profondo di pietà per un'umanità dolente che diventerà la nota caratteristica della "Trilogia della pianura".
 C'è forse qui una maggiore asprezza di quella presente nei libri successivi: un vibrato più teso, che veicola una visione del mondo meno pacificata, una resa più severa delle dinamiche psicologiche sottese all'azione narrativa (specchio di un giudizio sempre articolato ma fondamentalmente pessimistico sulla natura umana), una più cupa concezione della società - anche di quella poco più che paesana di Holt - e dei suoi meccanismi, spesso pervasi e dominati dall'egoismo, dalla meschinità e dalla grettezza, a volte addirittura dalla violenza.
 A fare da controcanto a tutto questo, che ammanta il racconto di un'aura malinconica, resta il finale aperto, che prospetta la seppur tenue possibilità di una soluzione positiva della dolorosa vicenda narrata.
 Insomma, il testo ha indubbiamente le qualità per essere considerato una tappa importante della carriera letteraria di quel classico moderno che Kent Haruf, a pochi anni dalla morte, è ormai - meritatamente - diventato.

Voto: 7

domenica 12 luglio 2020

Paolo Volponi, "Poesie giovanili", Einaudi


 Non sono rari, nelle opere narrative di Paolo Volponi - l'autore che a mio parere meglio di chiunque altro ha saputo rappresentare nei suoi romanzi le contraddizioni e i difetti presenti nel tessuto socio economico dell'Italia del secondo Novecento, e i loro riflessi sulla cultura e la mentalità dominanti nel nostro Paese -, i passi ispirati a un intenso lirismo e caratterizzati da una profonda compenetrazione tra lo stato d'animo o i pensieri dei personaggi e la descrizione del paesaggio (urbano o rurale) che fa da sfondo al loro agire.
 Paradossalmente meno frequenti sono brani di questo tenore nelle poesie di Volponi, specie quelle delle prime raccolte; nelle esperienze in versi precedenti l'esordio narrativo, infatti, lo scrittore osserva, sente, ragiona in astratto, e poi - spesso con visibile sforzo, senza riuscire materialmente ad amalgamare riflessione e osservazione - traduce i concetti sui quali vuole insistere in espressioni e immagini icastiche, di notevole rilievo simbolico ma di limitata risonanza emotiva.
 La densità del pensiero, così, non trascorre nella scioltezza stilistica come nelle prose migliori, ma dà luogo a una esibizione di complessità, a una solipsistica ostentazione dei problemi logico-esistenziali individuati e messi a fuoco ma non risolti, che avvicina senz'altro la poesia del primo Volponi a quella dei poeti ermetici.
 Il libro uscito ora per i tipi di Einaudi rafforza questa impressione, mettendo a disposizione del pubblico le prime prove giovanili di Volponi, quelle che precedono e preparano la pubblicazione dei componimenti confluiti ne Il ramarro (del 1948) e quelli andati a costituire il corpus de L'antica moneta (del 1955), recentemente recuperate nella casa urbinate dell'autore - suddivise in tre agili fascicoli (le 90 carte, Immagini e Altre) in parte manoscritti, in parte dattiloscritti - e criticamente curate da Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli.
 Queste prove risalgono tutte agli anni quaranta e ai primissimi anni cinquanta e testimoniano, con le frequenti correzioni e riscritture di cui è rimasta traccia sulle carte, l'intenso lavoro di elaborazione a cui Paolo Volponi si sottopose per pervenire a determinati risultati espressivi.

 Paolo Volponi

 Opportunamente i curatori hanno suddiviso per la pubblicazione i componimenti recuperati in due sezioni: "Verso Il ramarro" e "Verso L'antica moneta", per denunciare fin da subito la temperie culturale e la fase evolutiva all'interno della produzione dell'autore a cui sono ascrivibili.
 Colpiscono il lettore la violenza di certe immagini ("Hai riso, / ed io avrei sputato / dentro la tua gola / aperta."; "Nel taglio della ferita / garza gengivosa. / L'acutissimo vetro / t'ha aperta / con una naturalezza spaventosa"; "Ti slarghi come un frutto maturo, / ed io sento lo schifo / di vederti dentro."), spesso riferite alla donna inutilmente amata, la frequenza di enigmatici riferimenti a oggetti simbolici riconducibili a una classicità oracolare ("Nell'osso spolpato / cerca / il profilo degli Dei."; "Prese una smorfia / fissa / come un pupazzo di terracotta."), la febbrile ricerca da parte del personaggio che dice io di una propria, definita identità nella vagabonda ricognizione degli innumerevoli modi d'essere che si danno nel mondo degli uomini e nella natura ("Io sono un cantore d'osteria / che canta canzoni di terra. // Porto le scarpe di un negro, / e l'anima di un muratore / che fu ucciso sul tetto / da un ufficiale a cavallo. // Io sono un'anitra gialla / un garofano sul fiume, / colui che fischia / e aspetta sotto un ponte.").
 Nella resa della femminilità, la cruda rappresentazione dell'erotismo (un erotismo spesso collegato a un pervasivo senso di morte) agisce come uno schiaffo che risveglia, trattiene da languidi abbandoni, scongiura il rischio del romanticismo insito nella bellezza del paesaggio, richiama a un lucido confronto con una realtà che in sé e per sé non è né buona, né riposante, ma difficile, problematica, ruvida, spigolosa, misteriosa ("Le donne si lavano il ventre / ancora ansante, / come i cani / che vegliano il mio sonno. / Ora i vogliosi cavalli / calpestano i fuochi spenti / e l'alba è già nelle mani / che pettinano uccelli."; "Tu priva d'amore / o pastora, / dalle voglie del gregge / e femmina del cane. / Solo le violenze anonime / dei viandanti / hanno soddisfatto il tuo corpo / indurito.").
 Soltanto nella simbolica ciclicità dei ritmi naturali sembra che l'inquietudine dell'io lirico possa sperare di trovare un appiglio interpretativo per dare ordine al mondo, per mettere ordine tra i propri pensieri ("Sempre io guardo l'acqua del fiume / cercando la tua impronta, / le tue membra disperse / come le trote leggere. / Poi canta / uno che non si vede, / allora tu passi. / E un tempo ricomincia."). L'idea che quasi direttamente ne deriva, quella della necessità di morire per rinascere nuovamente, incrocia con naturalezza una serie di concetti e di richiami cristologici ed evangelici, privati però della consueta ordinarietà rituale e riportati alla loro nuda essenzialità ("Tu sei bianca, / nata nel buio / come il germoglio del grano / per il Santo Sepolcro / dei conventi."; "Come d'un eremita / che prega nello speco, / vicino alla rosa / dal suo sangue fiorita. / Così la mia vita / langue accanto a te.").
 La poesia più bella, per me, è forse l'ultima riportata nel libro, quella intitolata Io so che le strade, che anziché avvitarsi intorno ad astrusi enigmi, incorpora l'idea di nuovi abbrivi e di nuovi approdi. Eccone il testo:

S'alzano a volo gli uccelli
all'urlo nostro,
e allargano il cielo.
Corriamo,
io so che le strade
hanno crocicchi dove si canta,
dove le donne
vendono vino e lupini.
Là sono le croci
originali del Cristo,
con grossi chiodi
tenaglie e martello.
Là troveremo una lampada, una moneta,
un cavallo lasciato da un soldato,
forse la strada di antiche città,
le vigne e gli orti tranquilli del mare.
Una barca abbandonata sulla riva.

Voto: 6,5

sabato 4 luglio 2020

Marta Barone, "Città sommersa", Bompiani


 Città sommersa appartiene senza dubbio al novero dei libri "necessari": quei libri che originano da una riflessione o da un percorso di ricerca dettati da un intimo, impellente bisogno di chiarezza, e si concretizzano in un atto comunicativo che è, autenticamente, il tentativo di condivisione della certezza di una importante conoscenza acquisita.
 Per Marta Barone, l'impulso a ricostruire i momenti salienti della vita di suo padre Leonardo nasce dopo la morte di quest'ultimo, avvenuta a causa di un tumore al fegato, e il ritrovamento di una memoria difensiva redatta negli anni ottanta, per il terzo grado di giudizio del processo che - dopo diversi mesi di detenzione - lo avrebbe assolto definitivamente dall'accusa di essere stato un fiancheggiatore del gruppo terroristico di Prima Linea.
 L'arresto di Leonardo Barone, medico ed esponente di spicco della sinistra extraparlamentare, era stato provocato dalla falsa testimonianza di un "dissociato", che aveva fatto il suo nome forse per acquistare credito presso gli inquirenti (peraltro, ritrattando in seguito le proprie dichiarazioni senza essere creduto) e aveva sostenuto che l'uomo era stato scelto per medicare due terroristi feriti durante un'azione di sangue in quanto parte integrante dell'organizzazione. Il soccorso, in realtà, era stato prestato per puro spirito umanitario, e Leonardo Barone non era mai stato un terrorista; aveva anzi criticato più volte pubblicamente l'opzione della lotta armata e preso le distanze da conoscenti ed ex compagni che, invece, fra le braccia del terrorismo erano finiti davvero.
 I rapporti di Marta col padre non erano mai stati idilliaci, anzi, a tratti erano stati decisamente difficili, connotati da un'insofferenza di fondo per la quale la figlia (come succede) tendeva a vedere soprattutto i difetti di quel genitore che si era presto separato dalla madre della scrittrice, Margherita, e aveva spesso fatto scelte di vita che sembravano strambe, ed era sempre senza un soldo; che era sicuramente carismatico ma tendeva a raccontare bugie inutili e, a volte, quando era in mezzo agli altri, mostrava un'allegria che sapeva un po' di affettazione.
 Marta, fra l'altro, era a conoscenza del suo arresto del 1982 e della sua incriminazione, ma non aveva mai mostrato particolare interesse per la cosa, non aveva mai sentito l'esigenza di approfondire quanto accaduto (tutte cose che avevano preceduto la sua nascita), né di indagare su altri episodi della vita invero assai movimentata di Leonardo.
 Il ritrovamento postumo di quel vecchio documento giudiziario, però, fa scattare qualcosa; fa nascere nell'autrice la consapevolezza che le vicende che hanno coinvolto il padre sono state più complesse e sofferte di quanto avesse mai sospettato e che, nel tempo da lui vissuto in qualche modo da protagonista - un'epoca aspra e confusa, che aspetta ancora un'analisi storica equanime, quale sarebbe fondamentale per capire meglio l'Italia di oggi -, la sua parabola esistenziale aveva costituito un'avventura eccezionale e, nello stesso tempo, esemplare di un'età di sogni, di utopie, di generosità, di impegno, di rabbia, di violenza sconosciuti alle generazioni successive.
 Sulla base di quella consapevolezza nasce la voglia e il bisogno di indagare su ciò che è stato; indagare attraverso le testimonianze dirette di chi è ancora in vita, attraverso gli archivi, attraverso le fotografie superstiti e le memorie familiari. E' da questa indagine e dai suoi risultati in parte inattesi e sorprendenti che prende forma il libro.
 I motivi di interesse del testo sono molteplici: in primo luogo la ricostruzione della vita stessa di Leonardo Barone (nel rigore della ricerca oggettivizzato dall'autrice nella sigla L.B., come se fosse un'altra persona rispetto al padre che ha conosciuto), che fu una vita assolutamente fuori dal comune: nato in Puglia, a Monte Sant'Angelo, a metà degli anni quaranta e lì cresciuto, si allontanò dalla famiglia d'origine durante la giovinezza, segnata prima dagli studi di Medicina a Roma (con la partecipazione all'occupazione de La Sapienza e ai disordini di Valle Giulia) e poi dall'adesione a Servire il Popolo, il Partito Comunista Marxista-Leninista, il movimento ultra-radicale guidato da Aldo Brandirali.

 Marta Barone

 Nell'estrema frammentazione della sinistra extra-parlamentare di allora, Servire il Popolo costituiva l'opzione maoisticamente più estrema: il sentimento antiborghese si traduceva per i militanti nella pretesa di adeguare i propri costumi a una frugalità autopunitiva che portava a privarsi innaturalmente e insensatamente di qualunque cosa; nel fervore ideologico, il rifiuto dell'intellettualismo frivolo si spingeva fino a combinare "matrimoni comunisti" fra studenti - o professori, o avvocati, o medici - e operai che non tenevano minimamente conto di quanto la coppia potesse essere ben assortita.
 L.B. aveva navigato fra questi eccessi senza perdere il lume della ragione, mantenendo salda la propria stella polare, la volontà di aiutare i più deboli, di stare accanto a loro: a Torino, dove era stato mandato dal partito per presidiare la piazza operaia più importante d'Italia, era stato l'anima di manifestazioni pubbliche, convegni, comizi davanti alle fabbriche, proteste e occupazioni per garantire un alloggio decente a immigrati costretti ad ammassarsi in baracche e tuguri malsani.
 Poi due eventi avevano segnato l'esistenza di Leonardo determinandone una svolta: i fatti tragici di via degli Artisti, dove un militante del Pcil-m - un minatore sardo rozzo e violento - aveva ucciso a coltellate davanti ai suoi occhi attoniti il suo migliore amico, accorso in difesa della moglie data all'uomo dal partito, una giovane professoressa di lettere che egli aveva aggredito in preda alla gelosia; e, successivamente, nella seconda metà degli anni settanta, lo scioglimento dello stesso Pcil-m, del quale una diversa temperie socio-economica, insieme all'assurdo estremismo di Brandirali, aveva determinato l'esaurirsi della funzione storica.
 Mentre tanti a quel punto avevano tristemente optato per la lotta armata, egli aveva continuato, ostinatamente, a portare avanti in altre organizzazioni un'opera di paziente propaganda politica a favore di una società più giusta, promuovendo un confronto attivo, razionale, pacifico fra le diverse anime della sinistra.
 Sventuratamente, un destino oscuro - come quello che in quegli anni sommerse molti innocenti - lo aveva colpito proprio nella fase in cui i gruppi armati stavano esaurendo il proprio propellente: vennero allora l'accusa ingiusta e la lunga detenzione (durante la quale egli riprese gli studi e si laureò in giurisprudenza). Rilasciato, cambiò vita, fece l'operaio, poi si laureò di nuovo in Psicologia e divenne psicoterapeuta.
Da un mestiere all'altro, da una donna all'altra (nel frattempo, era nata anche Marta), sempre intellettualmente onesto e fedele a se stesso, fino alla fine. A decent life come, all'inglese, chiosa uno di quelli che lo conoscevano meglio.
 Il secondo motivo di interesse del libro è l'immersione totale negli anni ruggenti della contestazione per restituirne fedelmente mentalità, ragioni, ombre, implicazioni sociologiche ed economiche: perché, ripercorrendo l'esperienza di L.B., ci si rende conto che, a Torino come in altre città italiane, le stesse strade che percorriamo oggi quotidianamente e a cuor leggero furono teatro non molto tempo fa di eventi terribili, sconvolgenti, che devono necessariamente essere ben impressi nella memoria di chi si avvia oggi verso l'età anziana.
 A tal proposito, c'è qualcosa di Patrick Modiano in alcune pagine di Marta Barone: la sottolineatura del fatto che i luoghi in cui viviamo devono certamente conservare l'impronta degli eventi e dei sentimenti di cui furono teatro e che, quando li conosciamo, ne modellano metafisicamente la visione, la percezione. Credo che in questa impressione emotiva, più che in ogni altra cosa, sia riconoscibile l'impronta della storia.
 Il terzo motivo di interesse risiede nello stile: Marta Barone, a dispetto della giovane età, si dimostra una scrittrice colta e raffinata, in grado di sciogliere nelle parole la lezione degli autori che ha letto e studiato, e di riformularne i contributi in una scrittura originale, capace come poche altre di modellare concetti astratti fino a farli diventare oggetti osservabili, manipolabili, conservabili.
 Per tutte queste ragioni Citta sommersa è un libro che vale la pena leggere e meditare.
 Di certo fa parte di quel gruppo di opere che avrebbero meritato il premio Strega più di chi lo ha conquistato.

Voto: 7,5