domenica 30 gennaio 2022

Jonathan Franzen, "Crossroads", Einaudi


 Crossroads è il più radicalmente pessimista dei romanzi di Jonathan Franzen. Tre sono le tematiche essenziali sulle quali l'impianto narrativo si articola: la famiglia, l'amore e la religione: ciascuna di esse è esplorata con acribia analitica attraverso le vicende esemplari dei personaggi fra loro legati che di volta in volta occupano il centro della scena. 
 La storia raccontata è quella di Russ Hildebrandt, pastore luterano presso la parrocchia di New Prospect, e della sua famiglia composta dalla moglie Marion e dai quattro figli Clem, Becky, Perry e Judson (i primi due già quasi adulti, il terzo un adolescente, l'ultimo appena un bambino). Il tempo della storia abbraccia gli anni fra il 1972 e il 1974, anche se piuttosto frequenti sono i flaskback che rimandano all'infanzia e alla giovinezza di Russ e Marion, tra la fine degli anni venti e il principio degli anni cinquanta. Gli Stati Uniti rappresentati sono dunque un Paese reduce dall'ondata libertaria e dalla rivoluzione dei costumi sessuali degli anni sessanta, dalle lotte per i diritti civili e dagli anni tragici e furiosi della guerra in Vietnam, che si sta avviando verso il suo inglorioso epilogo.
 Russ e Marion, che pure quegli anni esaltanti hanno vissuto mettendosi in gioco in prima persona, si ritrovano ora sgradevolmente prigionieri delle secche della mezza età: Russ è stato estromesso dalla cura della pastorale giovanile chiamata Crossroads - una partecipatissima comunità in cui ci si confronta liberamente e senza pregiudizi su ogni questione riguardante l'amore, la politica, il sesso o Dio - da Rick Ambrose, il giovane e affascinante ministro di culto con cui egli collabora; Rick ha infatti approfittato del malcontento nei confronti di Russ di alcune delle ragazze più aspre e trasgressive del gruppo - pronte a dare addosso al pastore per la sua abitudine (ritenuta bigotta) di far recitare a tutti le preghiere di rito e per il suo atteggiamento forse un po' ambiguo nei confronti di una delle fanciulle più attraenti della comunità - per umiliare il collega e per allontanarlo da Crossroads, prendendone poi personalmente il controllo. 
 Marion, sentendo che l'antico ardore del marito verso di lei si è ormai raffreddato, assalita dai fantasmi della sua travagliata giovinezza, è entrata segretamente in analisi affidandosi a una psicoterapeuta. Ciò non le impedisce di rivivere i tremendi ricordi dell'anaffettività della madre durante la sua infanzia californiana, del fallimento e del suicidio del padre - un commerciante ebreo -, del tramonto dei suoi sogni da bambina, dell'infelice amore per un collega sposato negli anni del suo primo impiego presso un concessionario di automobili ai tempi della Seconda guerra mondiale, degli abusi subiti dal suo abietto padrone di casa, della sua disgraziata gravidanza indesiderata di fanciulla nubile e del suo aborto, del suo precipitare nella follia e del suo ricovero in un ospedale psichiatrico. 
 All'epoca, solo la generosità di uno zio omosessuale, il ricorso alla fede cattolica e poi l'incontro con Russ - tenuto all'oscuro di quasi tutti i suoi trascorsi - avevano consentito a Marion di riprendere in mano la sua vita. Ora che Russ sembra perso dietro la chioma bionda alla maschietta di una bella parrocchiana, la vedova trentasettenne Frances Cottrell, però, a Marion non resta che rifugiarsi nella fantasia di riallacciare i rapporti con il suo amante di trent'anni prima, quel Bradley che aveva colto quasi a tradimento la sua verginità.
 
Jonathan Franzen
 
 Se il matrimonio di Russ e Marion sembra aver imboccato il vicolo cieco di una crisi difficilmente risolvibile, i figli non vivono la loro verde stagione più serenamente dei genitori. Clem, il maggiore, durante il suo primo anno di college, ha avviato una relazione con la focosa Sharon che, se lo appaga dal punto di vista fisico, da una parte lo distrae dagli studi, dall'altra lo allontana dalla sorella Becky, con la quale fin da bambino ha vissuto in una strana simbiosi, alimentata da un affetto quasi morboso. Così, per sfuggire all'insoddisfazione che tutto questo gli provoca, il giovane decide di abbandonare Sharon e gli studi e di rendersi arruolabile per la guerra in Vietnam; solo il ritiro delle truppe già iniziato gli impedirà di dare seguito ai suoi piani, lasciandolo comunque scontento e disorientato.
 Becky, dal canto suo, per la prima volta lontana da Clem e in rotta con i genitori, rifonda la sua identità in una duplice chiave: da una parte, scopre il misticismo religioso, pur essendo sempre stata lontana dalle cose della fede; dall'altra mette finalmente alla prova il suo notevole fascino conquistando il bellissimo Tanner Evans - un promettente musicista folk assai popolare tra i ragazzi di New Prospect - e sottraendolo alla sua storica fidanzata, la grintosa Laura Dobrinsky. Presto la lorio storia d'amore avrà un esito del tutto inatteso.
 Infine, il quindicenne Perry - probabilmente il più intelligente e dotato di tutta la famiglia - legato da autentico affetto solo al fratello miniore Judson, non troverà niente di meglio che incanalare il suo personale disagio nel rifugio in una precoce tossicodipendenza, con l'esito tragico di far esplodere in lui quella vena di follia forse ereditata dalla madre Marion.
 Da questi complessi stati d'animo e da queste intricate premesse scaturiranno esiti a volte drammatici, a volte - a conti fatti - niente affatto spiacevoli per i protagonisti. Il problema è che le scelte attraverso le quali si giungerà all'esito finale vengono compiute da tutti i componenti della famiglia Hildebrandt in una sorta di delirio solipsistico in cui l'amore, l'attrazione erotica e il sentimento religioso hanno esattamente lo stesso ruolo delle droghe con le quali il giovane, brillante Perry si brucia il cervello.
 Ognuno dei protagonisti di questo romanzo corale è chiuso nell'ossessione del proprio pensiero dominante o del sentimento di cui è schiavo, e non riesce in alcun modo a trovare un mezzo per comunicare in maniera autentica con chi gli sta intorno. L'unico modo di entrare in una illusoria sintonia con il prossimo è sacrificarsi per lui (magari dopo aver valutato che è la cosa più conveniente da fare anche per sè: così accade a Marion con il fedifrago Russ, così a Clem con Becky, ormai padrona del gioco nel loro squilibrato rapporto in virtù del fanatismo religioso in nome del quale ha passato un colpo di spugna su tutte le sue insicurezze di un tempo).
 Lo stile narrativo di Franzen, semplice ed efficace, offre un perfetto supporto tecnico a questo cieco gioco di destini incrociati: i capitoli che si susseguono uno dopo l'altro sono caratterizzati ciascuno dall'adozione ostinata del punto di vista di un solo personaggio, che esclude qualsiasi interferenza di altre focalizzazioni e qualsiasi possibilità di interlocuzione con altri caratteri; sembra che a ognuno dei protagonisti il più intimo sentire dei suoi simili sia sostanzialmente inaccessibile, e che i legami interpersonali si reggano sull'imposizione della propria prospettiva da parte di uno dei partner all'altro. Il fatto che questo schema insista sulla fase della nostra storia recente in cui più forte era il senso della comunità, gli anni settanta del Novecento, la dice lunga sulla concezione dell'uomo maturata dall'autore.
 
In poche parole: Crossroads è il più radicalmente pessimista dei romanzi di Jonathan Franzen. Attraverso le travagliate vicende della famiglia Hildebrandt viene messa in scena una realtà in cui, nonostante la coralità dell'impianto narrativo, ogni personaggio è chiuso nell'ossessione del proprio pensiero dominante, del sentimento o del vizio di cui è schiavo, e non riesce quasi mai ad avere accesso all'intimo sentire di chi gli sta vicino.
Lo stile di Franzen offre un perfetto supporto tecnico a questa visione del mondo e a questo cieco incrociarsi di destini: i capitoli che si susseguono sono caratterizzati ciascuno dall'adozione esclusiva di un solo punto di vista, impermeabile a qualsiasi autentica possibilità di confronto o di interlocuzione. E il fatto che questo schema insista sulla fase della nostra storia recente in cui più forte era un senso di comunità, gli anni settanta del Novecento, la dice lunga sulla concezione dell'uomo che il libro esprime. 
 
Voto: 7,5

domenica 9 gennaio 2022

Daniele Del Giudice, "Lo stadio di Wimbledon", Einaudi


 Dopo diversi anni di assenza dagli scaffali delle librerie, nel 2021, Einaudi ha ripubblicato lo storico romanzo d'esordio di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon. All'autore, da molto tempo affetto dal morbo di Alzheimer, quasi contemporaneamente si è deciso di assegnare il Premio Fondazione Campiello alla carriera; purtroppo Del Giudice si è spento lo scorso 2 settembre, 2 giorni prima di ricevere ufficialmente il riconoscimento.
 Lo stadio di Wimbledon, la cui uscita, nel 1983, fu tenuta a battesimo da Italo Calvino, è uno strano libro, che pone, elabora e rappresenta un interrogativo fondamentale per chiunque si occupi di letteratura: quanto è importante scrivere?
 La questione è affrontata attraverso un'indagine condotta dall'anonimo personaggio che nel romanzo dice "io" - un giovane studioso la cui fisonomia resta piuttosto sfumata - su una delle personalità più affascinanti del mondo intellettuale italiano del Novecento, Bobi Bazlen. Come è noto, Bazlen ebbe un'influenza straordinaria sulla nostra cultura e, in particolare, sulla nostra editoria (promosse la conoscenza di Italo Svevo, di cui era amico, introdusse in Italia Kafka e la psicanalisi, contribuì in maniera decisiva alla nascita della casa editrice Adelphi e all'impiostazione di fondo dei suoi cataloghi), fu un "cacciatore di libri" dal fiuto straordinario, ma in vita non pubblicò niente di suo.
 Il protagonista-narratore de Lo stadio cerca ostinatamente di capire perché Bazlen rinunciò alla scrittura: lo fa recandosi diverse volte a Trieste, la città in cui Bobi visse da giovane e in cui non tornò più - se non di nascosto - dopo averla lasciata, visitando i luoghi che lui frequentava, parlando con i suoi amici e le sue amiche ancora in vita, incontrando Gerti Frankl, la donna immortalata da Eugenio Montale nella poesia Carnevale di Gerti, che fece parte del fruppo ristretto di coloro che di Bobi Bazlen furono più intimi (operando come una sorta di perfido cupido, pare che Bobi inducesse Carlo Tolazzi, il marito di Gerti, a tradirla con un'altra donna, per poi convincere Gerti stessa a unirsi con un uomo a lei "più adatto").
 Di Bazlen emerge così un ritratto piuttosto controverso: quello di un uomo che amava agire su coloro che gli erano vicini quasi manipolandoli, con la pretesa di renderli più felici di quanto non fossero; e c'era chi lo temeva, perché lo sentiva superiore a sé, capace di intuire prima con assoluta chiarezza quello di cui non era semplice rendersi conto. 
 Con i libri si comportava in maniera non dissimile: sapeva capirne al volo l'importanza, cercava di valorizzarli nella maniera migliore, fra di essi andava alla ricerca di quelli che racchiudevano in sé il germe della "primavoltità", quelli non necessariamente più belli, ma certo più originali, più importanti per le loro riposte potenzialità.
 
Daniele Del Giudice
 
  In tutto questo, cosa trattenne Bazlen dal pubblicare qualcosa di suo? Soleva dire agli amici che già c'erano "troppi libri"; affermava di potersi limitare alle note a pie' pagina, ma forse temeva di non essere all'altezza della sua fama, forse sentiva che sarebbe valsa la pena condividere quanto aveva scritto solo se fosse riuscito a creare qualcosa di assolutamente originale, forse era per natura troppo eccentrico e discontinuo e autocritico per produrre uno scritto che fosse realmente condivisibile con un pubblico. 
 Tutto vero, probabilmente, almeno in parte; eppure sembra che per il protagonista risulti assai più convincente l'ipotesi dell'esistenza in Bazlen di una dicotomia tra vita e scrittura che l'avrebbe portato a privilegiare la prima sulla seconda; persino il suo intellettualismo, persino il suo amore per i libri sarebbero stati al servizio di una curiosità e di una vocazione alla conoscenza che, paradossalmente, contemplavano la scrittura come un semplice strumento ausiliario, un surrogato solo talvolta indispensabile dell'esperienza diretta.
 Ed è su queste considerazioni che si innesta la riflessione più personale a cui il protagonista approda, e che lo porta a mettere per iscritto - lui sì - la propria avventura conoscitiva, quasi ad attraversare e a superare di slancio quella sorta blocco, o di rifiuto, o di sprezzatura di cui Bazlen non si era mai liberato, ricucendo lo strappo tra letteratura e vita, restituendo un senso a quell'atto di condivisione della propria esperienza - affinché arricchisca sé stessi e gli altri - in cui la letteratura dovrebbe sempre consistere.
 Tale approdo arriva solo con la visita, in Inghilterra, a un'altra donna protagonista di una lirica di Montale, quella Ljuba Blumenthal che di Bazlen fu compagna fino alla fine, sebbene i due non vivessero insieme. Ljuba parla dolcemente al protagonista, beve il tè con lui, gli mostra alcune vecchie fotografie e dona al giovane studioso che si è messo sulle tracce di Bobi il famoso pullover che a Bazlen apparteneva, e che egli spesso indossava leggendo nella sua stanza a Roma. 
 Ma il giovane - che pure quel pullover avrà caro - ha forse già trovato un'altra via, che lo porta a mettersi personalmente in gioco con la scrittura come non ha fatto l'intellettuale oggetto del suo studio. E la decisione di prendere con piena consapevolezza questa strada, di raccogliere questa sfida, viene forse dalla visita dello stadio di Wimbledon, che sorge non lontano dall'abitazione di Ljuba, e dove il campo da gioco in erba, le tribune e il palco reale vuoti sono d'ispirazione per accettare questo decisivo cimento.
 Il libro di traduce così in un rinnovato (anche se non privo di problematicità) atto di fede nei confronti del gesto dello scrivere.
 
In poche parole: perché Bobi Bazlen non scrisse nulla? Perché ci sono già troppi libri? Perché è difficile disfarsi della sensazione che tutto sia stato detto, e che a quanto è stato scritto si possano aggiungere al massimo delle note a pie' di pagina? Perché per proporre ad altri qualcosa di nuovo bisogna essere certi della sua assoluta originalità? Su questi interrogativi si innesta la ricerca del giovane protagonista-narratore de Lo stadio di Wimbledon sulle tracce di uno dei personaggi più influenti, affascinanti e misteriosi della cultura italiana del Novecento.
Una ricerca che, "attraversando" Bazlen e superandolo di slancio, porta Del Giudice a ricucire quel legame tra letteratura e vita che sembrava aver subito uno strappo, e a ribadire l'essenzialità della letteratura come strumento per condividere esperienze e ampliare i territori propri dell'esistenza umana.  
 
Voto: 7,5