domenica 31 maggio 2020

Jonathan Bazzi, "Febbre", Fandango libri


 E' il mese di gennaio del 2016 quando Jonathan, 31 anni non ancora compiuti, comincia ad avere la febbre; non una febbre alta, ma fastidiosa, insistente e alla lunga spossante e, dunque, tale da impedirgli di condurre una vita normale.
 Il protagonista-narratore, che dà lezioni di yoga presso diverse palestre milanesi per mantenersi e, contemporaneamente, porta avanti gli studi universitari, è presto costretto a interrompere qualsiasi attività: anche solo alzarsi dal divano, a quel punto, è diventata una fatica improba. E' indispensabile allora andare alla ricerca della causa clinica di questo malessere indeterminato capace di prosciugare il fisico e la mente, di togliere ogni brio e persino, a poco a poco, di spegnere la voglia di vivere.
 Il calvario di Jonathan fra studi medici, ambulatori, ospedali, diagnosi sbagliate, angoscia e depressione si intreccia con il suo racconto biografico, condotto a partire dalla primissima infanzia, quasi che in esso egli speri di rintracciare la causa prima del suo malessere. Anzi, la narrazione comincia addirittura dal momento del suo concepimento a metà degli anni ottanta, fra i palazzoni delle case popolari di Rozzano: "Rozzangeles", tipica espressione della periferia milanese cresciuta grazie all'immigrazione proveniente dal sud Italia, quasi un pezzo di Meridione mal trapiantato accanto alla Tangenziale Ovest e qui stentatamente sopravvissuto all'ombra dell'altissima torre di cemento della Telecom. Un'origine vissuta quasi come uno stigma di cui è difficile liberarsi.
 A Rozzano la madre e il padre di Jonathan sono due ragazzi come tanti: famiglie proletarie, pochi studi alle spalle, scarse prospettive per l'avvenire. La madre Concetta, detta Tina - alta meno di 160 cm ma bellissima -, ha solo 18 anni quando rimane accidentalmente incinta; l'arrivo del bambino costringe lei e Roberto detto Roby, 21 anni, a prolungare innaturalmente un legame che non può funzionare per via della loro immaturità, della loro incompatibilità caratteriale e della sostanziale diversità delle famiglie dalle quali provengono.
 Tina è dura, a tratti aspra, tende a fidarsi solo degli uomini "sbagliati" di cui si innamora. Roberto è strafottente, incostante, incapace di pensare ad altri che a se stesso: fin da subito tradisce Tina, lavora solo quando vuole comprare qualcosa che desidera, si veste come Renato Zero, suona in una band insieme a Biagio Antonacci, si preoccupa poco del bambino. E anche quando inizia a lavorare come poliziotto, conduce una vita di fatto indipendente da quella della moglie e di Jonathan.
 La contrapposizione fra Tina e Roby è ribadita da quella dei due gruppi dei rispettivi congiunti: la famiglia di Tina (con la giovane nonna Lidia, casalinga, il nonno Sisino, operaio, gli zii ancora bambini) è tutta napoletana, rumorosa, melodrammatica e sboccata; quella di Roberto, invece, è una famiglia di piccoli impiegati, ed è una famiglia "mista", con il dispotico e violento nonno Pier orgogliosamente milanese e la nonna Nuccia siciliana.
 Presto i genitori di Jonathan si separano, e da quel momento, dato che Tina comincia a lavorare (prima come donna delle pulizie, poi come cassiera, poi come rappresentante di prodotti di bellezza, poi come operatrice di mense scolastiche) facendo orari incompatibili con la cura di un bambino, e Roby continua a comportarsi come se non avesse un figlio, il piccolo cresce fra la casa dei nonni materni e quella dei nonni paterni. E' un bambino riservato, che non ama la compagnia di altri amichetti e istintivamente disprezza i modelli "machisti" imperanti nel suo ambiente: gli piace giocare con le bambole della zia Tata e, nelle fiabe e nei cartoni animati, i personaggi con cui tende a identificarsi sono sempre le eroine femminili.

Jonathan Bazzi

 Jonathan Bazzi afferma di non avere vissuto, come accade a molti altri, l'esperienza del momento catartico della "scoperta" della propria omosessualità, ma di avere sempre saputo fin dalla scuola materna di preferire i maschi alle bambine.
 Ciò non significa che il periodo dell'infanzia, quello dell'adolescenza e quello successivo dell'ingresso nella piena giovinezza, con la progressiva presa d'atto della propria identità e delle proprie predilezioni sessuali, non sia problematico e tempestoso per lui. Tra i disagi familiari, un inferiority complex di natura sociale e le difficoltà di relazione derivanti dall'omofobia diffusa nel contesto scolastico, Jonathan fatica a trovare la sua strada: perderà due anni dopo la fine della scuola media prima di acquisire la determinazione per mettersi seriamente sui libri, con un'acribia e un perfezionismo che lo porteranno a diventare il migliore studente di tutto il suo liceo.
 Dal punto di vista sentimentale, però, il protagonista vive a lungo una scissione fra il bisogno d'amore - che lo porta a idealizzare i ragazzi bellissimi su cui focalizza l'attenzione - e l'impulso sessuale, che lo induce a cercare su internet uomini rozzi, brutti, spesso molto più grandi di lui, con cui consumare brevi avventure a sfondo carnale che lo lasciano sfibrato e scontento di sé. Anzi, la necessità di esplorare faticosamente le pieghe della propria ambivalente inclinazione verso gli uomini per diventare pienamente padrone delle proprie scelte pare distrarlo perfino dall'istinto di conservazione, facendogli dimenticare l'esigenza di tenere sotto controllo la propria salute, di sottoporsi periodicamente, per prudenza, al test dell'Hiv anche senza avere intrapreso comportamenti particolarmente rischiosi.
 E' su questo tema che le due linee narrative - quella che racconta i disagi del presente e quella che ricostruisce le vicende del passato -, che si alternano e si rincorrono per buona parte del testo, trovano un punto di convergenza e una saldatura: perché il malessere a cui il protagonista-narratore è soggetto si rivela essere conseguenza di una sieropositività che non aveva mai sospettato e, insieme, di un profondo stato d'ansia cresciuto senza che egli se ne rendesse bene conto.
 L'Aids, oggi, se lo si riconosce in tempo e se lo si cura, può essere tenuto molto bene sotto controllo, e permette a chi ne è stato contagiato di condurre una vita perfettamente normale, riducendo a zero la propria carica virale. Jonathan, che ha avuto la fortuna di non infettare il proprio compagno Marius, riesce così a trasformare la traumatica rivelazione della propria positività all'Hiv in un'occasione di rinascita, di apertura di sé al mondo, senza più paure né timidezze, senza sudditanza nei confronti di atteggiamenti scioccamente discriminatori.
 Il romanzo riesce a essere molto coinvolgente, soprattutto per ciò che riguarda la linea narrativa in cui si ricostruisce la biografia del protagonista, ed è sicuramente importante per la sua capacità di parlare di omosessualità con franchezza onestà e sobrietà, senza l'animosità tipica di chi vuole prendersi delle rivincite. Inoltre ha il merito di tornare a parlare di Aids, di Sieropositività e delle loro ricadute sui comportamenti individuali e sugli atteggiamenti collettivi: temi che il dibattito sociologico ha decisamente messo da parte dopo la sovraesposizione degli anni ottanta e novanta del Novecento. Per questo vale la pena leggere il libro, nonostante non sia straordinariamente originale dal punto di vista stilistico e risulti un po' schematico dal punto di vista strutturale.

Voto: 6,5     

domenica 24 maggio 2020

Gian Mario Villalta, "L'apprendista", Sem


 L'amicizia è uno dei temi che sono stati trattati con più frequenza nella storia della letteratura, e tra le tante coppie di amici raccontate da poeti e narratori alcune sono protagoniste di vicende tanto memorabili, intense e commoventi da essere diventate paradigmatiche. Ciò nonostante non ho mai incontrato nelle mie letture due amici simili ai protagonisti di questo romanzo.
 Fredi e Tilio sono i due anziani sacrestani, silenziosi, riservati ed efficienti, della chiesa parrocchiale di un piccolo centro della provincia veneta; la chiesa è formalmente ancora una "concattedrale" e conserva una preziosa pala di Tiziano - che di tanto in tanto gruppi di turisti di passaggio chiedono di vedere -, ma non è considerata particolarmente importante ed è ormai frequentata soltanto da pochi fedeli, perlopiù avanti con gli anni.
 Per essere precisi, il sacrestano è Fredi, mentre Tilio è il suo aiutante o, se si vuole, il suo apprendista: l'uomo che, da qualche tempo, gli dà una mano. D'altra parte, sebbene siano entrambi in pensione da tempo, Fredi e Tilio non hanno affatto la stessa età: il primo ha ormai 85 anni, le sue condizioni di salute sono piuttosto precarie e, nonostante abbia una volontà di ferro, tenere pulita la chiesa è un impegno sempre più gravoso per lui. Il secondo invece di anni ne ha solo 72, è un uomo onesto e tranquillo, ma non è mai stato un "baciapile": prima di conoscere Fredi, in chiesa ci veniva giusto a Natale, o in occasione di matrimoni e funerali; l'ultima volta per assistere al funerale di sua moglie Irma, morta da due anni.
 Le giornate di Fredi e Tilio sono scandite dalle messe e dalle altre cerimonie religiose che si succedono a orari precisi: la messa prima, alle sette; la domenica, la messa grande, a mattina inoltrata; nel tardo pomeriggio, la messa serale. E poi i vari suffragi, fatti celebrare dai fedeli in memoria di parenti defunti, a cui partecipa normalmente solo una manciata di persone.
 Il compito dei due uomini è quello di preparare tutto l'occorrente per la funzione e di assistere il prete durante la celebrazione, guidandolo discretamente nei passaggi da una fase all'altra del rito, affinché tutto proceda fluidamente e il ruolo del sacerdote spicchi in tutta la sua ieratica centralità. Uno dei due, al momento stabilito, passa tra i banchi a raccogliere le offerte in denaro. Poi, al termine della messa, si deve pulire la chiesa, vanno spente le candele accese dai fedeli e occorre cominciare a predisporre ogni cosa per l'evento successivo. 
 I sacerdoti che si avvicendano all'altare non sono tutti uguali: don Livio è colto, distante, molto compreso nel suo ruolo, e durante le sue prediche ha l'abitudine di commentare il Vangelo citando altri passi delle Scritture; don Luigi è più semplice, meno rigoroso, nelle sue prediche tende spesso a perdere il filo e qualche volta fa discorsi sconclusionati, ma la sua domestica mediocrità può sembrare rassicurante a molti fedeli; don Andrea, il giovane prete che viene in parrocchia solo in speciali circostanze, invece, è molto energico, concreto e assai in gamba e, sebbene non possa contare sulla preparazione teologica di don Livio, riesce a interpretare le Scritture in maniera assai efficace.

 Gian Mario Villalta

 Fredi e Tilio hanno ciascuno il suo preferito, e a volte ne discutono anche, nelle lunghe ore di pausa, passate all'ombra della sacrestia: d'inverno sotto pesanti coperte - dato che la chiesa è mal riscaldata - a sorseggiare caffè corretto con la vodka, d'estate a ristorarsi nel fresco garantito dalle spesse mura dell'antico edificio bevendo caffè freddo. Del resto Fredi e Tilio hanno temperamenti molto diversi: uno è "fermo in se stesso", rigoroso nei suoi principi, pieno di riserbo, e considera l'etica del dovere da compiere come un argine contro le inquietudini capaci di distrarre dal proprio compito e di destrutturare la propria personalità; l'altro è più incline alla fantasticheria (più sognarello), più portato a farsi domande e a mettere tutto in discussione, anche se non è mai stato un uomo di studi e non ha mai fatto scelte consapevolmente "trasgressive".
 Anche le loro storie sono molto diverse; e proprio nella graduale condivisone delle loro vicende esistenziali, nella confidenza che matura a poco a poco e si fa strada in due caratteri non troppo espansivi, germoglia lentamente il seme di un'amicizia profonda e autentica, che lascia venire a galla l'irriducibile complessità umana di due individui solo apparentemente privi di complicazioni.
 Scopriamo così che Tilio ha sviluppato un'idea assai problematica della fede, messo duramente alla prova dalla malattia e dalla morte della moglie Irma; che Veronika, la badante ucraina che negli ultimi mesi dell'agonia di Irma è stato costretto a mettersi in casa perché gli desse una mano, non ha costituito per lui il pretesto per abbandonarsi a svaghi boccacceschi alle spalle della moglie - come raccontano i pettegolezzi di paese -, ma l'ancora di salvezza a cui aggrapparsi per non andare umanamente alla deriva, quando tutto sembrava crollargli addosso; che il figlio Paolo, istruito e benestante, responsabile e dedito al lavoro tanto da diventarne quasi schiavo, avrebbe ancora qualcosa da imparare dal padre in termini di lucidità nella concezione del mondo e di franchezza nei rapporti umani.
 Scopriamo che Fredi, il cui rigore può essere scambiato per conformismo, ha avuto in realtà una vita molto avventurosa, e ha saputo fare scelte scomode: entrato nell'esercito sulle orme del padre, militare di carriera, ne ha preso congedo dopo avere saputo che il genitore, durante la guerra, non è stato un eroe dell'onore e delle libertà, ma uno squallido repubblichino al servizio dei nazisti; in profonda crisi esistenziale, ha lasciato la fidanzata Simona - studentessa di lettere all'Università di Trento - che era in procinto di sposare, e ha deciso di partire per il Giappone come missionario laico. In Giappone, al servizio della Chiesa cattolica, è restato diversi decenni, ha assorbito la cultura del Paese del sol levante e ha anche avuto una lunga storia con una donna, anche se non ha più pensato al matrimonio. E' rientrato in Italia solo per veder morire suo padre e poi più tardi, ormai anziano, per mettersi a riposo.
 A saldare l'amicizia fra Fredi e Tilio, così, finisce per essere non solo la disponibilità a mettere a confronto, a tollerare e a conciliare le rispettive visioni del mondo, ma anche la condivisione delle debolezze e dei rimpianti di ciascuno, il tentativo di trovare nella loro nuova confidenza la giusta misura per comprendere e accettare la propria finitezza, la propria fallibilità, la propria disperazione senza arrendersi passivamente ad esse.
 Da tutto ciò viene fuori una storia di vibrante lirismo, esaltato dall'utilizzo di uno stile semplice, piano, a tratti ricalcato su un'oralità intrisa di dialettismi, attraversata da silenzi carichi di ritegno: l'idioma popolare dei sentimenti autentici.
 Sentimenti espressi nell'ultimo messaggio vergato di suo pugno da Tilio affinché il prete lo possa leggere in chiesa in sua vece quando Fredi muore, prostrato dagli anni e dal mal di cuore, ma che con un pudore che sarebbe piaciuto all'amico, l'apprendista decide infine di censurare: E' stato un onore contare le candele per te, mio samurai, mi dispiace soltanto di averti abbracciato una sola volta.
 Il libro è davvero bello, così inconfondibilmente italiano eppure giocato su toni e su temi inconsueti nella nostra letteratura, che mi ricordano piuttosto una raffinata scrittrice americana come Marilynne Robinson.

Voto: 7 

domenica 17 maggio 2020

Daniele Mencarelli, "Tutto chiede salvezza", Mondadori


 Con questo romanzo di matrice autobiografica, Daniele Mencarelli accompagna il lettore nell'universo della malattia mentale. Nel farlo, si spoglia di qualsiasi libidine letteraria, lasciando da parte ogni riferimento alla tradizionale, suggestiva correlazione tra arte e follia, per proporre una narrazione scabra e dura, in cui la pazzia è presentata come nuda sofferenza.
 Pochi i personaggi, essenziale l'ambientazione, povera e popolarmente incandescente la lingua che viene scelta per descrivere uomini, sentimenti e situazioni.
 L'incipit è quasi dantesco: Daniele, ancora intontito dai sedativi, viene ridestato dalle urla dei suoi compagni di stanza nel reparto di psichiatria di un ospedale nella zona dei Castelli Romani mentre uno di loro, munito di un accendino trovato chissà dove, tenta di appiccare il fuoco ai suoi capelli.
 E in effetti non è molto diverso da un girone infernale il luogo in cui - dopo un accesso di collera durante il quale ha devastato la casa dei suoi genitori e ha provocato in suo padre un malore che l'ha quasi ucciso - il protagonista-narratore viene confinato per una settimana in Trattamento Sanitario Obbligatorio: una stanza immersa in un caldo soffocante, condivisa con altri cinque malati vittime di gravi disturbi; un solo bagno maleodorante per tutti i degenti; un corridoio cieco lungo appena dieci metri; un minuscolo locale ricreativo, con una finestra e un vecchio televisore; infermieri scorbutici e sgarbati, impauriti dai pazienti, abbrutiti da anni e anni di servizio in un reparto difficile; medici distanti, incapaci di empatia, inclini a trattare le persone che hanno in cura come meri casi clinici, macchine biologiche dagli ingranaggi difettosi ai quali va innanzitutto impedito di fare danni.
 Siamo nel giugno del 1994, stanno per iniziare i Mondiali di calcio negli Stati Uniti a cui parteciperà anche la nazionale italiana allenata da Arrigo Sacchi e Daniele, che ha da poco compiuto vent'anni, vorrebbe poter fuggire da quella specie di prigione per andare a vedere le partite con gli amici, cercare di farsi perdonare dai suoi familiari per tutto ciò che hanno dovuto subire a causa sua, tornare come un tempo al lago di Albano per trovare un po' di refrigerio da quel clima torrido.
 Del resto, la consuetudine che ha sviluppato con psichiatri e psicofarmaci lo induce a riporre ben poche speranze nella possibilità che quel ricovero possa in qualche modo migliorare il quadro complesso dei suoi squilibri.
 Eppure, contemporaneamente, guardando i derelitti che sono suoi compagni di sventura e nella cui condizione, come in uno specchio, riesce a vedere riflessa l'immagine del suo stesso disagio di fronte al mondo, Daniele comprende di aver bisogno di un aiuto; alla sua età non può rassegnarsi a una vita da alienato.
 E poi, di tanto in tanto, a ondate, sente ritornare ad assillarlo l'ansia che l'ha portato lì, e che forse fuori dall'ospedale tornerebbe a sommergerlo del tutto; un'ansia simile a quella di cui ha sempre sofferto sua madre, ma in qualche modo moltiplicata, acuita, resa incontrollabile dalla sua particolare sensibilità, o dalla sua conclamata debolezza; un'ansia che lo espone a tutto il male che vede intorno a sé, al senso della spaventosa fragilità e della precarietà della condizione umana, all'incubo persistente della morte, e lo spinge a chiedersi come facciano gli altri, i "normali", a non farsi schiacciare da tutte queste cose, e gli fa febbrilmente anelare con tutto il suo essere a un bene che solo una parola può efficacemente compendiare, una parola che gli sembra debba gridare l'universo intero: salvezza

Daniele Mencarelli

 A ben vedere, tutti i suoi compagni di degenza - a cui il protagonista si accosta gradualmente e nei confronti dei quali matura affetto e pietà - non sono altro che degli afflitti senza speranza che chiedono salvezza, che desiderano solo essere soccorsi, essere aiutati a liberarsi dall'angoscia che in modo diverso, per cause diverse e con diversi gradi di intensità attanaglia ciascuno di loro.
 C'è Gianluca, un gay quarantenne che parla di sé al femminile, si veste da donna e pensa sempre al sesso, afflitto da una psicosi maniaco-depressiva forse originata - fra le altre cose - dall'incapacità di una madre opprimente di accettare il modo di essere del figlio.
 C'è Giorgio, un gigante di circa trent'anni che invece la mamma l'ha persa improvvisamente da bambino - e non è più riuscito a riprendersi dal trauma della sua morte e dal fatto che i medici, all'epoca della tragedia, gli impedirono di vederla per un'ultima volta - e il cui sviluppo psicologico si è fermato alla preadolescenza.
 C'è Mario, un sessantenne che assomiglia come una goccia d'acqua a Brian May, il chitarrista dei Queen: un ex maestro elementare colto e gentile, mite e capace di ascolto (anche se Daniele viene a sapere che, incredibilmente, in preda alla depressione, in passato ha cercato di uccidere la moglie e la figlia), che passa le sue giornate a contemplare serenamente un uccellino che ha fatto il nido sull'albero davanti alla sua finestra.
 C'è Madonnina, un giovane uomo secco, allucinato e sporco; nessuno sa chi sia o da dove venga, egli non riesce a dire nulla di sé ed è eternamente in balia di una specie di disperazione cosmica che gli fa ripetere all'infinito la stessa invocazione pronunciata con parossistico sgomento: "Maria ho perso l'anima! Aiutami Madonnina mia!".
 C'è Alessandro, un manovale misteriosamente precipitato in un assoluto stato di catatonia dall'incapacità di erigere a regola d'arte il tramezzo di cui il padre muratore gli aveva affidato la costruzione, che seduto nel letto di fronte a Daniele fissa costantemente un punto indefinito mezzo metro sopra la sua testa.
 E, nel contiguo reparto femminile - vietato a Daniele e ai suoi compagni, cui viene fatto credere che dietro la porta sempre chiusa in fondo al corridoio siano confinati i "cattivi", i malati intrattabili - c'è Valentina, che a quattordici anni è stata sedotta e abbandonata da un ragazzo più grande e, da allora, ripudiata dalla famiglia, vive nell'attesa folle e ossessiva del ritorno impossibile di un amore che in realtà non è mai stato tale. 
 Ma la stessa pietà meritano anche gli infermieri e i medici: Lorenzo "Pallesecche", che viene tiranneggiato dalla fidanzata; Rossana, che lavora di notte perché durante il giorno assiste il marito disabile; Pino, che dietro la sua malacreanza nasconde un ventennale amore non corrisposto per la collega, la stanchezza per un lavoro che non gli piace, il sogno sempre rimandato di aprire una bottega di fruttivendolo, riprendendo la professione dei propri genitori.
 E poi il dottor Mancino, che non sembra un medico ma un rugbista, e forse avrebbe davvero voluto fare altro nella vita, vista la scarsa attenzione che presta ai malati; e il dottor Cimaroli, all'apparenza più empatico e cortese, ma alla prova dei fatti anch'egli approssimativo e incapace di dare davvero ascolto ai suoi pazienti.
 Tutti costoro vivono sotto lo stesso cielo, tutti, in qualche modo, impostano il proprio rapporto con il reale su un gioco sottile di rimozioni, elusioni, precari compromessi atti a stabilire un equilibrio provvisorio tra paure, bisogni e desideri; tanto che viene il sospetto che la differenza tra sani e malati sia in fondo molto meno marcata di quanto comunemente si creda.
 Il libro è potente: la scansione in sette capitoli, basata sulla successione dei sette giorni della durata del TSO, è quasi purgatoriale; la secchezza e la semplicità con cui vengono descritte le dinamiche sentimentali che si sviluppano all'interno del reparto di psichiatria e determinano lo stato d'animo dei personaggi e l'evoluzione della loro condizione mentale sono efficacissime dal punto di vista espressivo. In più, l'uso del romanesco, con la sua perspicuità, col suo intimo calore e a volte con la sua grossolanità è semplicemente commovente.
 Assolutamente da leggere, secondo me.

Voto: 7,5

domenica 10 maggio 2020

Valeria Parrella, "Almarina", Einaudi


 Libro esemplare sotto diversi punti di vista: per equilibrio stilistico, concretezza realistica, intensità emotiva, compattezza narrativa.
 Elisabetta Maiorano è un'insegnante di matematica che presta servizio presso il carcere minorile dell'isola di Nisida, sotto la collina di Posillipo, all'estremità sud-occidentale del quartiere napoletano di Bagnoli. Elisabetta ha poco più di cinquant'anni e da alcuni mesi ha perso il marito Antonio, portato via improvvisamente da un infarto.
 La sequenza dell'arrivo in ritardo in ospedale - dato che, al momento del malore di Antonio, ella stava facendo lezione, e come sempre aveva dovuto lasciare il telefono cellulare sul quale l'avevano cercata in una cassetta di sicurezza all'ingresso della casa di correzione -, del bacio al cadavere del marito già freddo disteso su un tavolo dell'obitorio, del dolore ostentato dalle cognate (che sembravano voler reclamare il monopolio della pena per la morte del fratello), del funerale durante il quale l'unico elemento consolatorio è stato lo sguardo aperto a un affetto sincero del Comandante delle guardie penitenziarie del carcere, pesa ancora come un macigno sul cuore della protagonista.
 Il suo con Antonio, del resto, è stato un autentico legame d'amore, fatto di complicità, dedizione e consonanza di vedute; non perfetto, certo, e non privo di incomprensioni, di attriti, di momenti di appannamento, ma proprio per questo più vero e appassionato, e tale da suscitare una nostalgia senza fine.
 Anche ora che Elisabetta sta recuperando a poco a poco il desiderio di vivere - e magari di avere un uomo accanto -, il sentimento della mancanza del marito, che all'inizio sembrava aggredirla da ogni lato alla sola vista degli oggetti che gli erano appartenuti, o delle stanze che l'avevano visto ridere e parlare, si è rintanato nel fondo della sua coscienza, annidandovisi stabilmente e diventando parte della sua rimodellata identità.
 Il rimpianto più grande di Elisabetta è quello di non avere avuto figli: la gravidanza non era arrivata per via naturale, e anche un tentativo di inseminazione artificiale era andato a vuoto; così la coppia aveva avviato il lungo iter per accedere all'adozione di un bambino, ma la morte di Antonio ha vanificato del tutto il faticoso percorso compiuto.
 I giovani detenuti di Nisida, naturalmente, costituiscono per la protagonista, in qualche modo, dei sostituti dei figli che non sono arrivati. E tuttavia, la notevole problematicità di alcuni di loro, unita al fatto che tutti gli allievi, a un certo punto e senza preavviso, spariscono per sempre dall'orizzonte della loro insegnante - o perché hanno espiato la pena, o perché per decisione del Tribunale vengono affidati ai servizi sociali, o perché, essendo stati condannati a lunghe pene detentive, raggiungono l'età stabilita per passare dal carcere minorile a un penitenziario riservato agli adulti - sconsiglia a educatori e custodi di farsi completamente carico dal punto di vista emotivo delle loro vicende.  
 Eppure non è facile mantenere il necessario distacco per chi ha fatto una scelta come quella di Elisabetta Maiorano che, rientrata a Napoli dopo aver insegnato per anni a Treviso, una volta ottenuta una cattedra di ruolo, ha optato per la scuola di Nisida immaginando solo molto vagamente quello che la aspettava. Nonostante la strafottenza che qualche volta gli allievi mostrano, nonostante il palese disinteresse per la matematica di alcuni di loro, nonostante la scarsissima attitudine alla materia dei più, infatti, frequentando quotidianamente quei giovani cresce la consapevolezza che alla maggior parte di loro è stata di fatto negata l'adolescenza, e qualche volta anche l'infanzia; che, nel migliore dei casi, essi usciranno dal carcere per tornare nell'ambiente in cui sono cresciuti, e l'ambiente in cui sono cresciuti è il motivo principale per il quale si trovano in carcere.

 Valeria Parrella

 E poi, come si fa a non stare dalla loro parte, quando li vede giocare a pallavolo insieme alle guardie, allegri e spensierati come dei ragazzini? Quando si legge la gioia nei loro occhi per il pane che hanno imparato a sfornare frequentando il laboratorio di arti bianche? Quando uno di loro scopre di saper risolvere brillantemente un'equazione e si sente all'altezza di chiunque altro, anche se non potrà mai coltivare il suo talento, perché presto la vita lo porterà lontanissimo dai banchi di una scuola?
 A volte accade che questo senso di solidarietà sfoci in un affetto più profondo: è quello che accade a Elisabetta quando incontra Almarina.
 Almarina è una ragazza romena di 16 anni arrestata per un piccolo furto dopo essere fuggita dalla casa famiglia a cui era stata destinata al suo arrivo in Italia insieme al fratellino, da cui è stata subito separata perché il bambino è stato destinato all'adozione.
 La sua storia è costellata di atrocità: violentata ripetutamente dal padre incestuoso quando ancora era una ragazzina, è rimasta incinta e ha poi dovuto ricorrere all'aborto; alla morte della madre, la nonna ha caricato lei e il fratello su un furgone diretto verso l'Italia per evitarle una vita d'inferno sotto lo stesso tetto del genero degenerato. Per pagarsi il viaggio e proteggere il bambino, però, Almarina ha dovuto concedersi più volte alle sue scorte. Così, è arrivata al termine del viaggio psicologicamente distrutta, solo per vedersi allontanare dall'unico affetto che le è rimasto.
 In classe, nel carcere, Elisabetta si rende conto a poco a poco dell'interesse di Almarina per i libri, e comincia a prestargliene qualcuno dei suoi. Da lì nasce un rapporto che cresce lentamente, fino a quando il direttore del carcere, a Natale, concede alla ragazza settantadue ore di permesso, e la protagonista la porta a casa sua, la lascia stare con lei, le regala dei vestiti, la aiuta a truccarsi e a mettersi lo smalto sulle unghie.
 Da quel momento, Elisabetta Maiorano comincia a cullare l'idea di richiedere l'affido di Almarina; un desiderio che - contro ogni norma - non la abbandonerà neppure quando Almarina, scontata la sua pena, per lo sgomento della protagonista, lascerà di punto in bianco Nisida per essere affidata alla comunità guidata da don Valentino, a Pozzuoli, destinata agli orfani gettati dalla solitudine e dalla mancanza di sostegno sul greto dell'illegalità..
 Elisabetta lotterà così per superare tutte le consuetudini giuridiche e tutti i problemi procedurali pur di provare a intraprendere e a percorrere fino in fondo la strada piena di incognite ma irresistibilmente attraente di questo nuovo legame.
 Il romanzo è emozionante senza ostentare sentimentalismo: la voce di Elisabetta Maiorano, che narra la sua storia e quella di Almarina in prima persona, viene resa vibrante da una scrittura tesa - precisa ma istintiva - a tratti nervosa, con scatti che sprigionano un sapore autentico e ne enfatizzano la potenza espressiva.
 La vicenda narrativa si viene costruendo progressivamente attraverso piccoli guizzi poetici e più distesi flussi verbali che, accostati gli uni agli altri, compongono un resoconto letterario palpitante, fremente, pieno di vita e di vivacità, percorso da bagliori simili a quelli che attraversano un quadro divisionista.
 Il risultato complessivo è tale da rimanerne conquistati.

Voto: 8

domenica 3 maggio 2020

Alessio Forgione, "Giovanissimi", NN Editore


 Marocco ha poco meno di quindici anni e vive in un piccolo appartamento nel quartiere napoletano di Soccavo insieme al padre, che lavora in città come impiegato. La madre, invece, se ne è andata alcuni anni prima, proprio alla vigilia della partenza della famiglia per le vacanze al mare, ponendo fine a una stagione di liti furiose con il marito e abbandonando il figlio ancora bambino. Da allora non ha più fatto avere sue notizie; si sa solo che si è trasferita a Bologna.
 Il ragazzo sente moltissimo la mancanza della mamma, e più cresce, più il vuoto che avverte tende a trasformarsi in una rabbia sorda, in una disperazione nutrita dal sospetto che la madre non provi più alcun affetto per lui, e che i ricordi che gli restano dei suoi teneri abbracci siano soltanto frutto di fantasia.
 Questo disagio, negli ultimi mesi, ha cominciato a ripercuotersi anche sul suo rendimento scolastico: se quando frequentava la scuola media era un ottimo studente (grazie a un equilibrio fondato sulla certezza che tutto in famiglia si sarebbe presto sistemato e sulla speranza che suo padre, per premiarlo dei buoni risultati, gli avrebbe comprato un motorino), ora, al liceo, i suoi voti sono sconfortanti e l'estraneità che sente rispetto all'ambiente in cui è costretto a passare gran parte del suo tempo - complice anche l'insensibilità di alcuni insegnanti - è totale.
 Neppure il contesto che fa da sfondo alla sua inquieta adolescenza - e del cui degrado egli si rende conto sempre meglio - lo aiuta: il quartiere è povero, grigio e sporco, e la criminalità è tanto pervasiva che può capitare, mentre si torna a casa, di trovare il cadavere di un morto ammazzato a pochi passi dal portone del proprio palazzo. E quando, di pomeriggio, Marocco incontra i suoi amici Marco, Tonino e Lunno davanti allo stadio in cui la domenica gioca il Napoli, il loro passatempo preferito è fumare hashish mentre si raccontano storielle sporche sulle ragazze che conoscono.
 Poche sono le cose che interessano davvero il protagonista, e lo fanno stare bene o sentire importante. Fra di esse, l'ufologia, la lettura dei fumetti di Dylan Dog, Maria Rosaria (la ragazza dalla lunga coda di cavallo e dalle "belle zizze" di cui è innamorato) e, soprattutto, il calcio: Marocco gioca a centrocampo in una squadra della categoria Giovanissimi, ed è una vera promessa, tanto che gli osservatori della Salernitana lo tengono d'occhio insieme ai compagni Gioiello, Fusco e Petrone.
 Questi sembrano i punti fermi a partire dai quali sarebbe forse possibile, per lui, ritrovarsi e imparare a poco a poco ad affrontare i propri spettri. Ma la vita urge, non rispetta i nostri tempi e ignora i nostri desideri, e la realtà ci assedia con la sua crudezza, il suo cinismo, la sua tortuosità, la sua inesorabilità. 
 Succede così che Lunno, il migliore amico del protagonista, la persona che egli stima di più per la calma che unisce alla sua straordinaria forza fisica, per la sua sobrietà e per la sua maturità, lo coinvolga in un piccolo spaccio di stecche di "fumo" da smistare nei bagni del suo liceo e poi - pur senza volergli fare del male di proposito - gli "porti via" Maria Rosaria, facendosi vedere sempre più spesso con lei a scambiarsi tenerezze; succede così che un destino crudele travolga i migliori compagni di squadra di Marocco: Gioiello - il centravanti veloce e spietato -, rinchiuso in un carcere minorile dopo aver ucciso a coltellate durante una rissa un altro ragazzo per difendere la sua fidanzatina, e Fusco - il maestro dei calci di punizione - morto precipitando da un balcone durante un tentativo di rapina in un appartamento del centro città.  

Alessio Forgione

 Mentre tali amari e tragici avvenimenti si accavallano lasciando Marocco affranto e frastornato, mentre le settimane passano avvicinandolo al momento in cui dovrà prendere atto dell'inevitabile bocciatura, un solo raggio di luce riesce a squarciare il pesante tappeto di nubi che soffoca le sue giornate: l'incontro con Serena - la cugina di Maria Rosaria -, che egli all'inizio trova semplicemente non sgradevole, per la quale concepisce poi un'attrazione basata sulle sue doti di giovane maggiorata fisica, e con la quale nasce infine una intesa profonda, una tenerezza fatta di comprensione reciproca e di una passione già quasi adulta.
 Grazie a Serena, Marocco si riconcilia con Lunno - l'amico sincero di cui ha più che mai bisogno -, e la dolce presenza della ragazza accanto a lui riesce a far sembrare ogni cosa più sopportabile: lo squallore di Soccavo, le sfuriate della professoressa Raiola, i brutti voti in latino, la paura di deludere suo padre, l'appannamento della sua vena calcistica, i malumori del Mister, persino la sorte atroce di Gioiello e Fusco e il dolore acuto dovuto all'assenza della madre. 
 Insieme a Serena il ragazzo scopre la purezza di un amore appena nato - e, a poco a poco, anche le gioie dell'erotismo -, e con Lunno concepisce il progetto ardito di andare a trovare lei e Maria Rosaria al mare, in Calabria, nel successivo mese di luglio.
 Alla fine, però, ancora una, volta l'aridità del reale prosciugherà il pozzo dei suoi sogni: proprio quando tutto sembra andare per il meglio e il momento della partenza si avvicina, lui e Lunno avranno uno stupido incidente mentre corrono sul motorino comprato con i proventi dei loro piccoli affari illeciti; Marocco si fratturerà malamente una gamba - compromettendo forse il suo futuro sportivo -, ma il suo amico perderà addirittura la vita, segnando inevitabilmente con la sua morte la fine prematura di tutte le illusioni concepite dal giovane cuore del protagonista.
 Il libro, con la facilità e la franchezza del suo stile, ha la capacità rara di conquistare l'attenzione del lettore e di appassionarlo alla trama e ai suoi personaggi; in più il titolo "calcistico" è sicuramente azzeccato, e richiama in me ricordi personali ed emozioni di un'epoca ormai lontana (quasi quanto quello scelto alcuni anni fa da Cristiano Cavina per una sua storia molto diversa da questa: Un'ultima stagione da esordienti). 
 Oltre al tono, molto riconoscibile, la virtù principale di questo romanzo è proprio la capacità di mettere in scena personaggi perfettamente credibili, in particolare Lunno e Serena, che presentano notevoli tratti di originalità e risultano figure memorabili. In un certo senso viene trattata come un personaggio - guardato con affetto e nel contempo con rammarico - anche la città di Napoli, che in questo libro (come già accadeva del resto in Napoli mon amour, la prova d'esordio dell'autore) rappresenta una realtà totalizzante, imprescindibile, al punto tale che diventa anche difficile immaginare di superarne i confini.
 E' forse per questo che qui, come nel precedente romanzo, Forgione sceglie per concludere la trama l'esito apparentemente più facile: là la morte del protagonista, in questo caso la morte del migliore amico del protagonista (che proietta però anche su Marocco l'ombra di una fine ineluttabile). Si tratta della traduzione tematica di un giudizio meditato, sconfortato e sconfortante su tutto un universo sociale e culturale - in sostanza la presa d'atto dell'incapacità di Napoli di andare oltre se stessa - o di un limite della fantasia dello scrittore? Ai lettori l'ardua sentenza.

Voto: 6,5