domenica 26 aprile 2020

Fredrik Sjöberg, "Mamma è matta, papà è ubriaco", Iperborea


 Nel suo genere, questo libro è un capolavoro. L'eclettismo peripatetico dell'autore, infatti, vi si dispiega in tutta la sua allegra e fastosa effervescenza, dando luogo a una lunga passeggiata narrativa nutrita di curiosità, erudizione, passione, gusto per l'arte, una vivace vena pettegola e una particolare simpatia per le sorti sfortunate.
 Il risultato di questo percorso è la ricostruzione della figura e della produzione artistica di un pittore danese - attivo tra il secondo e il terzo decennio del Novecento - talentuoso ma oggi quasi del tutto dimenticato, Anton Dich. E tuttavia, tutto quello che ci viene raccontato e tutte le informazioni che ci vengono fornite non sembrano l'esito di un lungo processo di studio e di un faticoso lavoro di ricerca, bensì paiono scaturire da una brillante divagazione che si sviluppa in modo imprevedibile, felicemente tortuoso e ostentatamente digressivo, attraverso continue sorprese e colpi di scena sfoderati con levità e sull'onda di un'inesauribile ironia.
 La storia che leggiamo, in questo modo, sembra più che mai frutto del caso: casuale pare essere la sua restituzione odierna come casuale fu il suo sviluppo allora; e Uno studio sul caso è il sottotitolo, quanto mai appropriato, del testo.
 Per Sjöberg tutto comincia dal fortuito ritrovamento di un bel quadro di Anton Dich, dipinto nel 1921 in Costa Azzurra, che ritrae le cugine Hanna e Lillan, due ragazze entrambe quindicenni, sebbene la prima sembri più matura e infinitamente più triste della seconda. 

 Quello di Dich è un nome misterioso, in cui l'autore si era imbattuto anni prima facendo ricerche su un altro pittore, lo svedese Olof Ågren, che lo nominava en passant in una sua lettera come nuovo marito di Eva Arosenius, vedova del famoso illustratore Ivar Arosenius.  Sjöberg non aveva capito allora di chi si trattasse: pochissime, infatti, sono le tele superstiti di Anton Dich e incredibilmente scarsi i documenti che conservano traccia di un artista troppo dotato per essere consegnato a un oblio assoluto nemmeno cent'anni dopo la sua morte.  
 Così, la via più semplice per cercare di mettere a fuoco la sua figura risulta quella che parte dalla moglie, anzi dalla sua famiglia. Eva, infatti, era figlia di Johanna Bondesdotter e di Jöns Adler; la madre - inaugurando una duratura tradizione eminentemente matriarcale che bene o male percorre tutte le vicende dei suoi discendenti negli ultimi 150 anni - prendendo le mosse da una semplice latteria nella campagna a sud di Trollhattan, in un frangente economicamente propizio, era riuscita a costruire un vero e proprio impero caseario. Nei decenni successivi, diversificando i propri investimenti, gli Adler sarebbero diventati una delle famiglie più cospicue di tutta la Svezia. 
 Fra i figli di Johanna e Jöns, Axel, il primogenito, aveva uno straordinario fiuto per gli affari, ed era destinato a trasformarsi in uno degli imprenditori più fortunati del periodo interbellico su entrambe le sponde dell'Atlantico (senza peraltro derogare alla tradizione matriarcale di cui si parlava, visto che sua moglie fu l'attivista politica Rut Hallenborg, che gli impose di trasformare la sua casa in un punto di ritrovo di tutto il mondo progressista dell'epoca). Le tre sorelle Eva (nata nel 1879), Elvi (nata nel 1880) e Lisa (nata nel 1883) avrebbero invece coltivato tutte ambizioni artistiche e avrebbero tutte sposato degli artisti. L'ultimo nato Nils Bonde Adler, infine, sarebbe diventato un brillante viveur, scapolo impenitente, collezionista e mecenate, senza mai dedicare troppe energie al lavoro.
 Tutti e cinque gli esponenti della seconda generazione della famiglia Adler vissero una vita lunga, movimentata e anche piuttosto avventurosa.
 E' attraverso una ricognizione delle loro esistenze, delle loro decisioni e delle loro frequentazioni - specie quelle delle tre ragazze - che Sjöberg, con una sorta di manovra di accerchiamento, arriva a dare una fisionomia precisa ad Anton Dich e a farsi un'idea della sua personalità, della sua mentalità e delle sue peripezie.   

Fredrik Sjöberg

 Lisa, studentessa nella Vienna dello Jugendstil, conobbe e sposò l'ebreo galiziano Isidor Gesang, in quegli anni studente di architettura, ma poi diventato famoso come attore del cinema muto col nome di John Gottowt (ebbe una parte importante in Nosferatu e una triste fine: dopo la separazione, negli anni trenta del Novecento tornò in Polonia e, nel 1942, venne assassinato durante un rastrellamento compiuto dalle SS a caccia di ebrei nelle campagne presso Varsavia); dalla loro unione nacquero un maschio, Ivan, e le gemelle Eva e Hanna - che compare insieme alla cugina nel dipinto ritrovato di Anton Dich -, ma la prima, dichiaratamente la preferita della madre (da qui la cronica depressione da cui fu afflitta Hanna, che pure in seguito divenne una campionessa di sci ed ebbe la ventura di ospitare in casa sua Willy Brandt durante la sua fuga verso la Norvegia), morì per una brutta tonsillite in villeggiatura a Rostock quando era ancora una bambina.
 Elvi si maritò con Heinrich Weissenberg (conosciuto grazie al marito di Lisa, che era suo amico) alias Henrik Galeen, sceneggiatore e regista di successo - uno dei pionieri della settima arte -, e fu una vera e propria cittadina d'Europa: visse in Austria, poi a Berlino, poi a Merano, poi a Bordighera, poi  (durante la Seconda guerra mondiale) in Svizzera, prima di fare ritorno a Göteborg.
 Eva - che era bellissima - come detto sposò invece Ivar Arosenius e riuscì a donargli l'equilibrio necessario affinché egli entrasse nella fase più felice e proficua della sua stagione creativa, prima di spegnersi, a soli trent'anni, a causa dell'emofilia; dalla loro unione nacque la bionda Lillan.
 E' qui che entra in scena Anton Dich, che aveva dieci anni in meno di Eva e - come Arosenius - le stimmate del bohémien: amava l'alcol, aveva un carattere scontroso e smodate ambizioni.
 Di condizione discretamente agiata, Dich era stato membro di circoli d'avanguardia in Danimarca, ma li aveva polemicamente abbandonati dando prova del suo spiccato individualismo. Durante il suo apprendistato a Vienna aveva probabilmente avuto come compagno ad un corso di disegno Adolf Hitler (un nudo realizzato a matita dal futuro dittatore è tuttora in possesso degli eredi della famiglia Adler); in seguito - già in compagnia di Eva -, a Parigi e in Costa Azzurra, avrebbe conosciuto e frequentato figure meno sinistre ma forse ancora più ingombranti per chi aspirasse alla gloria artistica come Amedeo Modigliani (di cui fu amico e compagno di bevute, e che ritrasse la figliastra Lillan) ed Henri Matisse.
 Al contrario di quanto accaduto ad Arosenius, Anton Dich non seppe derivare dalla vicinanza della moglie quella stabilità emotiva necessaria a stimolare la sua vena creativa; fors'anche perché Eva, pur senza darlo a vedere, rimpianse sempre il primo marito di cui era profondamente innamorata. Dich continuò così per tutta la vita ad avvitarsi intorno alle proprie insicurezze - vittima di un perfezionismo che lo portava a distruggere sovente tele che gli erano costate molto lavoro ma delle quali non era del tutto convinto - e ad annegare i dispiaceri nell'alcol.
 La sola parentesi felice che conobbe fu quella del soggiorno a Mentone, al principio degli anni venti, durante la quale riuscì a lavorare con regolarità e profitto, producendo un buon numero di quadri di grande formato e di notevole interesse, fra i quali quello che ritrae Hanna e Lillan nel pieno della loro adolescenza.
 Ma durò poco: il successo non arrivava, Anton non era mai soddisfatto a sufficienza delle proprie opere e le cose con Eva andavano sempre peggio. I due cominciarono a vivere di fatto separati, finché nel 1932 non arrivò il divorzio (del periodo infelice vissuto dalla famiglia nel corso degli anni venti è emblematica la frase che dà il titolo al libro, "Mamma è matta, papà ubriaco": un pensiero a voce alta che la giovane Lillan si lasciò sfuggire in treno, in lingua svedese, durante un trasferimento da Nizza a Parigi). Nel frattempo Anton Dich si era rifugiato a Bordighera, dove prese a vivere in solitudine nella stessa casa in cui, prima di lui, aveva alloggiato Claude Monet.
 Si spense, alcolizzato, nel 1935, a poco più di quarantacinque anni, quasi dimenticato: la retrospettiva che era stata organizzata in suo onore a Copenaghen nel 1928 si era inspiegabilmente risolta in un fiasco, e le ventilate possibilità che i musei della capitale danese si procurassero ed esponessero i suoi lavori migliori non si erano realizzate. A questo si aggiunse la sorte avversa: il nipote Ivan, che aveva raccolto i suoi quadri e si era proposto di promuoverli sul mercato internazionale, era morto improvvisamente di peritonite nel 1950. E quando Poul Dich, medico e fratello del pittore, prossimo alla fine dei suoi giorni, aveva fatto un ultimo tentativo nel 1981, organizzando, sempre a Copenaghen, una grande mostra dal titolo Il mondo di Anton Dich, era ormai troppo tardi, e i distratti visitatori erano stati ben pochi.
 La vicenda di Anton Dich diventa così una sorta di paradigma che illustra l'arte del fallire, assecondando un destino inclemente; o forse qualcuno potrà dire che è solo l'esemplificazione dell'imprescindibilità, in questo mondo, dell'attesa: perché, in qualche modo, egli è riuscito, rocambolescamente, a ottenere - se non altro presso l'autore e i lettori di questo libro - quell'attenzione che è la sola forma di sopravvivenza dopo la morte (per quanto puerile ed effimera) su cui con sicurezza possiamo contare.

Voto: 8  

domenica 19 aprile 2020

Denis Johnson, "Jesus' Son", Einaudi


 Pochi mesi fa ho avuto modo di recensire l'ultimo libro realizzato da Denis Johnson prima della sua scomparsa: La generosità della sirena, una notevole raccolta di racconti il cui antecedente diretto nella produzione dell'autore è senza dubbio Jesus' Son, uscito negli Stati Uniti nel 1992, pubblicato in Italia alcuni anni più tardi (dopo che dal libro era stato tratto un film presentato e premiato alla Mostra del Cinema di Venezia), e ora riproposto da Einaudi nella traduzione di Silvia Pareschi.
 Jesus' Son è una rapsodica composizione narrativa costituita da undici racconti, di dimensioni piuttosto contenute, che constano di diversi episodi, fra di loro slegati - o legati solo da un filo sottile -, della vita del protagonista-narratore, un giovane tossicodipendente (noto negli ambienti che frequenta con il periglioso pseudonimo di Testadicazzo) la cui distorta e singhiozzante visione della realtà rende il suo profilo umano e il suo stesso statuto identitario improntati a un'assoluta precarietà. 
 Un'ottica profondamente allucinata, impostata su un punto di vista "esploso", vale a dire di volta in volta frammentato, deformato, appannato, molteplice, corrotto, gelatinoso, evanescente, fantasticamente proteiforme - comunque sempre inaffidabile - è il tratto fondamentale che caratterizza le undici tessere di questo bizzarro mosaico. 
 Tanto che spesso è impossibile stabilire se sia assurdo in sé e per sé il mondo in cui il protagonista si muove, o se a renderlo assurdo siano le sue percezioni, i suoi proponimenti, le sue reazioni alle sollecitazioni a cui la vita lo sottopone. 
 Come quando, dopo un incidente stradale in cui è rimasta coinvolta la famiglia che gli ha offerto un passaggio mentre, bagnato fradicio sotto un diluvio, faceva autostop proteggendosi con il suo sacco a pelo, osserva inebetito un uomo ferito a morte sentendo vagamente l'obbligo di fare qualcosa, ma senza capire bene cosa (Incidente durante l'autostop); o come quando accetta di accompagnare in ospedale due amici strafatti, Dundun e McInnes, dopo che il primo, senza sapere nemmeno bene perché, ha sparato nel ventre al secondo che, come se niente fosse, quietamente muore durante il trasporto sul sedile posteriore di una Plymouth presa a prestito mentre l'auto corre lungo un rettilineo fra campi inariditi, sotto "un cielo in cui sembra che non ci sia aria", in una terra che pare "fatta di carta" (Dundun); o ancora, come quando, nel pronto soccorso in cui ha trovato lavoro come portantino, Georgie, un inserviente suo compagno di bevute, buchi e fumate, distrattamente, senza aspettare l'arrivo del neurochirurgo, dell'oculista e dell'anestesista che sono stati convocati, estrae dalla testa di un paziente - senza fargli del male - il coltello da caccia che sua moglie gli aveva spinto nell'occhio fino all'impugnatura (Emergenza).
 Il modo inerme, completamente straniato, disarmato e innocente con cui vengono descritti eventi e situazioni surreali trasforma un simile delirio percettivo in un vero e proprio afflato lirico di tipo contemplativo. 
 Ci si può imbattere, allora, in passi come quello presente in Fuori su cauzione, laddove si racconta l'incontro tra il protagonista e Jack Hotel, prima che quest'ultimo muoia di overdose: "Cosa non darei, certe volte, per un altro incontro come quello, noi due seduti in un bar alle nove del mattino a raccontarci bugie, dimentichi di Dio". 
 Oppure come quello che troviamo in Happy hour, all'approdo del protagonista - alla ricerca di una giovanissima danzatrice del ventre di cui si è innamorato - al Pig Alley, un locale affacciato sul porto e costruito sopra un pontile traballante: "Il fumo di sigaretta aveva un aspetto sovrannaturale. Il sole scendeva attraverso il tetto di nuvole, infiammava il mare e riempiva la grande finestra panoramica di luce fusa, così i nostri traffici e i nostri sogni si svolgevano dentro una nebbia radiosa". 

Denis Johnson

 La confusione dei piani temporali e l'indeterminatezza della collocazione spaziale di molti degli eventi narrati (vi sono scene che si svolgono in paesaggi tipici del Midwest, a volte ci si ritrova lungo la costa atlantica, si riconosce in parecchi episodi una generica ambientazione urbana, ma nulla più), unite all'illogicità dei comportamenti di molti dei personaggi, danno a chi legge l'impressione di galleggiare su un mare burrascoso, alla deriva sotto un cielo che non offre punti di riferimento.
 La voce che ci parla, d'altra parte, non sembra neppure cercare la nostra comprensione; si accontenta di chiedere la nostra compassione, tanto da arrivare a pronunciare, nell'ultimo racconto, Beverly Home, in una vera e propria allocuzione al lettore, parole di questo tenore: "Come potevo farlo, come poteva una persona cadere così in basso? E capisco la vostra domanda, a cui rispondo: state scherzando? Questo non è niente. Ero caduto molto più in basso di così. E mi aspettavo di fare ancora peggio".
 Proprio Beverly Home è certo il racconto più articolato fra quelli che fanno parte della raccolta, e segna un punto di approdo di tutto il discorso narrativo. Il protagonista - in via di disintossicazione - cerca qui con fatica di condurre una vita più regolata dopo aver trovato lavoro in una casa di cura per anziani e persone disabili. 
 La via verso la "normalità", però, passa per lui innanzitutto da una riconciliazione con la propria stranezza, a partire dalle donne che si mette a frequentare: prima una "bellezza mediterranea" affetta da nanismo, poi una donna menomata nei movimenti dalle conseguenze di un'encefalite infantile, dalla cui conclamata disabilità egli è eccitato e tranquillizzato insieme. 
 La sua routine quotidiana, fra l'altro, in questa fase, ruota intorno a un segreto difficile da confessare: ogni sera, tornando a casa dal luogo in cui lavora, prima di prendere l'autobus, quando fa buio, il protagonista - spinto da un impulso irresistibile - si ferma presso una villetta isolata e, protetto da una siepe, spia dalla finestra del bagno una graziosa donna bionda mentre si lava sotto la doccia, ne esce, si asciuga. Ad affascinarlo non è tanto la nudità della donna - appartenente alla minoranza religiosa della Chiesa mennonita - o la sua sensualità, ma la domesticità della scena a cui assiste.
 Poi, di nascosto, attende che il marito torni dal lavoro in macchina, e dalla finestra del soggiorno osserva le conversazioni della coppia, guarda l'uomo e la donna mentre riposano sul divano o leggono la Bibbia; aspetta che si corichino, e spera ardentemente di coglierli mentre fanno l'amore. Ma lo appaga anche vedere l'uomo che, teneramente, si inginocchia davanti alla moglie per lavarle i piedi, in una sorta di rito. E in fondo, di tutto questo, non si sente colpevole: non prova vergogna.
 La riconquista del benessere e dell'equilibrio, così, non si traduce in un passivo adeguamento a comportamenti conformisticamente standardizzati, bensì nella scoperta che il mondo è un posto dove diversità, stramberie e stravaganze sono di casa, senza dover necessariamente suscitare riprovazione, senza determinare angosciose censure. Concetto che, forse, costituisce la vera morale di questo libro.

Voto: 7

sabato 11 aprile 2020

Emmanuel Carrère, "I baffi", Adelphi


 Scritto nel 1985, ma proposto solo di recente al pubblico italiano, I baffi è un romanzo basato su un semplice artificio narrativo, vale a dire su un inopinato sfasamento fra la percezione individuale della realtà da parte del protagonista - incorporata nel punto di vista dal quale viene condotto il racconto - e la presunta oggettività sancita dal senso comune; solo che questo artificio viene sfruttato fino all'inverosimile, e la sfocatura gnoseologica che ne risulta è spinta a un punto tale da varcare i confini dell'assurdo e da inoltrarsi nei territori della follia.
 La storia è quella di un uomo che un giorno, pigramente immerso nella vasca da bagno, mentre la moglie Agnès è uscita a fare la spesa, decide di farle una sorpresa: senza dirle nulla si taglierà i baffi che porta fin da quando si sono conosciuti.
 Il risultato non lo soddisfa granché, ma tant'è: egli terrà il punto e non aprirà bocca, aspettando la reazione della moglie prima di lanciarsi per gioco nella difesa a spada tratta della sua decisione.
 Il problema è che Agnès, quando rientra, pare non accorgersi di nulla e anzi, nel momento in cui il protagonista - contrariato perché la sorpresa che aveva architettato non ha ottenuto l'effetto sperato - la stuzzica per farle notare la novità, ella nega recisamente che egli abbia mai avuto i baffi.
 Non solo: anche gli amici dai quali i due si recano a cena quella sera stessa - Serge e Véronique - nonostante l'assiduità della reciproca frequentazione, si astengono da qualsiasi commento sul suo mutamento di look. Che Agnès abbia voluto punirlo per non averla consultata prima di tagliarsi i baffi, coinvolgendo la coppia di amici nella congiura del silenzio?
 Per la verità, quando, rientrati a casa, Agnés continua a sostenere di non averlo mai visto con i baffi, e Véronique, raggiunta telefonicamente nel cuore della notte perché possa dirimere l'accesa quanto paradossale disputa che è sorta tra i due coniugi, conferma la versione della moglie, l'uomo comincia a pensare che lo scherzo si sia spinto troppo in là.
 Eppure, il giorno dopo, sul lavoro, Jérôme - il socio con cui condivide la proprietà di uno studio di progettazione architettonica - e Samira, la loro collaboratrice, a loro volta non danno mostra di notare nulla, forse perché troppo assorbiti dal lavoro urgente che stanno concludendo, forse perché coinvolti anch'essi da Agnès nel suo crudele complotto contro di lui: sa che la moglie è capace di questi eccessi e di queste bizzarrie, anche se lui non si era mai trovato ad esserne personalmente il bersaglio...
 Più difficile, però, è pensare che Agnès abbia assoldato anche il tabaccaio, da cui il protagonista si reca a comprare le sigarette, e che sembra pure essere convinto che egli non abbia mai avuto nulla  a coprire lo spazio bianco sopra il labbro superiore.
 Dunque, cosa sta succedendo? Sta forse diventando pazzo? O si può davvero pensare che Agnés si sia data da fare al punto di trascinare un intero esercito di amici e conoscenti in una gigantesca beffa ai suoi danni solo per punirlo di un'innocente omissione nei propri confronti, e che dunque la vera pazza sia lei? 

Emmanuel Carrère

 Il nuovo confronto fra il protagonista e Agnès assume stavolta toni drammatici, perché viene fuori che la donna è realmente convinta che i baffi il marito non li abbia mai avuti, nonostante egli riesca a recuperare dalla spazzatura i resti della sua radicale rasatura. Moglie e marito si spaventano, poi si riconciliano facendo l'amore con passione e decidono, il giorno dopo, di contattare insieme uno psichiatra, arrivando in qualche modo ad ammettere - ciascuno per parte sua magnanimamente - che il problema possa essere dell'uno come dell'altro. 
 Si tratta però solo di una tregua: dopo aver passato una giornata intera pensando a quale sia il modo migliore di stare vicino ad Agnès, che egli ama ma che con tutta evidenza è affetta da una forma più o meno grave di psicosi che non aveva mai palesato, il protagonista viene messo di fronte alla spaventosa evidenza di una serie di fatti che determinano lo sgretolamento del mondo in cui pensa di vivere. Infatti, prima Agnès gli dimostra come le foto in cui egli compare con i baffi - prima fra tutte quella presente sulla carta d'identità - siano state ritoccate con un pennarello nero; poi gli rivela che la vacanza che egli crede di avere fatto con lei un paio di anni prima a Giava non c'è mai stata; infine, addirittura, gli annuncia che gli amici che continua a nominare - Serge e Véronique - non esistono e non sono mai esistiti, e che suo padre, a cui l'uomo affranto vorrebbe a questo punto telefonare, in realtà è morto l'anno prima.
 Il protagonista (lo ricordiamo, detentore dell'esclusiva del punto di vista nel romanzo) sembra dapprima rassegnarsi, annientato, all'idea della propria follia; poi cade preda di una sorta di mania di persecuzione, e comincia a sospettare l'esistenza di un piano architettato dalla moglie e dal suo socio Jérôme - che evidentemente sono amanti - per condurlo alla pazzia e per derubarlo. 
 Decide allora di fuggire: corre all'aeroporto e si imbarca su un volo che, dopo aver fatto scalo in Medio Oriente, lo porta a Hong Kong. 
 Qualche giorno di totale straniamento, passato in preda a pensieri e desideri contraddittori, tra la voglia di tornare in patria a far valere i propri diritti e quella di isolarsi dal suo vecchio mondo ormai assolutamente inabitabile, serve al protagonista per conciliarsi con la sua nuova identità più leggera, meno strutturata; tanto che diventa praticamente indifferente per lui restare in un albergo a Kowloon, trasferirsi a Hong Kong, oppure trascorrere le giornate a fare la spola sul traghetto che collega l'una e l'altra località, con lo sguardo perso fra le onde o nella scia dell'imbarcazione.
 Alla fine è più che altro il caso a portare l'uomo a Macao. Ed è qui che, una sera, tornando in albergo dopo una giornata passata su una spiaggia dove forse è stato troppo a lungo esposto al sole, il protagonista trova Agnès ad aspettarlo nella sua stanza come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se nulla di quello che ha vissuto con angoscia fosse successo realmente, come se si trovassero entrambi tranquillamente in vacanza. 
 A lungo ha sperato che un miracolo del genere avvenisse, che tutto quello che stava vivendo si rivelasse frutto di un incubo terribile, che una sorta di salto di dimensione lo potesse riportare alla normalità; eppure il suo viaggio nel mare dell'assurdo lo ha condotto tanto lontano che ora sembra impossibile tornare indietro.
 Diventa allora una scelta come un altra - un tentativo alla cieca per riscoprirsi padrone del proprio destino - quella che porta il protagonista a correre nel bagno per tagliarsi (nuovamente) i baffi che nel frattempo sono ricresciuti, e lo spinge infine, in quello che sembra un accesso di follia e forse è solo un estremo gesto di ribellione, a usare il rasoio per incidersi a fondo il labbro superiore e poi tagliarsi la gola, come per cancellare, con la sua stessa vita, l'assurdo che domina il mondo.
 Il libro è godibile: l'iniziale spiazzamento del lettore, che in tutta la prima parte del romanzo ha come l'impressione di trovarsi di fronte a un gioco sterile, capzioso, fine a sé stesso e alla lunga un po' stucchevole, si tramuta presto in coinvolgimento, in virtù dell'incalzare degli eventi determinato da un meccanismo narrativo che funziona.
 Forse un po' eccessivo - dettato da un compiacimento per le situazioni inverosimili che si esalta sconfinando nel macabro - è il finale. Eppure anche di esso non ci si dimentica facilmente.

Voto: 6,5

sabato 4 aprile 2020

Patrick Modiano, "Il nostro debutto nella vita", Einaudi


 Anche questo testo teatrale, come tutti i romanzi di Modiano, insiste sul tema della misteriosa persistenza della memoria, della potenza dei ricordi che impregnano gli ambienti frequentati dagli uomini al punto da ricreare il mondo, da permettere di rimpiazzare la realtà incidentale del momento storico attuale con la realtà stratificata e molteplice che scaturisce dal sovrapporsi al presente di tutti i tempi passati, con i fantasmi di tutti coloro che li vissero e li popolarono.
 Protagonista del dramma è Jean, che torna a molti anni di distanza dalla prima volta nel teatro in cui, da giovane, quando era ancora un aspirante scrittore, aveva fatto parte di una compagnia teatrale e aveva conosciuto Dominique, che interpretava la parte di Nina nella messa in scena del Gabbiano di Checov. 
 Muovendosi nella platea deserta, sul palcoscenico, dietro le quinte e nei camerini dismessi, facendosi aiutare da Robert Le Tapia, il vecchio direttore di scena rimasto in carica fin dai giorni che il protagonista ricorda, Jean prova a rievocare l'epoca in cui, nella Parigi degli anni sessanta, lui e Dominique erano innamorati e la ragazza sembrava essere avviata verso una luminosa carriera da attrice. Jean, invece, allora portava sempre con sé il manoscritto del suo primo romanzo: addirittura, durante i suoi spostamenti, legava al polso con un bracciale e una catena la valigetta che lo conteneva per paura che glielo sottraessero per distruggerlo.
 In quel tempo la madre di Jean, Elvire, attrice a sua volta (ma con ben poca fortuna), tentava di scoraggiare l'amore fra il figlio e Dominique, forse gelosa del successo sul palcoscenico della ragazza, forse semplicemente schiava di una logica edipica; mentre Cavaux, l'uomo che viveva con lei (probabilmente senza che fra i due vi fosse una relazione di natura sessuale), un polveroso giornalista-scrittore con la pretesa di rimpiazzare agli occhi di Jean la latitante figura paterna, cercava di dissuadere il ragazzo dal dedicarsi alla scrittura o, piuttosto, tentava di imporgli - in maniera anche piuttosto oppressiva - il suo stile, i suoi gusti letterari e il suo modo di vedere il mondo. 
 Con tutte le loro patetiche fragilità, la loro ansia impaurita e il loro atteggiamento aggressivo, Elvire e Cavaux incarnano la società tradizionale colma di contraddizioni, semi-paralizzata, corrosa dall'interno dai propri reumatismi morali e terrorizzata dalla marea montante delle novità che troverà espressione nel movimentismo giovanile della fine del decennio.

 Patrick Modiano

 Di fronte al pressing ossessivo e incalzante di Elvire e Caveaux, Jean e Dominique erano stati costretti a sottrarsi a un confronto che, inevitabilmente, si sarebbe trasformato in uno scontro, e a difendere con tenacia la propria autonomia e i propri risicati spazi di intimità, arrivando a dormire insieme dentro il teatro: il camerino era diventato la loro alcova, e la messa in scena del dramma dello scrittore russo lo spazio ideale entro il quale le loro personalità prendevano forma, in una sorta di mise en abyme delle dinamiche della vita reale che rischiava quasi di trasformarsi in una trappola per i due giovani: Dominique, Jean, Caveaux ed Elvire, infatti, sembravano destinati a ricalcare i ruoli di Nina, Treplev, Trigorin, Arkadina.
 Ma Jean era ben risoluto a scongiurare l'accostamento: come aveva avuto modo di ripetere più volte a Dominique, lui non si sarebbe ucciso come accade invece a Treplev alla fine del dramma.
 E tuttavia della logica dei rapporti che intercorrono fra i personaggi teatrali, nella rievocazione di cui consta la piece, anch'egli rimane in qualche modo prigioniero, dato che nelle sue divagazioni oniriche che richiamano in vita gli avvenimenti di tanto tempo prima trovano posto le stesse componenti su cui Cechov ha voluto insistere: amore, morte, sopraffazione, ambizioni artistiche frustrate.
 Solo attraverso la ferma rivendicazione della propria libertà, Jean è riuscito a sottrarsi ai ruoli che altri pretendevano fossero ritagliati su misura per lui e a fare in modo che il suo "debutto nella vita" non ne sia stato nel contempo il culmine e il compimento, con la conseguenza del definitivo accantonamento dei propri sogni e delle proprie speranze.
 Eppure il Jean scrittore realizzato di oggi non può fare a meno di rimpiangere e di andare alla nostalgica ricerca di tutto quello che è stato, anche dei contrasti di quegli anni. Perché? Forse perché gli amori confinati al tempo della gioventù sono i soli che durano? O perché il rimpianto è parte integrante della nostra natura? O forse perché l'essenza della vita sta nella perpetua ricapitolazione di quanto si è sperimentato?
 Anche in questo caso, anche esplorando la scrittura teatrale, che gli è meno consueta rispetto a quella narrativa, Modiano riesce a catturarci con il suo stile originale, semplice e affascinante, che sviluppa sempre le stesse idee cardine, ma dissimula una profondità e una complessità quasi vertiginose; uno stile lontanissimo dall'esibito realismo vernacolare - o addirittura caricaturale - che oggi va tanto di moda. Uno stile che potremmo definire "abissale", e che fa indubbiamente di questo scrittore, mentre è ancora in vita, un classico.

Voto: 7