Dopo aver letto nei giorni scorsi un’intervista a Philip Roth, fermo in una rinuncia alla pratica del romanzo che ormai pare definitiva (quasi voglia assaporare fino in fondo il gusto di sopravvivere a se stesso, come un ex grande campione dello sport), mi è venuta voglia di rileggere e commentare una delle sue opere narrative.
The Humbling, penultimo
libro da lui firmato ad oggi pubblicato, è l’ennesimo, breve romanzo frutto
della maturità dello scrittore icona assoluta della letteratura americana. Roth
prosegue qui la sua analisi della vecchiaia e delle menomazioni che essa porta
con sé – vere e proprie anticipazioni della morte –, mettendo in scena la
vicenda di Simon Axler, grande attore teatrale che d’improvviso perde la
capacità di recitare.
Nulla, nonostante le cure a cui
si sottopone e il lungo ricovero in una clinica per la salute mentale, sembra
potergli restituire il talento smarrito, e con esso la serenità, la sicurezza,
la precisa percezione dei confini della propria personalità, la consapevolezza
della propria sostanza umana.
Perduto il ruolo che lo definiva,
Simon resta esposto a tutti i rovesci che la spaventosa precarietà della sua
nuova vita comporta: così, quando si innamora di Pegeen, la figlia ancora
giovane – molto più giovane di lui – di due suoi vecchi compagni di
recitazione, si rende ben conto del pericolo a cui si espone, il pericolo di
essere psicologicamente demolito da un eventuale abbandono; ma non può fare
nulla per evitarlo. Tanto più che Pegeen, che in realtà è lesbica, non è mai
stata con un uomo, e si sente fondamentalmente attratta soltanto da una
declinazione del desiderio erotico per lei inedita.
Un recente ritratto fotografico di Philip Roth
Così, quando Peegen puntualmente
lo lascia, a Simon non resta che una sola opzione: trovare il coraggio di
suicidarsi per recuperare, in qualche modo, la dignità di un profilo umano
definito.
Il libro è interessantissimo:
Roth tenta di rappresentare l’uomo nudo, privato totalmente dei suoi punti di
riferimento, recuperando in un colpo solo tutta l’esperienza della grande
letteratura del Novecento e calandola in un contesto “moderno”; un contesto, cioè
in cui il protagonista si illude di saper governare il relativismo che
caratterizza la propria dimensione umana, ma alla fine si ritrova comunque a
fare i conti con i propri limiti, con la necessità di darsi, ripescandoli nel
proprio bagaglio culturale, cardini precisi; anche se recuperarli significa
magari scegliere il suicidio.
Alla fine, al lettore che conosce la storia di Roth e la sua scelta radicale di rinuncia alla scrittura viene un dubbio: che l'abbandono della letteratura sia un tentativo di mettersi alla prova, sperimentando un modo di essere uomo ancorato all'autenticità dei propri principi basilari, al di fuori della rete di protezione della sua brillante immagine pubblica? Se così fosse, L'umiliazione conterrebbe già i germi di un'intima riflessione gravida di conseguenze sulla vita stessa dello scrittore.
Voto: 8
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