venerdì 6 ottobre 2017

John Ashbery, "Un mondo che non può essere migliore", Luca Sossella Editiore


 Di John Ashbery, poeta americano di prima grandezza scomparso poco più di un mese fa all'età di novant'anni, è quasi impossibile trovare traduzioni in italiano; la corposa antologia delle sue opere che oggi prendo in considerazione (a cura di Damiano Abeni e Joseph Harrison) costituisce forse l'unica versione nella nostra lingua dei suoi componimenti (sempre, opportunamente, con testo originale a fronte) reperibile in commercio.
 Questa scarsità di proposte è dovuta, certo, alla difficoltà intrinseca alla poesia di riprodurre in un idioma diverso da quello usato dall'autore scritti nei quali l'elemento metrico-prosodico può avere un ruolo centrale; conta di più, però, il fatto che oggi ci troviamo in tutto e per tutto nell'epoca dell'egemonia del romanzo.
 A tutto ciò si aggiunge il fatto che Ashbery è un poeta alieno dal tradizionale lirismo intimistico che, nelle sue varie declinazioni, costituisce la strada maestra della poesia italiana: i suoi componimenti sono sempre opere d'avanguardia, nel senso più colto e virtuoso del termine.
 Potremmo dire che egli è simile a uno scultore che modella le sue statue su forme classiche, ma con materiali eterogenei raccolti pescando a strascico nei mari della quotidianità contemporanea.
 Siccome la sua carriera si sviluppa su un arco temporale decisamente ampio, però, cambia la natura di questi materiali da costruzione, e inevitabilmente cambiano anche le forme a cui essi si prestano a dare vita e che, in un certo senso, suggeriscono di plasmare.
 Difficile dare conto della quantità notevolissima di temi, suggestioni e declinazioni stilistiche che si incontrano nella poesia di Ashbery: diciamo che piuttosto costanti risultano il dettato ostico, le citazioni erudite abilmente dissimulate nel corpo del testo, la trasformazione dell'abbrivio lirico in occasione per una profonda riflessione filosofica, la predilezione per la misura medio-lunga dei componimenti, un alto tasso di sperimentalismo, la presenza di una buona dose di ironia (a mo' di esempio, citiamo il distico finale di Vicinanza, componimento della raccolta Wakefulness - Stato di veglia - del 1998: "Non lasciarmi in questa selva!/ O, se lo fai, pagami perché ci resti").

 John Ashbery

  Le raccolte migliori, a mio parere, sono quelle pubblicate nel corso degli anni settanta del Novecento: al di la della celeberrima Self-Portrait in a Covex Mirror (Autoritratto in uno specchio convesso) del 1975, la mia poesia preferita è forse Syringa, contenuta in Houseboat Days (I giorni della casa galleggiante) del 1977. Anche per ragioni di spazio, però, voglio riportare qui un altro componimento notevole ma più breve, Late Echo (Tarda eco), parte di As We Know, 1979:

Soli con la nostra follia e il fiore preferito
vediamo che in vero non resta nulla di cui scrivere.
O piuttosto, si deve scrivere delle solite cose
nello stesso modo, ripetere sempre le stesse cose
perché amore continui a essere un po' diverso.

Alveari e formiche vanno rianalizzati in eterno
e il colore del giorno inserito
centinaia di volte e variato da estate a inverno
perché rallenti al passo di un'autentica
sarabanda e vi si annidi, vivo, e si riposi.

Solo allora la disattenzione cronica
delle nostre vite potrà avvolgerci, conciliante
e con un occhio a quelle lunghe ombre bronzee sfarzose
che parlano così fonde dentro la nostra impreparata coscienza
di noi stessi, i motori parlanti d'oggigiorno.

Voto: 6,5

Nessun commento:

Posta un commento