giovedì 24 ottobre 2019

Emanuele Trevi, "Sogni e favole", Ponte alle Grazie


 Questo libro - vincitore del Premio Viareggio Répaci - sembra venire da un'altra epoca: non si può definire un romanzo (a dispetto del richiamo a questo genere in copertina), né un saggio, né una memoria autobiografica; è invece, si può dire, tutte queste cose insieme.
 Autobiografico è l'episodio dal quale la narrazione prende le mosse, l'incontro avvenuto nel 1983 in un Cineclub di Roma - dove era stato appena proiettato un film di Andrej Tarkovskij - fra l'autore allora giovanissimo e Arturo Patten, fotografo, americano d'origine ma romano d'adozione, uomo dalla caleidoscopica personalità e dalla squisita sensibilità, artista vero. L'incontro segnò l'inizio di una amicizia solida e profonda.
 Autobiografico è il vagabondaggio di Trevi per le vie di Roma, che consente di fluire e di precisarsi ai pensieri che nascono dall'osservazione dal vivo di luoghi e di opere d'arte, e dal dilagare fra di essi della memoria letteraria e della memoria tout court, sulla scorta delle quali il filo narrativo si dipana.
 I personaggi che via via entrano in scena, invece, sebbene sempre legati a ricordi personali dell'autore, assumono una rilevanza culturale che gli elementi biografici e la fantasia romanzesca possono nutrire, ma che va comunque oltre queste istanze. Così è per il già citato Arturo Patten, così è per la poetessa Amelia Rosselli, così è per il critico Cesare Garboli; così è, soprattutto, per Pietro Metastasio, che da parecchi punti di vista si può considerare il fulcro di tutto il meccanismo narrativo.
 Metastasio è innanzitutto l'autore del sonetto da cui viene tratto il titolo del libro; una poesia che, vista l'importanza di cui è investita nell'economia del testo e del suo sviluppo, vale la pena riportare integralmente:

Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m'inganna l'arte,
più saggio io sono? E' l'agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l'amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa' che trovi riposo in sen del vero.

 Emanuele Trevi

 Ora, il sonetto di Metastasio, scritto nella primavera del 1733 a Vienna - dove la carriera di uno dei più famosi scrittori del Settecento, di umilissime origini, aveva trovato coronamento nel servizio presso la famiglia imperiale degli Asburgo - viene considerato da Trevi sommamente rappresentativo di uno stato d'animo e di una visione del mondo che vedono la vita come un grande incantamento in cui la suggestione conta assai di più di quell'entità sfuggente e forse intrinsecamente ectoplasmatica che viene definita "realtà", "vero", "verità". Un sentimento sorprendente per la sua ambivalenza in un artista perfettamente integrato nella società del suo tempo, organico al sistema, inquadrato come poeta di corte e per questo disprezzato dall'Alfieri e da tutti coloro, che - nel solco del tragediografo - considerano un ribellismo di maniera consustanziale alla figura dello scrittore "autentico".
 Questo sentimento, in sostanza simile a un profondo, consapevole spaesamento, può portare paradossalmente a collegare Metastasio a poeti da lui lontanissimi, come Lope de Vega, Fernando Pessoa o la già considerata Amelia Rosselli.
 La cosa curiosa è che queste riflessioni, che permeano il tessuto filosofico di cui il libro è tramato, quasi a chiudere romanzescamente il cerchio dell'itinerario narrativo, tornano a saldarsi in diversi modi alla concreta esperienza esistenziale dell'autore da cui hanno avuto origine; la sua e quella di chi egli ha avuto modo di conoscere direttamente.
 Innanzitutto, infatti, il compito di pubblicare un testo che analizzasse il sonetto di Metastasio sopra riportato era stato affidato a Trevi da Cesare Garboli che, arrivato agli ultimi anni della sua vita, era solito "commissionare" ad amici e conoscenti i libri che sentiva di non avere il tempo di scrivere; in secondo luogo, la singolare temperie emotiva espressa dal componimento trova riscontro in qualche modo anche nei tratti essenziali che caratterizzarono l'opera, lo stile, il modo di essere in cui si incarnò il genio tanto di Amelia Rosselli quanto di Cesare Garboli e di Arturo Patten.
 Così, Sogni e favole giunge a realizzare un livello di integrazione tra il tema e il suo svolgimento - e tra la forma e il contenuto - degno di un'opera barocca o di un libro di Italo Calvino, perseguendo nel contempo la ricerca di quella naturalezza che deriva dalla sprezzatura delle simmetrie esibite.
 Il risultato è senz'altro notevole, e ammirevole da ogni punto di vista la padronanza con cui il gioco viene condotto fino in fondo, arrivando a far vibrare qualcosa di profondamente umano fra le pagine di questo testo.

Voto: 7,5

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